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Autore: arya_stranger    15/08/2014    4 recensioni
Quando ti svegli in un luogo assurdo e non ti ricordi più niente la paura ti attanaglia lo stomaco e le viscere. Però un piccolo ricordo affiora lentamente, un viso, quello di un ragazzo. E se poi scoprissi che sei morto e che l’unica soluzione per tornare in vita è superare una missione? E se la missione fosse quella di aiutare delle persone confuse a ritrovare il loro cammino? Accetteresti?
E se poi ti innamorassi? Cosa faresti?
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(dal testo)
«Non sarei riuscito a descrivere a parole lo spettacolo delle stelle in una notte d’inizio agosto come quella. Forse perché non ce ne sono. Se non l’hai visto non potrai mai capire come è realmente. Sarebbe come spiegarlo ad un cieco. [...]
Da dove stavo, le stelle mi sembravano solo minuscoli puntini brillanti che luccicavano accanto alla luna; ma il realtà sono enormi masse di gas e nemmeno concentrandomi riuscivo ad immaginare la loro grandezza. Ci sono concetti, come l’infinito, che l’uomo non potrà mai capire per quanto si possa sforzare. [...]
Non siamo concepiti per comprendere queste cose. L’uomo è piccolo e non è altro che un acaro di polvere paragonato all'universo.»
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[FANFICTION REVISIONATA IL 19/08/15]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Nuovo personaggio, Un po' tutti | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Second Chance'
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18

La felicità può nascere solo dalla tristezza




 
 
Avevo già potuto verificare quanto fosse difficile svegliare Frank quando era una notte intera che dormiva, ma in quel momento stavo constatando quanto fosse difficile farlo addormentare.
«Frank, cazzo» esclamai, «dormi!»
Erano le due di notte, ed ero stanco morto. Avrei anche potuto dormire in piedi con gli occhi aperti e Frank non aveva la minima intenzione di chiudere quei suoi bellissimi occhi per dormire e non la smetteva un attimo di parlare.
«Ma non ho sonno» mormorò avvicinandomisi e baciandomi i capelli.
La stanza che ci aveva Anthony era davvero bella. La prima volta che l’avevo vista ci ero stato troppo poco tempo per esaminarla attentamente, ma quella sera, verso le undici, io e Frank eravamo saliti di sopra e ci eravamo chiusi nella stanza. Tecnicamente per dormire, ma, come già detto, Frank non ne voleva sapere.
«Mi spieghi cosa ti ha messo tuo padre nel dolce stasera?» borbottai. «O forse ti sei scolato qualche litro di caffè di nascosto?» Mi voltai verso Frank e lo vidi sorridere.
«No» fece, «sono solo felice. Ho ritrovato mio padre e trascorrerò con te una settimana bellissima. Tu non sei felice?»
Gli presi il mento con una mano e lo baciai dolcemente sulle labbra. «Certo che sono felice» sussurrai. «Ma ora dormi, per favore.»
Mi accarezzò piano una guancia e ricambiò il bacio. Poi si distese per bene sul letto e si rannicchiò con la schiena contro il mio petto. Io gli cinsi la vita con un braccio e finalmente riuscii a chiudere gli occhi.


La mattina a svegliarci fu la luce tenue che proveniva dalle finestre, anche se queste erano coperte da spesse tende blu. Come al suo solito Frank cominciò a borbottare e a tirarsi il piumino del letto fin sopra la testa per ripararsi dalla luce e continuare a dormire.
Io mi alzai piano e aprii le tende completamente. Sentii Frank che si lamentava. Poi andai da lui e gli tolsi le coperte di dosso.
«Così me la paghi per ieri sera» dissi trionfante quando lui cominciò a lanciarmi una serie d’insulti che avrebbe potuto riempire un vocabolario solo con quelli.
Risi mentre Frank, ormai completamente sveglio, si alzava e cominciava a stropicciarsi gli occhi. Mi mandò un’occhiataccia e poi si chiuse in bagno.
Appena ne uscì ci entrai io e quando fummo pronti scendemmo.
