PARTE
TERZA: DETERMINAZIONE
-Dannazione!
L’imprecazione mi esce di bocca nell’esatto istante in cui il mordente della
gru perde presa sul cilindro di metallo e le tonnellate di acciaio inossidabile
si schiantano al suolo con un boato.
La lastra rimbalza due volte emettendo due tonfi sordi, poi rotola fino a
schiantarsi contro i cingolati della gru, che barcolla leggermente ma rimane in
piedi.
Mollo un pugno al pannello di comando e per tutta risposta l’aggeggio emette
una serie di lampeggiamenti rossi e blu prima di spegnersi.
Riavviare il sistema
-Merda…
Sento i passi dei miei colleghi capicollare nel
corridoio mentre mi rovisto freneticamente nella tasca del camicie alla ricerca
di una sigaretta.
-Bulma! Che è successo?! Abbiamo sentito…
Kyle e Fiona si bloccano sull’uscio sopraelevato
rispetto al pavimento del magazzino, in piedi su una passerella di metallo.
Davanti a loro il cilindro ha sfondato il pavimento del magazzino creando
un’infossatura che sembra l’impronta fossile di una balena preistorica, e il
mordente della gru oscilla ancora emettendo ad ogni colpo un cigolio sinistro e
insopportabile.
Immobile con la sigaretta finalmente in mano, non la accendo con la stessa foga
con cui la mia mano l’aveva cercata, anzi la rigiro tra le dita come fa certa
gente quando tamburella la dita sopra il tavolo per placare il nervosismo.
-Bulma Ti sei fatta mal….
Se mi voltassi so che vedrei Kyle proteso oltre il
corrimano di metallo gesticolare come una scimmia nella gabbia di uno zoo.
Quel dannato mordente…
Con un gesto meccanico prendo l’accendino nella tasca dei pantaloni.
-Andate via- sibilo.
-Ma…
-Via!
Sento gli sguardo smarriti di Kyle e Fiona sfiorarmi
una spalla, i capelli, fermarsi sulla mano nervosa che rigira la sigaretta. Poi
i loro passi ordinati che lasciano la stanza.
Due fottutissimi metri troppo in alto, si trovava il mordente. Quella macchina
crede che io non l’abbia visto, ma so bene che erano solo due fottutissimi
metri.
Fisso la gru pensando ai milioni che mi costerà far rilivellare
il pavimento.
Quando lo sguardo mi cade nuovamente sul pannello di controllo della gru, mi
rendo che nella mia mano ormai non c’è altro che il cadavere della sigaretta
appena presa.
Lasciandomi cadere sulla poltrona di comando del gabbiotto, prendo un’altra
sigaretta e questa volta me l’accendo.
Continuo a guardare la gru con un astio che forse non ho mai provato nemmeno
per le persone.
Era il quinto tentativo che facevo di sollevare quel sollevare quel cilindro, e
so benissimo che se fossi riuscita a sollevarla di altri cinque metri essa si
sarebbe trasformata in una capsula toccando il suolo, invece che distruggere il
pavimento del mio dannato laboratorio.
Era tutto perfettamente calcolato. Quei cilindri sono fatti apposta per
trasformarsi in capsule quando qualcosa li fa crollare. Un modo per evitare che
un edificio cadendo sotterri le persone.
Ma quella dannata gru è riuscita a rovinare tutto.
Mollo un altro calcio al pannello di controllo come se così facendo potessi far
del male alla macchina.
E penso che è tutta colpa degli androidi se sono in quella situazione. Se tutti
si aspettano che faccia l’impossibile, che lo faccia bene e che lo faccia in
fretta. Se non riesco a trovare qualcuno di sufficientemente sveglio per
condurre gli esperimenti al posto mio.
Prima c’erano quei due dannati androidi a rendermi la vita impossibile.
Spengo la cicca sul sedile in pelle della gru premendo bene perché soffra.
Adesso anche le mie stesse macchine non mi stanno più a sentire.
-Pronto?
La voce sottile di Fiona risponde al telefono dopo appena un paio di squilli.
-Ciao Fiona, sono Trunks. C’è la mamma?
Mentre pronuncio queste parole guardo l’orologio appeso sopra il frigo. Mamma è
ancora al lavoro.
Sono le sei e un quarto e il concerto è alle otto e mezza. All’inizio pensavo
di non telefonarle, poi ho realizzato che poteva benissimo essersi dimenticata
che il concerto era oggi, e io mi ero dimenticato di ricordarglielo.
All’altro capo del telefono sento una nota di indecisione.
-Sì Trunks, tua mamma c’è. Però non credo che sia in
vena di parlare…
Oddio…
-E’ ancora nel magazzino a provare il nuovo materiale che si incapsula quando
cade in terra?
-Sì.
-Da sola?
-Già.
Ecco perché non rispondeva al cellulare. Saranno almeno quattro giorni che non
parla d’altro che di questo materiale indispensabile per costruire i nuovi
palazzi. E anche se sembra che tutta la città non veda l’ora di darsi da fare,
fino ad adesso non è riuscita a trovare qualcuno che conduca gli esperimenti al
posto suo.
La notte scorsa l’ho persino trovata addormentata sul divano con un braccio
ciondoloni e le istruzioni di manovra della gru malamente poggiate in terra.
Fisso di nuovo l’orologio e penso che Alissa arriverà
alle sette.
-Fiona, voi chiudete gli uffici alle sei e mezza,
vero?
