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Autore: Ivola    18/08/2014    1 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
Capitoli:
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Note: Salve, pochi lettori estivi che sono rimasti ^o^ Oggi è il 18 agosto, tutti sono in vacanza tranne me, perché sono tornata da Dublino da meno di due settimane e già mi manca tutto. Per farmi passare la nostalgia, comunque, mi sono immersa nella scrittura di questo capitolo che ritengo uno di quelli più intensi, proprio in termini psicologici. Ne sono (stranamente) abbastanza soddisfatta, per cui il vostro parere in merito non potrà farmi più che piacere :3 Spero tanto di aver reso bene le emozioni dei personaggi, perché come potete immaginare non è stato un compito semplicissimo, ma mi ci sono impegnata davvero tanto per raggiungere almeno un risultato decente.
Passando alle informazioni tecniche: ho aggiunto un altro capitolo nella tabella di marcia di Blur, perché mi sono resa conto che alcune scene avrebbero occupato più spazio nella narrazione, come quelle di questo 25 che si sono rivelate piuttosto lunghette (è il capitolo più lungo scritto finora, ecco). I capitoli, quindi, dovrebbero essere in tutto 31, ma contando anche il prologo e l'epilogo saranno 33. Poi magari modificherò anche qualcos'altro, perciò non prendete le mie parole per oro colato.
La canzone che dà il titolo, End of all days, è un'altra di quelle da ascoltare assolutamente, perché a mio parere descrive moltissimo il cambiamento drastico di Ben, soprattutto con i versi "A maniac messiah, destruction is his game, a beautiful liar, love for him is pain" e "I punish you with pleasure and pleasure you with pain." Ascoltatela, davvero, la trovo meravigliosa (come se non facessi già abbastanza pubblicità ai Mars, ehm).
Purtroppo in questo periodo non posso rispondere alle recensioni, sono praticamente impossibilitata con tutte le cose che ho da fare. Sappiate che comunque le leggo con emozione sempre crescente, mi fate sempre più felice, perciò grazie ancora a tutti di cuore, non avrei mai pensato che Blur sarebbe stata così bene accolta ♥
Un'ultima cosa, questo capitolo è stato scritto in parte in diretta con Marty, ovvero l'ideatrice di Ben e London, perché è stata da me giusto ieri, quindi glielo dedico con tutto l'affetto del mondo ♥

Prima di andarmene definitivamente, assicurandovi che il prossimo capitolo non sarà pubblicato a distanza di un mese, vi ricordo che QUI c'è la mia pagina facebook e QUI c'è il gruppo scambio-recensioni, che vi invito caldamente a visitare come sempre.
Buona lettura! ♥

Il titolo del capitolo viene da "End of all days" dei 30 Seconds to Mars. 

Questo banner appartiene a me, ©Ivola.
















 

 



















Blur

(Tied to a Railroad)






025. Twenty-fifth Chapter – Punish them for pleasure.




Tutti i suoi sensi sembravano morti, come se stessero anticipando la sua fine. La sua pelle quasi non aveva più sensibilità, specialmente quella dei polsi e delle caviglie: arrossata, graffiata, sanguinante. Klaus sentiva che presto quelle catene sarebbero arrivate a mangiargli la carne viva fino ad arrivare all’osso.
La sua gola era secca e infiammata per quanto aveva urlato, lo aveva fatto finché aveva potuto. Ma ciò che faceva più male erano gli occhi e le orecchie.
Le sue pupille saettavano ad ogni minimo movimento di Benjamin o London e le cornee pungevano di lacrime non cadute, lacrime inorridite.
Guardare quella scena era stata una prova orribile, gli aveva richiesto uno sforzo sovrumano: eppure non aveva potuto fare a meno di tenere gli occhi spalancati dinanzi alla peggiore delle torture che si potesse immaginare. London aveva urlato tutto il tempo, più di lui, più di tutte le volte in cui l’aveva sentita urlare. I propri timpani ancora ronzavano delle sue grida, gli erano penetrate nel cervello e continuavano a risuonargli dolorosamente nella testa.
Sentirla urlare così gli aveva fatto capire quanto fosse vulnerabile, indifesa… sentirla urlare così, di dolore, l’aveva annientato.
Adesso le scariche erano finite e il corpo di London era abbandonato svenuto – svenuto, svenuto, svenuto – sulla sedia elettrica, con la testa piegata di lato, immobile.
Klaus non aveva più voce e non riusciva a smettere di fissarla con le labbra tremanti, perché cercava di mormorare qualcosa, ma tutto ciò che fuoriusciva dalla sua bocca erano respiri mozzati e inudibili.
Gli occhi spalancati sull’immagine della moglie riversa sulla sedia, il sangue che gli bolliva nelle vene, tutti i pensieri annullati.