Non so perché, ma quasi mi aspettavo di trovare Ed che preparava indaffarato la colazione in cucina, al contrario, il piano di sotto era deserto.
«Mi sa che mio padre è ancora a letto» osservò Frank.
«Dev’essere una cosa di famiglia avere il sonno così pensante.»
Frank fece un verso non meglio identificabile e si diresse in cucina, dove cominciò ad apparecchiare la tavola. Lo seguii e mi misi a preparare il caffè. Dopotutto io non ero nessuno in quella casa, se non il ragazzo del figlio del proprietario, anche se lui non lo sapeva.
«Frank» lo chiamai, «cosa intendeva ieri tuo padre quando diceva che gli hai parlato di me?»
«Intendeva dire quello che ha esattamente detto» rispose.
«E cosa gli hai detto?»
Frank alzò le spalle noncurante. «Nulla di ché.»
«Frank» cercai di attirare la sua attenzione, «gli hai detto o no che stiamo insieme?»
Frank smise di fare quello che stava facendo per un attimo e poi riprese. «No» scosse la testa, «non posso dirglielo finché non so che reazione avrebbe.»
«Capisco» annuii. «Beh, comunque solo Ed lo sa, a meno che tu non l’abbia detto a qualcun altro.»
Non mi andava di raccontagli la verità su ciò che avevo detto a Rachel dopo che avevamo litigato. Lei lo sapeva. Ma non desideravo che Frank conoscesse il fatto che avevo riferito una cosa così delicata a lei senza il suo permesso.
Frank andò verso la cassettiera che conteneva le posate e prese cucchiaini, coltelli, e forchette per tre. «Io non l’ho detto a nessuno.»
«Pensi che dovremmo?» chiesi esitante.
Sospirò. «Non lo so Gerard, davvero. Non so se sia la cosa giusta o meno.»
«Io un po’ ci ho pensato» ammisi. «Per esempio, penso che Rachel e Jimmy dovrebbero saperlo. Loro non si faranno molti problemi, so che lo accetteranno. E poi Rachel l’ha già capito.»
Aveva appena finito di apparecchiare, così si sedette su una sedia rivolta verso di me. «Io non ho niente da dire a nessuno.»
«In che senso?» domandai un po’ spiazzato. Intendeva che non gli importava che gli altri lo sapessero? «Ti vergoni?»
«Mi vergono di cosa?» fece confuso.
«Di amarmi» precisai, «ti vergoni di amarmi?»
«No, assolutamente, come potrei?» esclamò. «Io sono orgoglioso di amarti. Intendevo che non nascondo nulla, a parte il fatto di amarti, ma lo sai che lo faccio per noi.»
«Non capisco.»
«Gerard» cominciò, «nel caso di Rachel e Jimmy posso fare un’eccezione, forse, ma non so se voglio dirlo ad altri, non so nemmeno se voglio dirlo a loro.»
«Perché?» domandai.
In quel momento fui sollevato: per fortuna non gli avevo detto che avevo riferito tutto a Rachel, perché si sarebbe sicuramente arrabbiato.
Si scostò qualche ciocca di capelli che gli era finita sulla fronte. «Non lo so, ho paura.»
Mi avvicinai piano a lui e mi chinai per raggiungere la sua altezza, visto che era seduto e io in piedi. Gli accarezzai piano una guancia. «Non devi avere paura» mormorai. «Lo sai che io sono con te.»
Fece un debole sorriso e mi prese la mano che avevo sulla sua guancia per stringerla. «Non so se sono ancora pronto. Ho bisogno di tempo.»
Noi, di tempo, non ne avevamo punto, ma feci finta di nulla.
«Hai tutto il tempo che vuoi Frank. Tutto.»
«Mi dispiace» si scusò mentre mi sedevo vicino a lui, prendendo una sedia. «Ma questa cosa è più grande di me. È successo tutto in fretta e non ho avuto il tempo di comprendere.»
«Anche per me è stato così» ammisi, e forse era ancora così. «Ma non c’è molto da comprendere, non credi? Ci amiamo e questo è tutto quello che c’è da sapere.»
