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Autore: Ekaterina Belikova    16/08/2014    2 recensioni
La storia ha inizio il 16 gennaio 1941 a Charleston, West Virginia. In tutta l'Europa imperversa la terribile e distruttiva Seconda Guerra Mondiale e, nonostante, gli Stati Uniti non siano ancora entrati in guerra vengono continuamente mandati volontari, scorte di cibo e armi per aiutare gli Alleati.
Elizabeth "Liz" Williams è la figlia di uno dei più importanti generali dell'Esercito americano e ha appena compiuto diciassette anni. Anche se vive lontano dalla guerra è costantemente preoccupata che il suo adorato fratello maggiore Henry venga mandato al fronte ed è consapevole, a differenza delle altre ragazze della sua età, di quello che sta succedendo nel mondo.
La sera del suo compleanno esce di casa di nascosto per andare a ballare con la sua migliore amica Emma, ma non sa che questo la porterà incontro a un enorme cambiamento di nome James Carter.
Dal testo:
"Era giovedì 16 gennaio del 1941, giorno del mio diciassettesimo compleanno, nonché il giorno in cui la mia vita cambiò per sempre. La mia vecchia vita fu stravolta e spazzata via come un uragano lasciando posto a qualcosa di ancor più bello e allo stesso tempo ancor più terribile. "
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Storico
Capitoli:
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Quarto capitolo


 
 
 
Dolore.
Era quel pesante macigno posato sul mio petto che mi lacerava il cuore e i polmoni impedendomi di respira. Annaspavo alla disperata ricerca di un po’ d’aria che rappresentava la pace. Finii le lacrime e l’aria fra le braccia di James.
-Dimmi che cosa posso fare per farti stare meglio, Elizabeth – esclamò prendendo il mio viso fra le sue grandi, callose, virili, calde e rassicuranti mani in modo che potessi guardarlo negli occhi.
-Portami via da qui, ovunque –sussurrai. Annuì e tornò dentro al ‘Sally’s’ per avvisare Emma e Dave.
 
 
 
Certe volte mi ritrovavo a pensare come sarebbe stata la mia vita se fossi nata da qualche altra parte, anche solo qualche casa più in là della mia. In un’altra famiglia, città, stato, via… Mi sarebbe piaciuto poter, per un solo giorno, indossare le scarpe, i vestiti e la vita di qualcun altro. Qualcuno che avesse una vita felice, una vita non toccata dalla guerra. Anche mentre aspettavo che James tornasse, pensavo a come sarebbe stato se non avessi conosciuto Lucas. Di sicuro non avrei provato tutto quel dolore.
Poi, però, mi resi conto di quanto potessi essere stupida, egoista e ingrata a pensare a quelle cose. Se non lo avessi conosciuto di sicuro non sarei diventata la persona che ero. Lucas faceva parte della mia vita sin dalla mia nascita e face parte del mio processo di crescita.
 
 
Ripensai a due estati prima quando eravamo andati a Magic Island per nuotare nel fiume Kanawha. Avevamo portato un cestino da picnic pieno di cibo e bevande, una coperta, qualche asciugamano e la palla, il guantone e la mazza per giocare a baseball.
 

Tenevo i piedi appoggiati sul cruscotto, il braccio destro fuori dal finestrino aperto e, con il vento leggero fra i capelli, canticchiavo la canzone di Billie Holiday che stavano trasmettendo alla radio. Lucas aveva preso la patente un anno prima quindi le nostre gite si erano spinte più lontano di quanto i nostri piedi potevano arrivare. Ci bastava prendere qualcosa da mangiare, un po’ di soldi e la roba che lui teneva sempre nel bagagliaio e partivamo la mattina presto tornando a notte fonda o qualche volta stavamo via anche per qualche giorno.
Ovviamente non era conveniente per una “signorina per bene” stare via così tanto e da sola con un uomo che non fosse suo marito o un suo famigliare, ma i miei genitori si fidavano e, poi, conoscevano abbastanza bene Lucas da sapere che non mi avrebbe sfiorata o “portato via l’innocenza” perché per lui ero come una sorella ed era anche follemente innamorato di Diana Roberts.
Arrivati sulle rive del fiume Kanawha, lui parcheggiò l’auto all’ombra e scendemmo entrambi. Stesi sotto un salice piangente la coperta e vi posai sopra il cestino da picnic; tolsi i sandali rossi e sfilai il vestito restando solo con un costume da bagno intero a righe blu e bianche che fasciava il mio corpo ancora acerbo. A quindici anni ero minuta e piccola, ma avevo già qualche curva che faceva voltare la testa ai ragazzi e anche a qualche uomo più grande. Iniziai a correre sull’erba arsa dal sole e mi tuffai in acqua, nuotai per un po’ sott’acqua e poi tornai in superficie per riprendere fiato.
-Coraggio, Luke, tuffati! –urlai sbracciandomi nella direzione del biondo che si stava ancora slacciando la cintura dei pantaloni.
-Attenta a non affogare, scricciolo – si raccomandò togliendosi le scarpe e lanciandole chissà dove.
 