« Sinceramente » esordì il ragazzo accanto a London, intento a toglierle gli elettrodi da tempie e polpacci, « pensavo che avrebbe resistito di più. Il voltaggio era molto basso. »
Klaus si riscosse appena e spostò lo sguardo gelido e al contempo disperato su di Ben. Non sapeva neanche lontanamente come controbattere, ancora non riusciva a capire il perché di tutto quello.
« La prossima volta lo aumenteremo, così si abituerà… » continuò il gemello, « forse. » Si ravvivò i capelli ora leggermente più lunghi di quel che ricordava e si voltò finalmente verso di lui. « Non trovi che sia bellissima anche così, Klaus? »
Le membra del moro s’irrigidirono quasi in uno scatto. « Bastardo… » biascicò.
« Come? Non ho sentito bene » fece Ben, avvicinandoglisi di poco. « Quando Londie si risveglierà sarà il tuo turno, sai? Voglio che veda bene, proprio come hai fatto tu. »
Klaus diede l’ennesimo strattone alle catene. « Non la toccherai di nuovo » sibilò, con uno sguardo che da solo sarebbe riuscito a strappare la pelle di chiunque… ma non quella di Ben, non ora che la sua pelle era diventata ferro.
Il ragazzo, in risposta, rise aspramente. 
« Certo che ne avete di strada da fare » disse, prima di mollargli un pugno nello stomaco, a cui Klaus si accartocciò con un gemito. « Ordini a me non se ne danno. »
 

*

 
La pelle pizzicava, come se avesse appena sfrigolato su una griglia. London riaprì gli occhi dolorosamente, quasi le palpebre fossero incollate. L’immagine che le restituirono i suoi occhi per un istante le fece credere di essersi svegliata da un lungo e terribile incubo. Ben…, provò a sussurrare, ma le sue labbra emisero soltanto un soffio lieve e indistinto. Per un momento percepì che suo fratello le stesse sorridendo, eppure le sembrò una cosa tremendamente familiare e tremendamente estranea al contempo.
Quello non era il solito sorriso di Ben, era, piuttosto, un sorriso… cattivo.
Gli occhi della ragazza, ipnotizzati, rimasero puntati su quella figura angelica e demoniaca, quando poi la sua attenzione venne attirata da un corpo legato alle spalle del gemello.
Klaus!, lo riconobbe – perché non sarebbe potuto essere nessun altro – cominciando a tremare di paura. Risistemò i tasselli nella sua testa, prendendo ad osservarsi poi le caviglie e i polsi imprigionati con delle cinghie di cuoio. La pelle delle braccia, inoltre, era spaventosamente arrossata e bruciava come se fosse a contatto con il fuoco da ore.
Ricordò, improvvisamente, tutto ciò che era accaduto. E avrebbe voluto svenire di nuovo, forse avrebbe anche voluto morire.
Morire...
Il suo corpo si immobilizzò sulla sedia elettrica e le iridi divennero gelide dalla paura, il volto cadaverico. Non riusciva a pensare, a dire nulla.
London Bridge in quel momento era uno scheletro senza vita. Distrutto, immobile, quasi evanescente. Come un misero scherzo di luce nella penombra.

« Giusto qualche istante fa, London, mi ritrovavo a dire a Klaus che la tua bellezza è ineguagliabile anche in questo stato » considerò Ben, accarezzandole distrattamente una spalla. Una carezza che bruciava, proprio come le ustioni. Il suo sguardo cercò disperatamente quello del gemello, ma senza trovarlo. « Sarebbe un peccato sprecarla o rovinarla con certe torture rudimentali, perciò queste le riserveremo a lui. Klaus è forte... » sghignazzò il ragazzo, senza nascondere il sarcasmo o il disprezzo nella sua voce, « un vero uomo»
London sentì Klaus ringhiare, offeso e spaventato nel profondo. Legato come una bestia da macello, provocato, umiliato, frustato… quale sarebbe stato il passo successivo? Gli occhi della ragazza si incatenarono a quelli del marito e vi rimasero fissi per un tempo interminabile. Sembravano gridare aiuto, ma quando si fusero con i propri la paura venne sostituita dall’angoscia. E capì cosa pensava, e capì quanto stesse odiando Ben in quel momento.
Uno sguardo, un legame.
Perché Ben non la guardava? Perché si ostinava a darle le spalle? Se solo avesse potuto leggere nei suoi occhi… forse avrebbe capito perché
Dimmelo, ti supplico… dimmi soltanto perché… Le bastava soltanto una risposta per perdonargli tutto. Guardami, Ben, guardami!
Ma Ben non la guardava, suo fratello adesso fissava Klaus e lei sentiva la pelle bruciare ancora come se fosse Klaus, come se la stesse finalmente guardando, come se potesse comunicare con lui in un qualsiasi modo. Un solo contatto. Era tutto ciò che desiderava.
Pianse.
Cominciò a piangere come se il mondo stesse per finire. E forse era vero, forse tutto si sarebbe distrutto nel giro di poche ore… o forse sarebbe durato in eterno. Soltanto loro tre, in quel bianco d’agonia, con i volti bagnati di lacrime. In eterno.
La voglia di morire non si era ancora assopita nella sua mente.