Mi sorrise, tristemente. «Hai ragione, ma forse non siamo noi quelli che dobbiamo comprendere. Chi deve comprendere sono gli altri »
Annuii, era esattamente la verità quella che aveva appena detto. «Bisogna vedere se gli altri capiranno» osservai. «È per questo che ho proposto di dirlo a Rachel e Jimmy, per vedere come reagiranno loro e agire di conseguenza.»
Frank voltò la testa per poi tornare a guardarmi. Interpretai quel gesto come d’incertezza. «Secondo te è la soluzione giusta?»
Feci sì con la testa. «Dobbiamo, per noi e per rispetto a loro.»
Mi lasciò la mano e si mise le sue in grembo, pensieroso. «Okay» decise alla fine, «quando torniamo diremo loro tutto.»
Lo baciai sulle labbra. «Perfetto» dissi soddisfatto.
Lui ricambiò il bacio. «Lo faccio solo per te.»
Appena ci staccammo Anthony entrò in cucina con un’espressione stupita. «Già svegli?»
Non rispondemmo nessuno dei due, era abbastanza ovvio che fossimo già svegli, non aveva senso fare una domanda del genere.
Misi il caffè in tavola e qualcosa da mangiare che avevo trovato nella dispensa. Anthony si sedette a capotavola e si versò un po’ di caffè. Frank, che era già seduto, avvicinò la sedia al tavolo e cominciò a mangiare. Io, appoggiato al lavello, non avevo per nulla fame e mi misi a osservare Frank e suo padre. Sembravano davvero una famiglia, certo, non c’era una figura femminile, ma erano pur sempre una famiglia. Sentii una fitta allo stomaco e non capii perché. Alla fine decisi che avrei almeno bevuto un po’ di caffè per svegliarmi.


La vita a casa del padre di Frank era a dir poco piacevole, non facevamo nulla di particolare, ma l’aria che si respirava costantemente era fantastica.
Erano già passati tre giorni da quando eravamo arrivati, e sentivo che il tempo mi stava letteralmente scivolando via dalle dita. La mattina la trascorrevamo per lo più stando in cucina, prima per fare colazione, e poi per mettere insieme qualcosa per il pranzo. Dopo aver mangiato, Anthony si metteva a leggere il giornale e io e Frank facevamo quello che capitava: o guardavamo la TV, o io disegnavo mentre lui mi guardava, oppure semplicemente parlavamo. Il pomeriggio stavamo tutti insieme: camminavamo, anche se fuori era decisamente freddo, ci rinchiudevamo nei bar e ci passavamo tutto il pomeriggio con qualcosa di caldo da bere e una fetta di torta, altre volte capitava che per il troppo freddo facevamo qualche gioco di società in salotto, per terra sul tappeto. Comunque io ero negato, e pure Frank, quindi vinceva sempre Anthony, ad eccezione di una volta in cui lui si era un attimo assentato per una chiamata e io e Frank avevamo preso un po’ di soldi dalla cassa del Monopoli e lui non si era accorto di nulla. Gioco sporco? Sì, ma per una buona causa.
Esattamente il terzo giorno, Anthony ci venne a svegliare dicendoci che sarebbe stato via tutto il giorno perché c’era un’emergenza all’ospedale.
Io e Frank ci rimettemmo a dormire, era davvero presto e solo dopo due o tre ora decidemmo di alzarci.
Scendemmo ancora in pigiama e rimanemmo quasi tutta la mattina a fare colazione.
«Frank?» lo chiamai. Lui mi rispose con un mugolio. «Siamo troppo pigri.»
Lui alzò un sopracciglio. «È un problema?»
«Beh» borbottai, «non lo so, forse sì.»
«E cosa proponi per rimediare alla nostra pigrizia?»
Ci pensai un attimo. Cosa potevamo fare? «Il giorno in cui siamo arrivati, quando siamo andati a pranzo fuori, ho notato un cimitero monumentale lì vicino. Mi piacerebbe andarci per vedere se c’è qualche statua interessante da disegnare.»
Frank mi guardò perplesso. «Sei buffo» ridacchiò poi.
Fu il mio turno di guardarlo con aria perplessa. «Perché?»