Dopo aver nuotato e giocato in acqua come due bambini uscimmo dall’acqua e ci stendemmo al sole per asciugarci sotto i suoi caldi raggi. Stando al sole, la mia faccia si ricopriva di piccoli puntini marroncini comunemente chiamati lentiggini e i miei capelli castani diventavano più chiari.
-Lizzie –mi chiamò Lucas rompendo il silenzio.
-Che cosa c’è, Luke? –chiesi continuando a tenere gli occhi chiusi.
-Secondo te che rumore fa la vita?
Alla sua domanda aprii gli occhi e voltai il capo verso di lui guardandolo con un sopracciglio inarcato. Mi guardò anche lui e, notando la mia espressione perplessa, si spiegò meglio: -Insomma, ci sono un sacco di cose che fanno rumore, persino l’acqua, quindi mi chiedevo che rumore potrebbe fare la vita. E tu leggi un sacco, quindi forse lo sai.
Ci pensai un po’ prima di riuscire a dargli una risposta. Non era da lui essere così profondo e filosofico!
-Credo che abbia un suono diverso per ognuno di noi. Pensa a quello che ti viene in mente quando pensi alla parola ‘vita’ e che ti rendono felici – risposi guardando le nuvole bianche e soffici.
-La voce di Diana, la mamma che urla dietro a Jack e Ben, tu che suoni il pianoforte, il vento d’inverno, la tua risata, la musica alla radio, il rumore che fa la mazza da baseball quando viene colpita dalla palla, i ‘ti amo ’ di Diana. E secondo te? – Aveva detto un sacco di cose belle e la cosa che mi rallegrò di più fu l’essere tra quelle cose, fare parte della sua vita e contribuire alla sua felicità.
-Il leggero fruscio delle pagine dei libri vecchi, il rumore dell’acqua, la vocina di Daisy, il pianto di Max, la musica, papà che legge Puškin, la mamma che strilla perché Isabelle è rientrata di nuovo in ritardo, la tua voce e il tuo adorabile accento, il cinguettio degli uccelli, Rosalie che canta, tu che mi leggi i sonetti di Shakespeare… - dissi sorridendogli.
 
Alla fine di quella strana conversazione giocammo a baseball e lo stracciai, poi, decidemmo di mangiare e ci rimpinzammo di sandwich al tacchino, torta di mele, insalata di pollo e divorammo un’intera tavoletta di cioccolato. Restammo in quel luogo, in un certo senso isolato dal mondo, fino a sera per ammirare il tramonto e tornammo a casa quando ormai dormivano tutti.
Ogni tanto avevamo bisogno di sparire dal mondo, solo Luke, io e i nostri pensieri per mettere un muro d’isolamento tra noi e le altre persone. Qualche volta ci eravamo portati dietro anche Diana, Emma, Pam e gli amici di Lucas –Michael, Ashton e Calum-, ma non era lo stesso con loro. Sentivamo il bisogno –quasi fisico- di stare lontani dagli altri, solo noi e il nostro mondo.
Erano i nostri momenti da ‘migliori amici’ e li avevo anche con Emma, ma con lei erano diversi. Passavamo il tempo a parlare di cose come ragazzi, moda, film e altre cose anche più serie.
Con ognuno di loro avevo lo stesso legame che era al contempo diverso perché avevo conversazioni diverse con Emma piuttosto che con Lucas, facevo attività diverse a seconda di chi era in mia compagnia –insomma, non avrei mai giocato a baseball con Emma o provato reggiseno e messo lo smalto con Lucas! –, ma volevo loro ugualmente bene, in modo diverso anche se nella stessa misura.
 
