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Autore: SmartieMiz    15/08/2014    2 recensioni
Haruka Nanase non parla molto o meglio, non parla più. Si esprime tramite la musica che è il suo tutto.
Makoto Tachibana non parla poco o meglio, forse parla anche troppo, ma sa rispettare i silenzi e ogni singola nota di Haru. Non capisce un granché di musica, ma quella di Haru lo avvolge. Teme l'acqua, ma accanto ad Haru non ha paura.
Con lui, Makoto dimentica ogni preoccupazione. Saranno l'uno l'ancora dell'altro.
Fino alla fine.
“Dimmi, allora, cosa si celava nei suoi occhi?
Vi era l’oceano. Erano blu come il mare, gelidi come il ghiaccio e travolgenti come la musica che suonava.”

[Lievemente ispirata a “La leggenda del pianista sull’oceano” | Pairing MakoHaru | Angst a palate]
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Haruka Nanase, Makoto Tachibana
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Titolo: Tasti neri e tasti bianchi (della nostra vita)
Rating: giallo
Genere: angst/drammatico/romantico
Pairing: MakoHaru

 

Note: Salve a tutti! Ecco il secondo capitolo! Lo posto oggi perché fino al 29 agosto non potrò postare nient'altro perché non ne avrò l'occasione çç Tuttavia, continuerò a scrivere sperando di poter postare il terzo cap al più presto!
Avviso: la storia è stata "stravolta", se così posso dire, nel senso che temo davvero di superare i 6 capitoli dato che mi sono venute un bel po' di idee... e quindi potrebbe diventare una sorta di minilong xD Mi scuso per questo!
Ringrazio tutti coloro che leggono :)
Spero che il capitolo vi piaccia e se voleste lasciare un parere ne sarei davvero curiosa e felice <3
Ringrazio Rossyj per il suo continuo appoggio e per tutto ♥

 


 

Questi personaggi non mi appartengono; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

 

 

~  Tasti neri e tasti bianchi (della nostra vita)



 






Atto II
Termine dell'apnea, addio al passato
 



Le giornate sulla nave trascorrevano in tutta tranquillità per Ran e Ren, e Makoto era felice di questo: i suoi fratellini avevano conosciuto altri bambini della loro età e giocavano con loro, spensierati. Un giorno erano ladri e poliziotti, un giorno maghi, un giorno cantanti. Quel giorno erano pirati.
Makoto girovagava per la nave, crucciato. Da quando ci era salito non riusciva a star fermo un solo minuto. Doveva farsi forza per i suoi fratelli e lo stava facendo egregiamente, ma quando era solo le paure tornavano a bussare alla sua porta.
Stava esplorando una zona della terza classe assolutamente deserta. Vi era una sorta di corridoio e alla fine di esso vi era una stanzetta dalla quale proveniva una melodia quasi malinconica.
Il pianista.
Makoto non sapeva se vi fossero altri pianisti su quella nave. Attratto da quelle note, attraversò l’intero corridoio ed entrò nella stanza senza fare il minimo rumore. Il pianista era lì e continuava a suonare con assoluta eleganza e maestria, senza nemmeno voltarsi indietro.
Silenziosamente, Makoto si fermò sulla soglia. Non riuscì a capire se il pianista avesse notato la sua presenza, tuttavia questi lo ignorò completamente, continuando a suonare in tutta tranquillità.
Eseguì quel susseguirsi di note tristi per molto tempo, ma a Makoto parve durasse molto meno.
Completamente rapito dalla musica, aveva totalmente dimenticato le sue preoccupazioni.
Impiegò qualche minuto per accorgersi che il giovane pianista lo stava scrutando con diffidenza.
Makoto si sentì in dovere di dirgli qualcosa. Ma cosa?
«Spero di non averti creato fastidio con la mia presenza», disse, quasi in preda all’imbarazzo.
Il pianista continuò a fissarlo, impassibile.
«D’accordo, ti ho infastidito, lo so, e ti chiedo scusa», parlò ancora Makoto, poi con un sorriso gentile e scherzoso aggiunse: «ma tu dovresti decisamente smetterla di suonare in questo modo così divino».
A quelle parole, Haruka lo fissò, intensamente, senza proferire parola. Makoto non sapeva che cosa pensare di quel silenzio da parte dell’altro. Forse Haruka non poteva parlare?
Il pianista interruppe il contatto visivo con lo sconosciuto e la sua concentrazione si spostò ancora una volta verso i tasti del pianoforte. Incominciò a provare delle note qualsiasi e a combinarle a caso, dando vita ad una melodia molto lenta e dal sapore quasi dolce, con un retrogusto amaro.
«Da quanto tempo suoni?», provò ancora a chiedergli Makoto.
Con leggerezza e grazia, Haruka continuava a suonare, incurante della domanda dell’altro.
«Da un bel po’, immagino. Sei molto bravo», continuò l’altro.
 