«Perché penso tu sia l’unica persona che proporrebbe al proprio ragazzo di andare in un cimitero monumentale per fare dei disegni.»
Sbuffai. «Non importa.»
«Non dicevo questo.» Si avviò all’ingresso e io lo seguii. Si infilò la giacca e mi porse la mia. «Certo che andiamo, però prima ci prendiamo un boccone.»
Sorrisi e uscimmo di casa. In effetti non penso esistano molti ragazzi che vanno nei cimiteri per ritrarre statue, ma io non ero assolutamente normale, ero morto e poi ero tornato in vita, non potevo esserlo.
Ci fermammo alla stessa tavola calda del primo giorno, e mangiammo qualcosa abbastanza velocemente. Dopo aver pagato ci dirigemmo verso il cimitero monumentale.
Il cancello era grande e in ferro battuto. Spinsi uno dei due battenti verso l’interno e quello cigolò rumorosamente prima di aprirsi. Aspettai che anche Frank entrasse e poi socchiusi il cancello.
Era davvero un luogo particolare. Potrei definirlo “bello”, ma nella morte e nelle tombe non c’era davvero nulla di bello, e ve lo posso assicurare, ma c’era un aura di fascino e mistero che incantava.
Le tombe erano tutte molto grandi e decorate con statue: proprio quello che cercavo io. Ci mettemmo a fare un giro e per passare il tempo cominciai a leggere le varie iscrizioni sulle lapidi. Notai che molte delle persona che erano state seppellite lì erano morte durante guerre o epidemie. In effetti le tombe erano tutte abbastanza antiche, quasi nessuna era recente.
Alla fine trovai la statua di un angelo che faceva al caso mio. Era molto alta, l’angelo aveva dei riccioli scolpiti sul capo e intorno al volto, il viso era altero e guardava dritto in avanti, le ali erano spiegate all’indietro, ed erano davvero possenti. Ma la cosa che mi piaceva di più e che più mi aveva colpito era la spada che impugnava. Teneva entrambe le mani sull’elsa e la punta della lama poggiava per terra. Era una scultura bellissima. Mi chinai per vedere se ci fossero delle iscrizioni sull’autore o su chi fosse l’angelo in questione, ma non vi trovai niente. Così mi sedetti su un masso che stava più o meno davanti alla statua e presi il blocco da disegno che avevo nello zaino e una matita.
Prima di cominciare mi voltai per vedere dove fosse Frank e lo scorsi fra due cipressi che camminava con le mani in tasca. Decisi di non disturbarlo, dopotutto aveva tutto il diritto di stare da solo e di pensare. Se voleva la mia compagnia non doveva far altro che venire da me.
Aprii il blocco da disegno su una pagina bianca e cominciai ad osservare meglio l’angelo.
Cominciai a tracciare una bozza schematica per non sbagliare nel corso del disegno e poi iniziai dal volto. Gli occhi erano ben aperti e guardavano in avanti. Non erano esattamente espressivi, ma comunicavano autorità e potenza. Il naso era perfetto, un po’ all’insù ma non troppo e creava un’ombreggiatura sul lato destro del volto a causa della luce del sole. Le labbra erano sottili e serrate con gli angoli leggermente piegati verso in basso in un’espressione severa. La forma del viso era quasi un triangolo con la mascella affilata e il mento appuntito. Cominciai poi a delineare i boccoli dei capelli. I riccioli erano abbastanza lunghi, gli ricadevano un po’ sulla fronte in onde morbide e ai lati del viso, ed erano scolpiti perfettamente. Appena ebbi finito con i capelli, cominciai a tracciare velocemente gli abiti, ma poi iniziai le ali. Erano enormi, quasi quanto l’angelo stesso. Trasmetteva la loro morbidezza e la loro potenza. Tracciai il contorno e poi lasciai qualche segno ad indicare le piume e la struttura più rigida vero l’esterno delle ali. Completai gli abiti, una lunga veste son una cintura in vita. Lasciai per ultima la spade che realizzai con estrema precisione. Volevo che sembrasse vera, quasi come se dovesse uscire dal foglio. Disegnai l’elsa con sopra le mani dell’angelo, la guardia semplice, ma allo stesso tempo bellissima e infine la lama, affilata e più spessa al centro.