 
 
 
 
Ritornai alla realtà grazie alla porta del locale che sbatteva e vidi James venire verso di me con la sua andatura sicura e rigida da soldato. Mi apre la portiera della sua auto e mi aiuta a salire, come un vero gentiluomo, per poi sedersi al posto di guida e mettere in moto.
-Emma ha detto che chiamerà i tuoi genitori per dire loro che resterai da lei per questa notte. – Annuii poggiando la testa alla superficie fredda del finestrino. La mia migliore amica mi avrebbe coperta con i miei genitori, lo aveva già fatto in qualche altra occasione passata, e loro non avrebbero fatto troppe domande quella volta con tutto quello che stava succedendo.
Piano piano le poche luci ancora accese iniziarono a scomparire e ci ritrovammo su una solitaria strada nel cuore delle foreste dell’West Virginia. Abbassai il finestrino, con un po’ di fatica dato che non doveva essere usato da un pezzo, e il vento gelido dell’inverno m’investì in pieno insieme al forte odore dei boschi. Voltai la testa verso James e lo trovai con lo sguardo puntato su di me. Provai una sorta di brivido lungo la colonna vertebrale e una piacevole fitta alla bocca dello stomaco. Abbozzai un leggero sorriso che valeva più di mille parole. Quell’uomo –sì, perché non era più un ragazzo – mi faceva provare strane emozioni e scatenava in me una tempesta facendomi sentire donna.
Vidi delle luce in lontananza e un’enorme macchia scura che –avanzando man mano – prendeva forma. La riconobbi subito come Fort Kinley!
Arrivati all’entrata fummo fermati da una barriera e due soldati con i fucili imbracciati. Prima che uno di loro arrivasse alla macchina, riappoggiai la testa contro il finestrino –che avevo richiuso- e tirai su il cappotto per coprirmi il viso. Molti mi conoscevano alla base, sapevano benissimo chi era mio padre, e se mi avessero riconosciuta sarebbero stati guai, soprattutto per James.
-Buonasera, maggiore Carter –disse il soldato che si era avvicinato. –Chi c’è con lei?
-Un’amica, soldato. Ora potresti farmi il dannato favore di tirare su quell’affare? – Il tono di James era più duro e diverso da quello che avevo sentito fino ad allora. Il soldato balbettò un’imbarazzata scusa e poi gridò al suo compagno di sollevare la barriera.
L'auto avanzava sulle vie della base militare. Era una vera e propria città in miniatura con le case dei soldati, quelle più lussuose degli ufficiali, qualche negozietto nel centro, un parco e la statua del generale Kinley nel centro. Sul lato sinistro della strada principale c’era un piccolo bar ancora aperto dal quale provenivano le note di una melodia jazz e il vociare dei soldati. James svoltò a destra, in una strada più stretta e con case più belle e grandi.
Fermò la macchina davanti a una casa bianca a due piani che aveva sul davanti una graziosa veranda e le persiane rosse, il suo alloggio alla base. Scendemmo e, come al solito, lui mi aprì lo sportello.
Una volta entrati, tolsi il cappotto e lo appesi a uno degli appositi ganci che c’erano nell’ingresso. In casa faceva caldo e si stava bene. Lui mi condusse verso il salotto invitandomi a sedere sul divano intanto che lui accendeva il camino per riscaldare e illuminare la stanza. Sarei dovuta essere a disagio nella casa di un uomo che conoscevo da poco più di tre giorni, nella casa di un soldato per dipiù e da sola con lui. Stranamente, però, provavo esattamente il contrario. Ero tranquilla, mi sentivo un po’ meno scossa e al sicuro; avrei scommesso la mia anima col diavolo sul fatto che James non mi avrebbe mai fatto del male e di certo avrei vinto!
-Posso usare il bagno? –chiesi con la voce ancora roca per il pianto e lui annuì dandomi le indicazioni necessarie per arrivarci. Salii le scale, attraversai un lungo corridoio e aprii la terza porta a sinistra accendendo la luce. Quando vidi il mio volto nello specchio sobbalzai. Avevo le occhiaie, gli occhi rossi e una scia di lacrime su entrambe le guance pallide come quelle di un cadavere. Sciacquai il viso con l’acqua fredda e ritornai più o meno al mio aspetto naturale.
Tornai nel salotto e il fuoco scoppiettava allegramente nel camino. James era seduto su una poltrona, con la testa poggiata a una mano, pensieroso. Appena notò la mia presenza un sorriso spuntò sulle sue labbra. –Vuoi una tazza di the, Elizabeth?
-Sì, grazie, se non è un disturbo –mormorai imbarazzata sedendomi compostamente sul divano. Tutto d’un tratto ero diventata timida rendendomi conto realmente della situazione. Non che sarebbe successo qualcosa, ma mi sentivo strana.
-Non lo è, tranquilla- rispose sorridendomi.
Trafficò per un po’ in cucina per poi ritornare in salotto con un vassoio sul quale erano poggiate due tazze piene di liquido ambrato, del latte e zollette di zucchero. –In Inghilterra ho imparato a fare un the che ti riscalda l’anima –disse poggiando il vassoio sul tavolino da caffè che si trovava dinanzi al divano sul quale ero seduta. Lo ringraziai, misi una zolletta di zucchero e un goccio di latte nella bevanda e portai la tazza alle labbra. Il liquido era bollente, ma servì a scaldarmi fisicamente e mi tirò su il morale. Quello che mi scaldò l’anima, però, non fu il the, ma lo sguardo di James su di me e il suo sorriso dolce.
-Dove andrai dopo la licenza? –chiesi dopo un po’.
-Mi hanno trasferito a Pearl Harbor, alle Hawaii –rispose posando la sua tazza, ormai vuota, sul vassoio.
-Ti farà bene un po’ di caldo e tranquillità – dissi riuscendo a sorridere veramente per la prima volta in quella giornata orribile.
-Credo di sì, lo spero. E tu, finirai il liceo quest’anno?
-Oh no, l’ho già finito due anni fa e ho fatto dei corsi di medicina per potermi arruolare come infermiera.
-Accidenti, una ragazza da college! –esclamò facendomi ridere. –Quando hai intenzione di arruolarti?
-Lunedì –risposi dopo aver bevuto l’ultimo sorso di the.
 