« Dunque » cominciò Benjamin, schiarendosi la voce, « prima del proseguimento delle danze, presumo che vogliate sapere cos'è successo dopo la vostra repentina fuga in Europa. Ve lo concedo, avete il diritto di sapere come sono andati i fatti. »
Un lampo improvviso attraversò le iridi di London. Voleva sapere tutto, ogni singolo dettaglio di quei due anni trascorsi lontani da lui, voleva sapere chi aveva ucciso Frantz Wreisht e soprattutto se Klaudia stava bene. Senza neanche accorgersene, si protese leggermente verso il corpo del gemello, quasi volesse riattaccarsi a lui come quando condividevano il grembo materno. Due innocenti creature, un tempo, indivisibili.
Ora divise, più che divise. Lontane anni luce. Estranee.
Quel pensiero la spaventò più di ogni altra cosa.
Klaus teneva gli occhi puntati ferocemente su di Ben e aspettava che lui iniziasse a parlare, come se quello sguardo duro e violento potesse costringerlo a dire la verità, forse addirittura spingerlo a pentirsi. Ma Ben era caparbio, ostinato, proprio come la sorella. Aveva in mano le redini della situazione e sembrava esserne pienamente consapevole.
London lo guardava, e più lo guardava, più gli appariva una creatura incomprensibile, come se fosse tutt'altra persona. Eppure voleva ascoltare ogni singola parola pronunciata dalle sue labbra, perché ne aveva strettamente bisogno, di un bisogno fisico e disperato.
Nonostante tutto, Ben le era mancato come l'ossigeno in apnea.

« Da dove cominciare? » si chiese l'albino, per darsi un punto di partenza. « Sarò sintetico perché purtroppo dovremo dedicare il nostro tempo ad altre attività. In ogni caso... dovete sapere che mio padre mi aveva finalmente trovato una donna da sposare, con l'aiuto di Ludmille Schnee. Il suo nome è... o era, non lo so con precisione al momento... Mary J. Mars, ovvero la figlia di un ambasciatore di Capitol City. Qualche giorno dopo la vostra fuga e la vostra lettera, organizzammo una cena per incontrarla dal momento che da poco lei aveva compiuto la maggiore età e lì decidemmo la data del matrimonio, prevista in un mese. » Ben si concesse una breve pausa per guardare London di sottecchi e lei fece di tutto pur di attaccarsi a quello sguardo sfuggente, di rimanerci ancorata, anche se senza successo.
« Ci saremmo sposati, davvero, ero disposto a tutto pur di rendere felice la mia famiglia dopo la vostra scomparsa, ma di punto in bianco anche Mary è sparita nel nulla, probabilmente scappata con un altro. Un destino felice, per uno come me che si è visto sfuggire dalle dita tutte le persone che contavano davvero. »
London emise un singhiozzo, chiaro e pulito. Improvvisamente tutto cominciava a gravare su di lei, ogni colpa era amplificata e ogni pensiero diveniva una lama nel cervello. L'ho abbandonato, l'ho abbandonato, è colpa mia!
Ben sembrò ignorare il suo lamento e continuò a tenere fissi gli occhi su Klaus, che ricambiava quello sguardo di brace: il mondo, in quelle iridi, parole, insulti, ricordi, errori.