Rifinii il disegno e quando ebbi terminato mi alzai per andare a cercare Frank. Sperai non si fosse perso, anche se il cimitero non era così poi gigante.
Cominciai e girare fra le varie tombe, statue e cipressi che ogni tanto mi sbarravano il cammino. Feci lo slalom fra le lapidi e alla fine scorsi la figura di Frank. Era piegato su una tomba, in ginocchio per terra, non capivo molto bene cosa stesse facendo da lontano, ma mi avvicinai per verificare.
Quando fui a qualche passo da lui sentii che singhiozzava. Mi inginocchiai con lui e gli misi una mano sulla spalla.
«Ehi» gli sussurrai in un orecchio, «cosa c’è?»
Continuava a piangere con il viso fra le mano. Io alzai lo sguardo e capii subito cosa stesse succedendo. Era davanti ad una lapide, abbastanza spoglia: non molto adatta ad un cimitero monumentale. C’era un nome su quella tomba, solo un nome, né una data né una frase: Linda Pricolo. Era la madre di Frank, la sua vera madre. Mi sentii gli occhi pizzicare ma ricacciai indietro le lacrime, non potevo piangere anche io.
«È per questo che mio padre è venuto ad abitare qui.» Non mi ero accorto che Frank avesse alzato la testa e mi stesse guardando.
Annuii e cercai di asciugargli le lacrime, ma quelle continuarono a scendere.
«Perché nessuno mi dice mai nulla?» disse disperato. «Perché?»
Lo avvicinai a me e posai la mia fronte sulla sua. «Non lo so Frankie. Forse non ti vogliono far soffrire più di quanto tu non soffra già.»
Era una spiegazione pessima, ma non sapevo cosa dire.
«Ma così è peggio» singhiozzò. Mi abbracciò e seppellì le testa nell’incavo fra la mia spalla e il mio collo. Sentii lacrime calde che finivano sulla mia pelle fredda. Gli accarezzai la schiena dolcemente, nel tentativo di calmarlo, ma non penso sia bello trovare la tomba di una madre che non si è mai conosciuta.
Nel frattempo il sole cominciò a calare. Non mi ero reso conto del tempo che passava e dovevano essere le cinque di pomeriggio. Aiutai Frank ad alzarsi e uscimmo dal cimitero, verso la strada per tornare a casa di Anthony.
Non disse nulla per tutto il tragitto, tremava abbracciato a me, sia per il freddo che per lo shock. Io cercavo di riscaldarlo strofinandogli le mani addosso, ma non è che funzionasse molto.
Quando arrivammo davanti alla porta era completamente buio e Frank prese le chiavi che aveva infilato in tasca prima di uscire. Appena entrammo notammo che Anthony doveva già essere tornato a casa. Le luci erano accese e la sua giacca era appesa nell’attaccapanni all’ingresso.
Facemmo qualche passo in avanti fino a raggiungere il salotto dove Anthony guardava la TV.
«Ciao ragazzi» ci salutò con un sorriso. «Dove siete stati?»
Si voltò un attimo e notò che Frank era addosso a me e non diceva nulla. Io mi sedetti e feci sedere anche Frank.
«Siamo andati al cimitero monumentale» cominciai, «lo sai, io disegno e volevo ritrarre qualche statua. Mentre disegnavo Frank si è fatto un giro e ha trovato la tomba di sua madre.»
Vidi Anthony che impallidiva e che si avvicinava piano a Frank.
«Mi dispiace non avertelo detto» si giustificò. «Non è che non te lo volessi dire, non volevo farti stare male inutilmente.»
Frank si asciugò le lacrime a guardò suo padre. «Sei venuto ad abitare qui per questa ragione?» chiese.