~

 
Il passeggero seccante ed impiccione di turno, pensò Haruka, infastidito. Ben presto la dolce e amara melodia improvvisata assunse un tono più forte e quasi violento che doveva riprodurre l’irritazione che il ragazzo provava in quel momento.
«Forse è meglio che vada via», disse Makoto con un altro piccolo sorriso. Doveva aver compreso qualcosa, almeno vagamente: «Buona giornata, e scusami ancora per essermi infiltrato».
Haruka distolse lo sguardo dal pianoforte – senza interrompere il suo componimento – e ricambiò il saluto con un piccolo cenno del capo.
Quando fu totalmente solo, respirò profondamente. Perché quel tipo doveva sempre ronzargli intorno?
Sempre, che esagerazione.  La sera prima si erano scontrati accidentalmente e quella mattina si erano incontrati casualmente.
Perlopiù, quell’individuo che avrebbe potuto rischiare una paralisi facciale a forza di sorridere aveva scoperto il suo cantuccio in terza classe, dove poteva suonare in assoluta solitudine tutto ciò che voleva con un pianoforte antico.
Magari non tornerà più a farmi domande, si sarà scocciato. D’altronde è quello che fanno tutti, pensò ancora Haruka, per poi chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare dalla musica.
 

~

 
Non appena Makoto ebbe lasciato la stanza segreta del pianista, si ritrovò ad andare a zonzo per la nave per ammazzare il tempo. Dovevano essere le nove del mattino: i passeggeri della prima classe parlottavano tra loro del più e del meno. Avevano volti coloriti, sorrisi radiosi e sguardi pieni di vita.
Forse quello era un viaggio di svago per i passeggeri più abbienti, o al massimo erano in visita per qualche lontano parente o ricco ereditiere americano.
Makoto, invece, aveva lasciato la sua Inghilterra a malincuore, dettato da esigenze più forti. Vi abitava da molto tempo, dato che aveva vissuto soltanto cinque anni della sua vita in Giappone, suo paese natale.
L’America era vista da tutti come una terra di prosperità e ricchezze. Makoto non cercava di certo il successo o le agiatezze, ma semplicemente un posto dove poter vivere in modo dignitoso e dove poter dare un futuro ai propri fratelli.
Ognuno troverà il suo posto nel mondo.
Quella frase gli era stata detta dalla signora Doyle. Aveva ragione? Makoto avrebbe mai trovato il suo posto in quel mondo così spaventoso?
«La piratessa Tachibana è in arresto!», Ren acchiappò al volo la sorellina che si dimenava tra le sue braccia.
«Non l’avrai mai franca, capitan Tachibana!», rispose lei con sguardo fiero, lasciandosi sfuggire una risatina.
«Ridatemi i miei soldati!», continuò Ren rivolgendosi ad altri bambini.
«Un vostro soldato in cambio di un nostro pirata!», rispose un bambino.
«Ma guarda! C’è anche il fratello maggiore della piratessa e del capitano!», disse ad un tratto Ran, notando la presenza di Makoto, poi lo prese per un braccio: «Lui ci aiuterà nella nostra impresa! Riuscirà a far riappacificare i due fratelli Tachibana?».
«Bambini, potete giocare ma non dovete urlar…».
«Lo scopriremo solo vivendo!», urlò sonoramente un bambino.
«Ben detto!», urlò in risposta Ren.
Le urla dei bambini catturarono l’attenzione dei passeggeri. «Ma insomma, la vorreste smettere di urlare?», strepitò una donna.
«Oh questi marmocchi! La gioventù!», mormorò invece un’anziana signora con un piccolo sorriso.
«E tu, ragazzo, non sei capace di mantenere un po’ di silenzio? Fatti valere!», un uomo con due lunghi mustacchi si rivolse a Makoto con fare severo.
«Mi scusi signore, sono mortificato…», rispose il ragazzo, facendosi rosso per l’imbarazzo.
«Riporta questi marmocchi dalle luride cabine dalle quali provenite, e in fretta», gli sibilò l’uomo, brusco.
«Non le permetto di parlare dei bambini in questo modo», rispose Makoto, serio.
«Non sto mica parlando solo dei bambini. Anche lei proviene da quelle luride cabine o mi sbaglio?».
Makoto si fece ancor più rosso, questa volta di rabbia. «Questi poveri straccioni…», lo provocò l’uomo con un sorriso sprezzante.
Il suo obiettivo sembrava esattamente quello di far esplodere Makoto ma lui, al contrario, con assoluta pacatezza disse: «Avrà anche del denaro che la rende ricco, ma è pur sempre povero di intelligenza».
A giudicare dallo sguardo, l’uomo si sentì altamente oltraggiato. «Come osi, miserabile…».
«Fratellone, scusaci… non vogliamo che litighi con l’antipatico riccone di turno!», disse la piccola Ran a Makoto.
All’affermazione della bambina, l’uomo rimase completamente a bocca asciutta. Makoto andò via portandosi con sé i fratellini e i loro amici, non senza prima essersi beccato un’altra occhiata bieca dall’uomo sconosciuto.