« Ah, a proposito, Londie » continuò, ma senza mai guardarla, « papà è morto. »
Questa volta qualcosa uscì dalle corde vocali di London, un grido strozzato di sconcerto e paura. Alfons, suo padre... loro padre... non poteva... « No! »
« Sì, invece » precisò Ben, « era malato e non l'ha mai detto a nessuno. Me n'ero a stento accorto nell'ultimo periodo perché ogni tanto tossiva sangue, ma l'ultima sera andò a dormire serenamente, senza dire nulla a mamma, come se già sapesse quello che stava per succedere. Mi chiese di salutarti, quando ti avrei rivista. All'inizio non avevo capito, ma poi tutto mi fu chiaro. »
London si dimenò sulla sedia nonostante le cinghie e mormorò qualche altra cosa, ma Ben non le dedicò più dell'attenzione necessaria.
Le lacrime continuavano a bagnarle il volto già smunto e pallido e il cuore pulsava di dolore, ogni battito era una stilettata al petto. Aveva abbandonato tutti, aveva abbandonato la sua famiglia. 
« Ben... Ben... » piangeva, supplicandolo di guardarla, liberarla e di poter finalmente disperarsi sulla sua spalla, tra le sue braccia.
« Da piccola non piangevi mai » commentò il gemello, semplicemente. « Adesso sei diventata fin troppo debole e credo di sapere di chi sia la colpa. »
Klaus strattonò le catene per l'ennesima volta nonostante i graffi ai polsi. London sapeva che non era colpa di Klaus, né di Ben, né di chiunque altro all'infuori di lei. Era stata sempre una bugiarda egoista, forse si meritava tutto quel dolore, forse se ne meritava anche di più. Ma perché... perché così, perché in quel modo? Tutto troppo velocemente e violentemente. Meglio morire, mille volte meglio. Per far tacere ogni cosa.
« Proseguendo il racconto, comunque... Il primo anno non siete mai stati realmente in pericolo. Finché nessuno spifferava la vostra scomparsa a Capitol City eravate al sicuro, ma con la settantaquattresima edizione degli Hunger Games è successo l'impensabile: tutta Panem ha scoperto che Klaus non c'era ad adempire al suo ruolo di mentore, così i Pacificatori sono venuti a casa vostra, distruggendo gran parte di porte, finestre e mobilio e poi sono venuti a ricattarci. Io mi sono subito alleato con la capitale per risparmiare la mia pelle e quella di mamma, così come Frantz. Shyvonne invece si è opposta e tutto ciò che ha ricevuto è stato un proiettile alla fronte. Le ricerche sarebbero continuate, se solo la cosiddetta Ghiandaia Imitatrice non avesse scatenato il putiferio: Katniss Everdeen, Distretto 12, vincitrice dei settantaquattresimi Hunger Games. Con un suo gesto sconsiderato ha acceso la scintilla della rivolta, quella di cui avete avuto un assaggio appena qualche giorno fa. Diciamo che Snow era molto più occupato a tentare di domarla, piuttosto che pensare ad un vincitore scomparso nel nulla. »
I pensieri le si confondevano sempre più nel cervello, i battiti del cuore erano sempre più pesanti. Non capiva a cosa volesse portare quel discorso, anche se una vaga e terribile idea già l'aveva.
« Frantz Wreisht però continuò le sue ricerche, mentre io dopo il disastro della terza edizione della Memoria sono stato chiamato a servire la capitale e quindi sono stato costretto ad abbandonare. Frantz è riuscito a giungere alla vostra posizione dopo una serie di coincidenze e ha mandato alcuni dei Pacificatori fornitigli da Capitol a rapire Klaudia. Questa mossa, sinceramente, non l'ho ancora capita. So solo che dopo aver scoperto che lei in realtà è mia figlia desiderava... eliminarla, come se fosse un aborto di natura. » Una breve risata aspra spezzò il suo discorso. « Lei... da che pulpito. Comunque, Klaudia è finita nelle mani di Frantz, ma il caso ha voluto che quel giorno fossi tornato al Distretto Sei a prendere dei prigionieri ribelli. Le voci girano in fretta, così sono corso da lei perché più o meno avevo capito cosa volesse farle. »
London trattenne il respiro, quasi fino a svenire di nuovo.
« Ho sparato a Frantz prima che le potesse torcere anche solo un capello. »
La ragazza vide Klaus immobilizzarsi, mentre dentro la sua testa pensieri contrastanti si davano battaglia, aggrappandosi l'uno all'altro per farla impazzire.
Ben... il suo Ben non avrebbe mai ucciso nemmeno una mosca, ma l'aveva fatto per proteggere Klaudia, la sua... la loro bambina. La figlia di una vita mai realmente avuta, un'innocente su una barca di meschini peccatori. Il dolore per un attimo si annullò.

« ... dov'è... dov'è Klaudia? » mormorò, con gli ultimi sibili di voce che le erano rimasti. Dio, quanto aveva urlato, quanto aveva creduto di star morendo bruciata viva su quella maledetta sedia...
Il fratello la guardò da sopra una spalla. 
« A casa con mamma. Sta bene. »
Un sospiro fuoriuscì dalle labbra tremanti di London, l'unico sollievo in un mare di stordimento, incertezze e disperazione. L'unico.
Klaus anticipò la domanda che più le premeva nella gola, ma che non aveva il coraggio di pronunciare. 
« Perché ci stai facendo questo? » Anche lui parlava a bassissima voce, anche lui aveva urlato. Il pensiero che presto avrebbe assistito alle sue, di torture, inerme e impotente, le fece venire voglia di rimettere anche l'anima.
Ben rispose repentinamente, come se si stesse già aspettando quella domanda da tempo. 
« I motivi sono tanti, troppi. Mettiamola così: sto facendo il mio dovere di servo di Capitol City e sto punendo dei ribelli. Ma dall'altro lato sono solo qualcuno che si è stufato di essere usato come l'ultimo degli stracci, di vedere gli altri felici e contenti e di essere sempre abbandonato come un essere inutile. »
Il silenzio gravò nella stanza dopo quella risposta. Le mani di London presero a tremare convulsivamente, così come le spalle e le labbra. Era terrorizzata, sconvolta, anche se sapeva che il fratello non aveva detto tutta la verità. Ben, però, voleva davvero vendicarsi di loro, di tutto il dolore che gli avevano involontariamente causato. E London conosceva benissimo quel dolore, l'aveva sperimentato sulla propria pelle quelli che pensava fossero secoli fa.
Quell'incubo, quella visione raccapricciante eppure così veritiera.
Un Benjamin se n'era andato, un altro aveva fatto la sua terribile comparsa.
Tutto il dolore del mondo, in quell'incubo, si era riversato su di lei. Tutta la sofferenza, il buio, tutto, sulla sua pelle, sotto la sua pelle, dentro di lei.
Adesso capiva.
Adesso capiva perché.
Perché nessuno può sopportare sul proprio corpo tutto il dolore del mondo.
Ben si voltò finalmente a guardarla e i suoi occhi la spaventarono, la atterrirono a tal punto che desiderò non averli mai visti. Non sembravano neanche lontanamente gli occhi di suo fratello, erano occhi malvagi e pieni di brama di vendetta.
No, non avrebbe mai voluto guardarlo, avrebbe preferito ricordarsi lo sguardo radioso del gemello che conosceva un tempo. Avrebbe preferito perdersi in quei ricordi, senza mai più riemergere.