Anthony annuì. «Ci siamo conosciuti qui» spiegò. «Era estate e con alcuni miei amici decidemmo di venire qui a svagarci un po’ dal caldo della città. Questi miei amici portarono altri amici, e insomma, la conobbi. Quando si ammalò, prima che nascessi, mi disse che voleva essere seppellita qui. Mi chiese anche di non scrivere nient’altro sulla lapide eccetto il suo nome. Io le domandai il motivo e lei mi rispose che il tempo non è così poi importante, sono importanti i momenti. All’inizio non capii cosa intendesse, ma poi, quando tu sei nato e quando lei è morta, l’ho capito. Bisogna vivere ogni momento della nostra vita come se fosse l’ultimo, perché non sai mai quello che ti potrebbe succedere» sospirò. «Aveva ragione e io non le ho dato retta. Ho sbagliato, Frank. Ti ho abbandonato, ho abbandonato l’unica cosa che avessi al mondo.»
Una lacrima lucida gli percorse il volto, ma Anthony fu veloce ad asciugarla.
«Okay» disse Frank, «ti capisco, non sono arrabbiato.»
Suo padre gli sorrise incoraggiante con gli occhi un po’ lucidi. Sarei voluto andare via, non c’entravo nulla in quella situazione, era una cosa fra loro due, ma Frank faceva parte della mia vita e io della sua, quindi tutto quello che riguardava uno riguardava automaticamente anche l’altro.
Frank e suo padre rimasero un po’ a guardarsi e poi risero.
«Io vado a vedere se riesco a preparare qualcosa per la cena» annunciò.
«Ma sono le cinque del pomeriggio» obiettò Frank.
«Mi ci vorrà molto tempo per vedere di compicciare qualcosa» e dopo aver detto questo, Anthony scomparì in cucina.
Dopo circa tre ore la cena fu pronta e nonostante tutto ciò che Anthony aveva preparata facesse abbastanza schifo, io e Frank fummo pieni di complimento, per non offenderlo e soprattutto per incoraggiarlo a migliorarsi.
Appena finito di mangiare, Frank mi disse che era molto stanco e andò sopra.
«Io aiuto tuo padre a rimettere a posto e poi ti raggiungo» lo informai.
Frank salì le scale e scomparve dietro esse.
«Da quanto tu e Frank vi conoscete?» mi domandò Anthony mentre cominciavamo a sparecchiare.
«Circa tre mesi.»
«State molto bene insieme» sorrise.
Quasi mi cascò la pila di bicchieri che avevo creato. «C-come?» balbettai.
«È abbastanza ovvio che fra voi c’è qualcosa che non è semplice amicizia.»
Sbarrai gli occhi. «Io…»
Anthony rise e mi tirò una pacca sulla spalla. «Ehi» mi disse, «non è assolutamente un problema per me. Mi basta che siate felici.»
Forse la vera risposta era che io e Frank eravamo decisamente stupidi, perché tutti si accorgevano che fra noi due c’era qualcosa, ma non ci facevamo mai caso e soprattutto ci eravamo accorti tardi che ci amavamo. Rachel l’aveva capito per prima. 
«Io voglio che Frank sia felice» dissi.
«Lo so» annuì. «Ma se tu non sei felice lui non portò mai esserlo.»
«Ma io sono felice» osservai, come se fosse la cosa più evidente del mondo.
«Ho qualche anno di esperienza di più di te. Abbastanza da capire che non sei esattamente felice e che c’è qualcosa che ti turba, costantemente. Hai una ruga sulla fronte che se ne va raramente.»
Rimasi stupido dall’osservazione di Anthony, prima di tutto perché aveva ragione, secondo perché quella cosa della ruga era abbastanza strana.
Non aggiunsi nulla e lui parlò al mio posto. «Promettimi che veglierai su di lui.»
«Certo.» L’avrei fatto anche dall’aldilà, non mi importava a che prezzo, avrei sempre controllato che Frank stesse bene. Era la mia vita, era tutto per me, non avrei mai permesso che gli succedesse qualcosa di brutto.
«Grazie, sei un bravo ragazzo.»
Gli sorrisi debolmente e finii di mettere nel lavello tutte le stoviglie che avevamo usato.
«Va pure da lui» mi disse poi Anthony.
«Va bene» annuii, e mi precipitai verso le scale.
Entrai in camera. Frank era disteso sul letto e fissava il soffitto. Non avevo mai capito cosa ci trovasse di tanto interessante nei soffitti, ma gli fissava spesso.