«Si è proprio arrabbiato, vero?», mormorò il piccolo Ren una volta imboccato il corridoio che conduceva agli alloggi di terza classe.
«Assolutamente sì», rispose Makoto.
«E anche tu lo sei, vero fratellone?», fece Ran, chinando il capo: «Scusa…».
«Già. Ci scusi, signore», disse uno dei bambini componenti della piccola combriccola.
Makoto scosse il capo con un sorriso. «Vi chiedo soltanto di giocare in silenzio. Non mi va di affrontare di nuovo quelle persone», disse, tranquillo.
I bambini annuirono, ma le parole di Makoto erano come volate al vento. Nell’aria si sprigionò un motivo curioso e accattivante, senz’altro eseguito al pianoforte.
«Riuscite a sentirla?», mormorò Ran.
«La musica!», rispose un bambino.
«Qui sulla nave c’è un pianoforte? Forte!», esultò Ren.
I bambini incominciarono a correre per il corridoio alla ricerca del magico strumento musicale.
«Bambini! No!», fece Makoto, cercando di inseguirli e di fermarli con scarsi risultati: «Non entrate in quella stanza! Vi ho detto di non farlo! Ma insomma, ascoltatemi!».
Ma i bambini erano già entrati nel cantuccio del pianista che, in pochissimo tempo, si ritrovò sommerso da quei piccoli esserini. Il ragazzo smise di suonare.
«Ma è Haruka!», esclamò Ran: «È il ragazzo che ha un nome femminile proprio come il mio fratellone!».
Haruka guardò i bambini, piuttosto stordito.
Un ragazzo alto e robusto comparve ancora una volta sulla soglia della porta, questa volta completamente affannato. «Scusami, sono assolutamente mortificato! Ho provato a fermarli ma hanno continuato a correre…», sparò a raffica Makoto, ansimante.
«Ci suoni qualcosa, signor Haruka? Per piaceeeere!», lo supplicò Ran.
«E adesso basta, davvero! Non infastidite anche il pianis…».
«Infatti! Suonaci qualcosa!», esclamarono i bambini, interrompendo Makoto e tutte le sue buone intenzioni.
Haruka annuì lievemente, per poi voltarsi e fissare Makoto: lo sguardo del pianista non era gelido e diffidente come le altre volte, piuttosto sembrava calmo se non addirittura sereno.
Haruka sfiorò i tasti del pianoforte per poi riprendere a suonare. I bambini, stregati, ascoltavano silenziosamente la musica del pianista come se fossero stati colpiti da una sorta d’incantesimo.
Makoto si ritrovò a sorridere. Era da molto tempo che non sorrideva in quel modo così sincero, con il cuore colmo di gioia e la mente libera dai cattivi pensieri e dai brutti ricordi.
Quando Haruka smise di suonare, i bambini applaudirono animatamente. 
«Ancora, ancora!», diceva Ren, esaltato.
«Adesso però è il momento di lasciar stare il pianista», esordì Makoto, sempre col suo modo di fare così gentile e affabile.
A quelle parole, i bambini sembrarono intristirsi. «Suonerai ancora per noi, signor Haruka? Ti prego!», gli disse la piccola Ran congiungendo le mani e guardandolo con due occhi pieni di speranza.
Soltanto dopo una manciata di secondi, il pianista annuì leggermente, facendo esplodere la bambina di gioia.
«Evviva! Allora noi andiamo a giocare. A presto, signor Haruka!», disse la bambina, per poi lasciare la stanza assieme a Ren e ai suoi amici.
Makoto scosse il capo, a metà tra il divertito e l’imbarazzato. «Anch’io da piccolo ero così. Forse un po’ meno sfacciato e molto più timido».
Non si direbbe, pensò Haruka, tenendo quel pensiero per sé, invano: il suo sguardo sembrò dire ogni cosa.
Makoto lo notò e se ne uscì con una piccola risata. «Lo so che non lo pensi ma credimi, è così».
Haruka si limitò a tacere, forse in attesa che Makoto dicesse qualcos’altro. «Comunque ho apprezzato tantissimo che abbia suonato per i bambini, davvero. Ti ringrazio in loro nome. Credo sia la prima volta che i miei fratellini e gli altri bambini abbiano visto un pianoforte dal vivo…».
Haruka si voltò verso il ragazzo. Non lo guardò con pietà o compassione, bensì con assoluto rispetto, o almeno era quella la sensazione che era giunta a Makoto.
Questi scosse il capo, quasi confuso. Che cosa ne poteva sapere lui dei pensieri dell’altro? Gli sguardi di Haruka non sembravano più distaccati e inespressivi come poco prima, ma al contrario sembravano piuttosto eloquenti. Possibile che a distanza di pochissimo tempo Makoto aveva già imparato a decifrare le espressioni del misterioso pianista?
Impossibile, si disse Makoto, sarà meglio che vada a farmi un giro.
Nell’esatto momento in cui quell’idea gli era balenata in testa, Haruka riprese a suonare quella melodia dolce e amara che aveva improvvisato quella mattina.
Ancora una volta Makoto non riuscì ad ignorarlo. Come avrebbe potuto ignorare tutta quell’eleganza e quella maestosità?
«Io… beh, devo andare. Ti tolgo il disturbo», si congedò il ragazzo con un piccolo sorriso.
 