« Sei pronta, adesso, Londie? » le chiese quasi dolcemente, avvicinandosi e prendendole il mento. Un altro contatto che la ustionò. Ma mai quanto il successivo.
Assicurandosi che Klaus vedesse bene, la baciò sulle labbra delicatamente, come se fosse fatta di porcellana, come se appena qualche minuto prima non l'avesse torturata sulla sedia elettrica. Come se l'amasse ancora, come se non avesse mai smesso.

 
*

 
« Ti prego, Ben, smettila... » disse flebilmente la ragazza, tentando di ignorare tutto il dolore mentale che la stava pervadendo, dilaniando, più delle scariche elettriche.
Ben alzò di nuovo la frusta, ma stavolta non la calò. Non subito, almeno. 
« Come hai detto, Londie? »
« Basta, per favore » sussurrò l’albina, che aveva ritrovato la voce in fondo alla sua gola. « ... Lo stai uccidendo. »
La risata del gemello echeggiò tra le pareti; poi, come se avesse ignorato questa breve parentesi di dialogo, frustò Klaus per l’ennesima volta, al che lui lanciò un urlo esasperato, stringendo le catene fino a farsi sbiancare le dita.
« No! » fece la ragazza, aggrappandosi ai braccioli della sedia e osservando un’altra striscia rossa disegnarsi sulla schiena esposta del marito, già piena di sangue, sudore e cicatrici. « Ben, ti prego! »
« Pregami quanto vuoi, sorellina » mormorò l’aguzzino, « ma adesso devo divertirmi. »

Forse aveva conservato un briciolo di lucidità in un angolo della sua testa.
Non capiva nulla, si sentiva soltanto stordito e... invisibile. Come se il suo corpo avesse smesso di esistere. Non sentiva più niente, eccetto il dolore e la paura che lo corrodevano dall'interno.
Klaus non aveva mai avuto così paura in vita sua. Era irrazionale, inspiegabile, intensa. Non era semplice terrore di morire, ma piuttosto di star perdendo ogni cosa. La dignità, la forza, ogni certezza. Ma ciò che più lo spaventava era il fatto di non riuscire neanche ad immaginare quale sarebbe stata la prossima mossa di Benjamin – del nuovo Benjamin, di quella persona che nel giro di pochi attimi aveva messo più volte a repentaglio le loro vite.
Avrebbe continuato le torture, vedendoli soccombere ai suoi piedi per mera rivincita personale? Li avrebbe liberati, prima o poi, oppure... oppure li avrebbe uccisi?
Quel pensiero gli pulsava in testa e si deformava al passare dei secondi. Non era possibile, si diceva, che sarebbe andata a finire così. Doveva esserci un altro esito, un altro finale per quella terribile situazione. Non potevano morire e basta, così, per mano del ragazzo di cui più si erano fidati in tutta la loro vita.
Eppure se pensava allo sguardo impassibile o divertito di Ben durante quelle torture... Aveva voglia di urlare, di prendergli il cranio tra le mani per sfondarlo contro un muro, di sentirlo urlare a sua volta. Aveva fatto soffrire London, l'aveva legata alla sedia elettrica ed era rimasto ad osservare mentre un Pacificatore aumentava il voltaggio di scarica in scarica.
L'ha fatta soffrire, quel maledetto bastardo.
Era per quello che aveva paura. Era per quello che continuava a tremare. Non aveva idea di dove sarebbe riuscito a spingersi. E, suo malgrado, non aveva idea di quanto sarebbe riuscito a guardarla morire.
Perché, anche se li avesse liberati, avrebbe ottenuto la sua agognata vendetta comunque. Li stava uccidendo, sì, ma partendo dall'interno.