 
Quando fu l’ora di andare a dormire era ormai passata la mezzanotte da un pezzo e James mi mostrò la sua camera. Il letto matrimoniale era perfettamente rifatto, un massiccio armadio ricopriva un’intera parete, su uno dei comodini accanto al letto c’erano dei libri impilati l’uno sull’altro e una lampada e delle pesanti tende impedivano alla luce di filtrare nella stanza.
-Puoi dormire qui, io andrò nella stanza degli ospiti –disse prendendo dall’armadio una coperta.
Mi morsi il labbro inferiore nervosamente non sapendo se fosse saggio fare quello che avevo in mente.
–James –lo chiamai voltandomi verso di lui.
-Sì?
-Resta qui, con me. –Feci un passo verso di lui. Mi guardò sorpreso e a bocca aperta.
-Elizabeth…
-Lo so, non è conveniente, ma ho bisogno di sentirti vicino a me! –Afferrai la sua camicia fra le dita guardandolo negli occhi. Deglutì nervosamente per poi annuire.
Sfilai le scarpe, le calze di nylon e le forcine dai capelli mentre James si stava togliendo la camicia –che posò sullo schienale di una sedia – e le scarpe. Ci infilammo sotto le coperte e lui spense la lampada sul comodino; restammo impacciati a distanti finché non ebbi il coraggio di chiedermi di abbracciarmi. Si avvicinò a me, facendo frusciare le lenzuola, e mi mise un braccio intorno alla vita tirandomi verso di sé. Il mio cuore iniziò a battere forte, come un tamburo, ed ero sicurissima che le mie guance fossero rossissime. Posai una mano e la testa sul suo petto, proprio sopra il cuore che batteva forte quanto il mio.
Quando ero ormai più addormentata che svegliai sentii le labbra di James posarsi sulla mia testa in un tenero bacio per poi sussurrare:
-Buonanotte, piccola Elizabeth!


 
L'angolo di Katjusha

Salve a tutte/i! 
Eccomi qui con un nuovo capitolo. Ci ho messo un po' a scriverlo perchè dopo il flashback non riuscivo ad andare avanti, ma oro sono qui.
Che cosa ne pensate? Vi è piaciuto oppure no?
Come vi è sembrato il ricordo? Secondo voi l'ultima parte è un po' troppo azzardata? Sono piena di dubbi...

Vorrei ringraziare tutte le persone che hanno messo la storia tra le seguite/preferite/ricordate e quelle che l'hanno recensita dandomi dei buoni consigli. Vi sono grata, davvero, siete una parte importante della crescita di questa storia.
Aspetto con ansia i vostri commenti e ci vediamo alla prossima :)

-Ekaterina.
  
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