~

 
Quel pomeriggio aveva tutte le carte in tavola per essere noioso. D’altronde, tutti i pomeriggi erano diventati noiosi per Haruka da almeno due anni…
 
«Lo sai cosa potremmo fare, Nanase?».
«No».
«Infiltrarci nelle cucine! Ho una gran fame!».
«Non ho nessunissima intenzione di farmi beccare e farmi cacciare da questa nave».
«Che noia che sei, però! E se suonassi qualcosa?».
«Suono soltanto per me stesso e quando ne ho voglia».
«Non è vero, dato che suoni tutte le sere per i ricconi di prima classe».
«Non c’entra. Quello lo faccio perché devo».
«E possibile che sei obbligato a suonare per loro e proprio non vuoi suonare qualcosa per me?».
 
Haruka era steso sul proprio letto. Ricordare faceva male perché fin quando l’uomo ricorda, non dimentica. E lui doveva assolutamente dimenticare il passato, e non rimuginarci sopra.
Chiuse gli occhi, sospirando profondamente. Quella mattina aveva ricominciato a respirare per qualche minuto: quella massa di bambini era stata come una piccola finestrella aperta sul mondo esterno.
Anche quel Makoto Tachibana era stato come una piccola boccata d’aria. Non era di certo uno di quei ragazzi frivoli che spendevano i loro soldi in gioco d’azzardo, donne, vino e cappelli nuovi, e questo era già un punto a suo favore.
Era umile e gentile, a volte anche impacciato e poco riservato, e Haruka si era quasi sentito in colpa per averlo bellamente ignorato e per avergli fatto intendere che gli risultava fastidiosa la sua presenza. Non che non lo fosse: Haruka suonava per sé e allo stesso tempo si esprimeva e non gli piaceva l’idea di condividere i suoi pensieri con altre persone, ma Makoto aveva qualcosa di differente dagli altri ed era riuscito a capirlo con un solo sguardo, anche se non sapeva esattamente cosa.
Haruka decise di alzarsi dal letto e di uscire dalla propria cabina. Non lo faceva da due anni: aveva imparato ad attendere la sera per poter uscire e ad utilizzare la mattinata come momento della giornata per poter suonare per conto proprio, tagliando completamente i ponti col genere umano.
 

~

 
Ran e Ren si erano addormentati, esausti dopo una mattinata di corse e giochi per la nave. Makoto era in una piccola saletta di terza classe piuttosto gremita di gente, sconsolato e afflitto da ricordi poco felici.
Provò a combattere la malinconia con la sua arma migliore: tra le mani aveva un diario di piccole dimensioni e una penna. Provò a rileggere le ultime battute della sua nuova opera, ancora incompleta.
 
 
Paul: Dimmi, allora, cosa si celava nei suoi occhi?
James: Tutto… vi era il mondo. Eliza era il centro di tutto.
 
 
«Patetico», mormorò Makoto tra sé e sé, barrando l’ultima frase.
«Lei è uno scrittore, signore?», gli domandò con interesse una ragazza seduta accanto a lui.
«Scrivo opere teatrali, ma non sono né uno scrittore né un drammaturgo», rispose lui, semplicemente.
«È buffo il fatto che uno dei suoi personaggi si chiami come me e che Paul sia il nome del mio fidanzato», disse la ragazza con un piccolo sorriso.
Makoto arrossì terribilmente. «Lei… lei stava leggendo?».
«Mi perdoni, ma non sono riuscita a trattenermi. Mi piace leggere, da quando ho imparato a farlo non riesco a smettere», rispose lei.
«Si figuri», fece Makoto, poi domandò: «Dunque? Il suo nome è Eliza?».
«Esattamente», disse lei: «Non ci sarà un lieto fine per Eliza e Paul, vero?».
Makoto sospirò. «Vuole davvero saperlo?».
La ragazza annuì, sempre più incuriosita. «In realtà credo che il lieto fine non ci sarà per nessuno».
 

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