Mi chiusi la porta alle spalle e mi distesi accanto a lui.
«Va tutto bene?» gli domandai sporgendomi verso di lui e girandomi a pancia in giù.
Lui annuì e mi sorrise. Poggiai la fronte sulla sua e chiusi gli occhi. «Ti amo» sussurrai.
Lui mi sollevò il mento e mi bacio sulle labbra. Un bacio dolce, quasi triste. Ricambiai il bacio e gli accarezzai la guancia.
Lo sentii sorridere contro la mia bocca e approfondii il bacio. Può sembrare una cosa stupida, ma io amavo baciarlo. Sentire il suo sapore nella mia bocca, sapere che il quel momento sarebbe potuta scoppiare una bomba e noi saremmo rimasti lì, nella stessa identica posizione, l’uno vicino all’altro.
Si staccò un attimo e mise il suo viso contro la mia guancia, sentii le sue ciglia che sbattevano e che mi facevano il solletico sulla pelle.
«Anche io ti amo.» Mi baciò la guancia e sorrisi. Non avrei scambiato quel momento con nulla al mondo.
Frank era una parte di me, senza lui io mi sentivo come se mi mancasse un braccio o una gamba, e non è per esagerare, era esattamente così. Non capivo come la gente potesse vivere senza amare e mi chiesi come io avevo potuto vivere senza amare qualcuno. Ho sempre pensato che l’espressione “anima gemella” fosse stupida, e lo pensavo ancora, ma un fondo di verità c’era. La persona che si ama non è esattamente l’anima gemella, è proprio l’altra parte della tua anima che si incastra con la tua per completarla. Ma se non si è mai amato è una cosa che non si può capire.
Continuai a baciarlo. Gli accarezzavo la schiena e sentii che aveva freddo, tremava.
«Hai freddo?» gli chiesi.
Lui annuì e senza curarsene più di tanto riprese a baciarmi. Lo spostai delicatamente in modo che potessi tirare su le coperte e mettercele addosso. Mi resi conto che avevo ancora le scarpe, così me le sfilai velocemente e le scalcai fuori dal letto.
Le labbra di Frank erano bollenti e così anche le sue guance. Gli accarezzai i capelli lentamente, facendo attenzione a non tirarglieli per non fargli male.
Si avvicinò ancora di più a me e mi circondò il busto con le braccia. E continuai a baciarlo, perdendo la cognizione del tempo.


La mattina dopo ci svegliammo che avevamo ancora i vestiti del giorno prima. Ci cambiammo velocemente e scendemmo per aiutare Anthony con la colazione, sempre se era già sveglio. Appena arrivammo in salotto lo trovammo alle prese con i fornelli.
«Ehi ragazzi» esclamò, «vi piacciono le frittelle?»
Io e Frank ci sedemmo a tavola sorridendo, aspettando le famose frittelle di Anthony.
«Avete dormito bene?» ci chiese mentre poggiava un piatto pieno di pseudo-frittele davanti a noi.
«Sì, papà» affermò Frank.
Sorrisi. Non avevo mai sentito Frank rivolgersi a suo padre con l’appellativo “papà”. Beh, era più che normale, ma mi faceva un po’ strano. Forse anche Anthony se ne accorse.
Pensai che non ci fosse cosa più dolce e fragile di Frank.
Mangiammo insieme, come tutte le mattine, parlando fra di noi.
Il pomeriggio decidemmo di andare a fare una passeggiata, non era una giornata particolarmente fredda e decidemmo di approfittarne.
Uscimmo nel primo pomeriggio e cominciammo a camminare senza una meta precisa. Una cosa mi dispiaceva, non c’era la neve e non si decideva a nevicare. Frank amava la neve, e un perfetto regalo di Natale sarebbe stata una bella nevicata.
Anthony camminava davanti a noi e Frank mi prese la mano, intrecciammo le dita, come facevamo sempre.
Passammo davanti al bar dove si ritrovavano i ragazzi, e essendo le vacanze di Natale era pieno, nessuno era a casa a studiare o a lavorare.