Erano passati giorni. Erano state ore, minuti, secondi interminabili. Ogni attimo era scandito dal dolore, ogni respiro era un miracolo.
Li tenevano lontani, in celle diverse, e nessuno li aveva più considerati in quei giorni – perché forse, se avessero ricevuto anche solo un'altra tortura, non sarebbero stati più utili a nessuno, neanche alla vendetta di Ben.
Klaus sapeva che prima o poi l'incubo sarebbe ricominciato, ma quasi non aveva la forza per pensarci. Nemmeno quando lo trascinarono di peso in un'altra stanza, sempre spoglia e vuota come le precedenti, eccetto per una catena legata al muro che gli avrebbe bloccato entrambi i polsi e per un letto in un angolo munito di manette. Sembrava l'ambientazione adatta ad un assassino sadico e pervertito e Klaus cominciò a domandarsi se Ben non si sarebbe rivelato un personaggio del genere prima o poi.
Come previsto, lo incatenarono al muro e lui fu costretto a sedersi a terra perché non riusciva a stare in posizione eretta per troppo tempo. Rimase così, per molti minuti, con le braccia alzate in alto e intrappolate, come se lo volessero torturare più con l'attesa che con il vero spettacolo. E lui aveva già una vaga idea di ciò a cui avrebbe assistito, lo sentiva nelle vene.
Esattamente come si aspettava, qualche minuto dopo London fu portata in quella stanza da Ben in persona, accompagnato da un altro aguzzino sconosciuto e dall'aria severa. La ragazza probabilmente era stata quasi del tutto sedata, tanto che si muoveva appena e si lasciava sballottare dai due a loro piacimento, come una bambola di pezza. Totalmente inerme, ma cosciente.
Klaus provò ribrezzo per Benjamin in quel momento. Come osa...?
La ammanettarono al letto come aveva previsto e un terribile presentimento cominciò a farsi strada nella testa di Klaus, ronzando minaccioso.

« Che cosa vuoi farle? » domandò allora, dimenandosi dalle catene per quanto poteva.
« Speravo che avessi un'immaginazione più fervida, Klaus » ghignò l'albino, giocherellando con le manette intorno alle caviglie della sorella. « Coraggio, prova ad indovinare. »
« Vuoi stuprarla, magari? » chiese tra i denti, quasi come una fiera che è stata catturata dal cacciatore.
« Sai perfettamente che io non farei mai una cosa del genere » disse e parve sincero, anche se adesso Klaus aveva milioni di dubbi su di lui.
« E allora cosa cazzo ti sei inventato stavolta? » ansimò, in cerca di una risposta, per quanto orrida questa potesse essere.
« Oh, vedrai... » ribatté Ben, facendosi passare qualcosa dal collega. Una lama. Klaus rabbrividì: era lunga e seghettata. « So che non ne vedi l'ora. »
« Sei un folle... » biascicò Klaus, in panico, nel vederlo avvicinarsi nuovamente a London, ancora stordita dal sedativo. « Posa quella lama, dannazione! » Sapeva che più si mostrava impaurito, più Ben l'avrebbe provocato, ma era più forte di lui. Paralizzato dal terrore, lo guardò sfiorare il collo di London con i polpastrelli e sorridere sarcasticamente.
« Ancora non hai imparato, eh? » fece, attendendo che i sensi della gemella si ristabilizzassero. « A quanto pare ci vorrà più tempo di quel che credevo. »
London in quel momento diede segno di essere ben vigile e mormorò appena: « Mmh... », come se parlare le costasse una fatica immane. Ben continuò ad accarezzare la sua pelle pallida con le mani e alla sinistra si tolse il guanto per avere un contatto ancora più ravvicinato con lei. Nessuna barriera tra di loro, solo pelle contro pelle.
Klaus rabbrividì di repulsione e inveì contro di lui, livido di rabbia per quella circostanza anomala e ancora incomprensibile.

« Sei un fottuto vigliacco, prenditela con me, avanti! » gridò il moro, stringendo i pugni fino a sentire la pelle dei palmi bruciare. Qualsiasi cosa stesse per farle, di sicuro era peggio della sedia elettrica e delle frustate messe insieme. Avrebbe dovuto fare male, più male. Avrebbe dovuto rendere la sua vendetta più dolce.
« Ci sarà tempo anche per quello, non preoccuparti » sogghignò l’altro. Staccò la mano dal corpo della gemella e si rigirò il coltellino tra le dita, sfiorando poi le sue cosce con la punta della lama, lasciandole un leggerissimo graffio bianco sulla cute. London tremò visibilmente, ma senza emettere neanche un lamento, stavolta. Klaus sapeva, sentiva che sua moglie si fidava ancora del fratello e questo da un lato lo riempiva di… paura, forse. Come poteva, dopo tutto quello che aveva fatto?
Rimasero in silenzio per qualche istante, quando poi Ben, facendo risalire il coltellino lungo il profilo di London, raggiunse l’orlo dell’abito spartano che le avevano fatto indossare e indugiò giusto un secondo, prima di afferrare un lembo della stoffa con l’altra mano e tagliarle del tutto il vestito di dosso. La ragazza emise un verso strozzato e si agitò sullo spoglio materasso ruvido, restando completamente nuda dinanzi ai tre uomini presenti in stanza.

« Benjamin… » digrignò Klaus tra i denti, sbiancando e agitandosi a sua volta tra le catene che comunque non gli avrebbero permesso alcun tipo di fuga. « … avevi detto che non… » non riuscì a terminare la frase, mentre le labbra gli vibravano d’odio.
« Lo so cos’ho detto, Klaus » ribatté l’altro. « Ho detto che io non l’avrei mai stuprata. » Lasciò che sulla sua bocca si disegnasse un sorriso storto e poi si voltò verso il suo collega, a cui passò il coltellino e fece un cenno. « London mi ha sempre fatto capire che preferiva scopare con Klaus che con me. Vedi se riesci a fare meglio di lui. »
London comprese a fondo solo in quel momento il significato di quelle parole e cominciò a piangere, di nuovo, ma questa volta silenziosamente, girando la testa di lato per non assistere – in qualche modo – a quello che stava per accadere. Sembrava già distrutta, abbandonata a se stessa, inerte nelle mani di suo fratello. Sembrava quasi pronta, come se volesse compiacerlo pur di essere finalmente liberata. « Ben… » sussurrò soltanto, quasi il suo nome fosse l’unica cosa che riuscisse a dire. « … ti prego… » Eppure sapeva già perfettamente che pregarlo non serviva a nulla. Se l’avesse voluta vedere violentata da qualcun altro, allora London si sarebbe rassegnata a quella volontà. Doveva farlo, ma nessuno di loro l’avrebbe sentita urlare ancora. Klaus non l’avrebbe vista soccombere totalmente. Era uno dei suoi ultimi desideri, quello di mostrarsi forte nonostante stesse morendo lentamente dentro. Un desiderio irrazionale e immotivato, ma bruciante. Doveva resistere anche a quello, per Klaus e forse anche per quel briciolo di orgoglio che le era rimasto.
Benjamin non si mostrò per nulla scosso da quel tentativo di supplica, ma si apprestò ad abbandonare la stanza, voltandosi un’ultima volta a guardare Klaus, come se fosse disinteressato dalla violenza che si stava per compiere tra quelle mura, una violenza che avrebbe rubato a London probabilmente tutto ciò che le restava.