Nessuno fece caso a noi e continuammo la nostra passeggiata.
Entrammo in una zona un po’ più isolata, piena di alberi sempreverdi, era una specie di parco, non c’era nessuno.
Con la coda dell’occhio mi resi conto che Frank mi stava guardando. Mi voltai verso di lui e gli stampai un bacio sulla tempia. Lui sorrise e si strinse a me.
Passammo davanti ad un cassonetto dell’immondizia e sentii un rumore stano. «Che c’è?» chiese Frank anticipando la mia domanda.
Anthony si fermò con noi. «Proviene dai cassonetti dell’immondizia» osservò.
Lo vidi scomparire dietro uno di essi. Sentii altri rumori, come mugolii e fruscii di scatole.
Dopo un po’ io e Frank vedemmo Anthony ricomparire con un cucciolo fra le braccia. Era un piccolo cane, probabilmente qualcosa tipo un labrador. Non doveva avere più di un paio di mesi.
Piangeva e mugolava. Appena vide il cucciolo gli occhi di Frank si illuminarono, corse incontro suo padre e prese in braccio il cucciolo. Questo si arpionò addosso a Frank, come avesse paura di cadere. Frank cominciò ad accarezzarlo piano e a sussurragli cose che non riuscii a capire. Poi mi avvicinai anche io e accarezzai sulla testa il cucciolo.
«Chi avrebbe il coraggio di gettare fra la spazzatura un essere così?» domandai infuriato.
«Solo un mostro» rispose Frank continuando a tranquillizzare il cane.
«Non possiamo lasciarlo qui» osservò Anthony.
«Viene a casa con noi!» esclamò entusiasta Frank baciano il cucciolo sulle orecchie.
Anthony scosse la testa sorridendo. «Ora come faccio a dirgli di no» mormorò.
Alla fine il cucciolo venne a casa con noi. Nella prima ora distrusse un cuscino, poi si appisolò sul divano e noi andammo a cena. Anthony non aveva potuto preparare un gran ché, era stato occupato a rimediare ai danni del piccolo essere che ci eravamo portati dietro.
Frank era euforico, si era innamorato del cane e ora non immaginavo nemmeno di toglierlo, non ci sarebbe riuscito nessuno.
«Mi sa che Victoria non me lo lascerà tenere» disse mentre mangiava, sconsolato.
«Penso anche io» osservò Anthony. «Se vuoi lo posso tenere io e tu potrai venire a trovarlo tutte le volte che vorrai.»
Frank si alzò di scatto dalla sua sedia e andò ad abbracciare suo padre. «Grazie papà!»
«Okay, okay» disse lui. «Ma lui dove dorme?»
«Dorme con noi» propose di slancio Frank. «Vero Gerard?»
Mi ci volle qualche secondo per capire. «Cosa? Non credo sia una buona idea, è piccolo, lo potrei schiacciare.»
«Dai» mugolò, «il letto è grade abbastanza anche per lui. Per favore, Gerard.»
Alzai gli occhi al cielo. «E va bene» acconsentii.
Questa volta venne ad abbracciare me e quasi mi strozzò.
Andammo a letto che Frank era piuttosto agitato, più del solito s’intende. Prese Il piccolo cane e lo mise dentro al letto, fra me e lui.
«Scusami eh,» protestai, «ma io non posso nemmeno abbracciarti?»
Frank mise la sua schiena contro di me così che io potessi abbracciarlo e poi si mise il cucciolo in grembo.
«Così va bene?» mi domandò.
«Perfetto» annuii.
La piccola creatura si addormentò subito, era stanco, e forse avremmo fatto meglio a portarlo da un veterinario il giorno dopo.
«Frankie?» lo chiamai. «Come lo chiami?»
«Mh,» ci pensò un attimo. «Che ne dici di Sam?»
«Mi piace» approvai.
«’Notte Sam» mormorò. «’Notte Gerard.» Si voltò un attimo e mi baciò.
«Adesso ho due cuccioli» commentai. «Uno non mi bastava, evidentemente.» Frank rise.
Ma presto non ne avrei avuto nemmeno uno.


 
   
 
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