« Non ti azzardare! » urlò lui, « Non puoi farlo davvero, è tua sorella! Tua sorella, porca puttana! Benjamin»
Ben lo ignorò e si chiuse la porta blindata alle spalle, lasciandoli soli con l’altro torturatore.
Klaus trattenne il fiato e allungò le gambe, contorcendosi per cercare di liberarsi. 
« Non la toccare! » continuò a gridare e scalciare. « Non devi neanche sfiorarla! »
L’uomo si soffermò giusto un istante su di lui, prima di prendere a fissare London con un’insistenza che da sola sarebbe bastata a violarla. La ragazza si ritrasse d’istinto sul materasso e quel movimento fece tintinnare le manette contro i bordi inferriati del letto. « N-no… » mormorò con voce terrorizzata, aggrappandosi ai cerchi metallici con tutta la forza che aveva. « … Klaus… » Klaus cosa, di preciso? Aiuto« Klaus… » pianse, ancora, sentendo la poca forza di volontà che le era rimasta venir meno. Doveva riuscirci, doveva resistere, sopportare il dolore e domare l’umiliazione.
Il ragazzo lanciò un grido di frustrazione e continuò a contorcersi sul pavimento, mentre il nuovo aguzzino alzava appena gli angoli delle labbra. 
« E’ ancora presto per urlare » disse viscidamente l’uomo, avvicinandosi al corpo esposto di London. Tenne tra le dita callose la lama che gli aveva concesso Ben e gliela puntò alla gola, nel frattempo che con l’altra mano scendeva ad accarezzarle un seno, per poi stringerlo con forza. Le proteste disperate di lei non valsero a nulla e così gli insulti gridati al vento del marito.
Klaus non si era sentito mai più in trappola prima d’ora: non solo per quelle maledette catene, ma soprattutto per la scena che Ben lo stava costringendo a vedere e per l’atto che avrebbe dovuto sopportare London. E’ la sua gemella!, continuava ad urlare una voce nella sua testa, ma era limpido come l’acqua che il Bridge stesse facendo quello soltanto per provocare lui. Fino a che punto vuoi spingerti, figlio di puttana…
London era sua moglie. Se pensava a tutto ciò che avevano passato e poi la guardava ammanettata a quel letto, in lacrime, toccata e fissata e bramata da quello sconosciuto… Era sua moglie. Sua.
Mia.
Nessuno poteva toccarla, non così, non davanti a lui, non per ordine di Benjamin.
Nessuno.
L’uomo cominciò ad ambire subito ad una meta più appetibile e con le dita tracciò il profilo della pancia della ragazza, che si mordeva le labbra per non cominciare ad urlare dal ribrezzo crescente. La lama ancora puntata alla giugulare le stava impedendo ulteriori proteste, ma, quando lo sconosciuto le sfiorò l’interno coscia e la costrinse ad aprire di più le gambe, London reagì d’istinto e voltò il viso in modo da riuscire a mordere le dita che reggevano il coltellino. L’aguzzino imprecò, ma subito dopo premette con più forza la lama sulla gola bianca della ragazza, tanto che lei pensò che sarebbe morta con una pressione leggermente maggiore.
London si morse ancora le labbra e l’interno della guancia fino a sentire il sapore del sangue in bocca e le sue lacrime si seccarono per lasciare il posto ad una gelida paura che le si aggrovigliò intorno alle viscere.
L’uomo osò ancora di più e nel frattempo avvicinò il proprio viso al suo, investendolo con un respiro caldo e appesantito; accostò il naso alla guancia di lei, saggiando il profumo della sua pelle con gli occhi socchiusi. 
« Tuo marito deve essere stato molto fortunato » disse, quasi come se fosse affascinato dalla visione della ragazza, come se ritenesse un grande privilegio quello di avere il suo corpo diafano tra le mani.
Ma Klaus non era della stessa opinione e fissava le dita del torturatore ancorate alla coscia di London, un contrasto così netto e sporco su una pelle che gli era appartenuta e che gli apparteneva ancora. E odiava quell’uomo, lo odiava, odiava Benjamin, li odiava corrodendosi l’animo e disperandosi per non avere la capacità di ucciderli con le proprie mani in quel preciso istante. Le loro facce così disgustosamente vicine, le lacrime e le grida di London così vivide nella sua testa, le mani di quell’uomo. Le mani. Su di London.
Lanciò ancora un grido e diede un violento strattone alla catena, finché un suono chiaro e pulito gli ronzò nelle orecchie: l’anello della catena si era staccato dal muro, lasciandogli ancora i polsi intrappolati, ma il corpo libero di muoversi. Le frustate e i tagli cominciarono a pulsare di nuovo come se fossero freschissimi e dovette raccogliere tutta la forza del mondo, una forza che lui credeva di non avere, per alzarsi da quelle mattonelle impolverate. Strinse i denti e con passi veloci raggiunse l’aguzzino, senza neanche sapere bene cosa fare. Voleva soltanto che smettesse di toccarla.

« Levale quelle luride mani di dosso! » L’uomo aveva giusto fatto in tempo ad accorgersi dell’improvvisa liberazione di Klaus che lui alzò i pugni bloccati dalla catena più spessa davanti al viso e gli sferrò un colpo alla mascella, sentendo i polsi vibrare contro il ferro e l’osso dell’altro ricevere la botta.
Tuttavia, non era stato abbastanza forte. L’aguzzino si riprese dal colpo fin troppo velocemente e con un ringhio si avventò su Klaus, facendolo cadere a terra e sovrastandolo con il suo corpo; cominciò a prenderlo a calci e ad ognuno di essi Klaus sentiva la punta dei suoi stivali rendergli la pelle ancora più livida e il dolore farsi sempre più strada nelle proprie membra.

« Klaus! » urlò London, agitandosi ancora sulla branda senza sapere cosa fare. Cercava di tirare le mani fuori delle manette e gridò per quello sforzo sovraumano, sentendo la pelle cedere sotto il metallo e le falangi comprimersi per provare a passare oltre. Avrebbe sopportato qualsiasi tipo di tortura, se necessario, ma non poteva vedere Klaus pestato a morte così, dallo stesso uomo che stava tentando di violentarla.
Il marito accusò diversi colpi e gemette, poi tentò un contrattacco dettato dalla disperazione e, approfittando di una minima distrazione dell’avversario, prese a prendergli a pugni lo stomaco, aiutato dalle catene ai polsi che gli conferivano una potenza maggiore. Tuttavia, il vantaggio durò poco, perché l’uomo gli afferrò i capelli e gli sbatté più volte la fronte sul pavimento, finché non cominciò a uscirgli del sangue dal naso. Klaus annaspò e provò a liberarsi, ma ormai non riusciva a capire più nulla, completamente accecato dal dolore. Pregò per assurdo che London riuscisse a liberarsi e scappare, ma quel pensiero non si formulò neanche del tutto nella sua mente che la porta blindata si spalancò di nuovo, rivelando ancora una volta la figura di Benjamin, armato di pistola.
Klaus riuscì appena a cogliere di sfuggita quell’immagine, prima che uno sparo rimbombasse tra le pareti opprimenti di quella stanza. 

 










   
 
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