-Sì.
Annuisco tra me e me.
-Allora niente, grazie mille dell’aiuto. Ciao.
Metto giù la chiamata e prendo la giacca dallo schienale della sedia. Se faccio
in fretta potrei riuscire a fare in tempo, e a quest’ora non dovrebbe neanche
esserci tanto traffico dato che gli uffici chiudono tutti alle sei e mezza e
mancano ancora una manciata di minuti. Nessuno dovrebbe vedermi mentre volo
verso il magazzino.
Mentre esco in cortile e mi chiudo la porta alle spalle, fisso la strada non
tanto trafficata. Nascondendomi dietro il gt convengo di nuovo con me stesso
che ottimo, nessuno dovrebbe vedermi.
E mi alzo in volo il più in fretta possibile. Diretto verso il magazzino della
Capsule Corporation.
Questa scena non mi è nuova. Anche se non l’ho vissuta in prima persona, la
scena di una persona incazzata nera e scoraggiata seduta nella gabbia di
comando di una gru l’ho già vista tanti anni addietro.
Avevo poco più di vent’anni. Lui si chiamava Jake, o Jared, non ricordo, ed era addetto agli esperimenti di poco
più di due settimane.
Ricordo la zazzera di capelli neri che aveva in testa e il volto assurdamente
cosparso di lentiggini sulla pelle bianca come burro.
Era un ragazzo in gamba, ma di quelle persone che cercano di far bene non per
soddisfare il capo, ma per dimostrare a sé stessi di essere in grado di
compiere un gesto.
Un ragazzo che avrebbe fatto carriera, molto probabilmente, dalla
determinazione con cui portava avanti gli esperimenti finchè
non aveva testato ogni nuova invenzione contro tutti i mali possibili e
immaginabili.
Ai tempi in cui lui lavorava in Capsule io ero poco più che una ragazzina, Goku
si era appena sposato e io trascorrevo i pomeriggi in cui Yamcha
era occupato facendo shopping o bighellonando per il magazzino intenta a
osservare i test.
Ricordo persino che Jake, o Jared,
arrossiva tutte le volte che mi vedeva, e la cosa ai tempi mi lusingava e
divertiva al tempo stesso.
Era un ragazzo sui venticinque anni, non proprio di bell’aspetto ma comunque
alto e dalla postura diritta, un gran barlume di determinazione nello sguardo.
Sembrava sempre in lotta con le invenzioni che stava testando, come se stesse
cercando in tutti modi il punto debole per distruggerle.
E ricordo anche che quando falliva un test, magari il muletto andava troppo
avanti e rovinava la fiancata di una nuova auto, o lasciava cadere un oggetto
che si rompeva, oppure semplicemente si distraeva per un istante e la macchina
che stava controllando dava di matto senza motivo, lui chiedeva a tutti di
lasciarlo solo, e si sedeva sulla poltrona di comando della gru osservando con
astio la macchina traditrice.
Avrebbe davvero avuto una brillante carriera. Mio padre era intenzionato ad
affidargli l’intero reparto test già dai primi mesi della sua permanenza.
Lessi della sua morte una mattina per caso, sulla banda luminosa in cima al
palazzo del municipio che il sindaco aveva deciso di adibire a testo scorrevole
di aggiornamento dei morti della giornata.
Stavo andando a fare la spesa in auto, e al semaforo così, senza un motivo
preciso, avevo alzato gli occhi alla banda e avevo visto scorrere il suo
cognome e poi una foto formato tessera.
Aveva soltanto trentacinque anni.
Sul server dei decaduti lessi che da anni si stava dedicando a costruire
un’arma in grado di uccidere anche i cyborg.
Ma che qualcosa durante il testing era andato storto
e l’oggetto era esploso, uccidendolo sul colpo.
In tutti questi anni ci sono stati migliaia di persone assassinate, milioni
persino, talmente tante vittime dei cyborg che i morti per incidenti “normali”
erano quasi stati declassati a morti di serie B.
Quando io ero più giovane se morivi in un incidente d’auto si parlava di
tragedia, quando c’erano i cyborg di poco criterio e sbadataggine.
-Certo che morire così…
Come a dire che una persona se lo sarebbe potuto risparmiare, di morire in un incidente
d’auto, quando là fuori c’erano già così tanti morti a causa degli androidi.
Io non ho mai parlato a nessuno di Jake, o Jared, di quel ragazzo che io vedevo sempre testare le
macchine infinite volte, con la dedizione di un cavaliere che controlla di non
avere buchi nella cotta della maglia.
Forse non ne ho mai parlato perché non volevo vedere la gente roteare gli occhi
con finta compassione, o forse non ne ho mai parlato perché la morte di quel
ragazzo, avvenuta quando Trunks era ancora piccolo,
fu la prima di una persona che conoscevo dopo la morte di Vegeta.
Uno psicanalista da quattro soldi direbbe che Jake
rappresenta il mio trauma mai superato, è che è per questo che mi rifiuto di
assumere qualcuno che faccia il lavoro di testare i macchinari.
Lo psicanalista direbbe anche che guardando i giovani che vengono a chiedere di
essere assunti, è come se io cercassi in qualche modo una traccia di quel
ragazzo, un barlume di caparbietà negli occhi coperti da lenti troppo spesse.
Più o meno come uno psicanalista direbbe io respinga gli uomini perché in essi
ricerco quel qualcosa che Vegeta aveva di diverso e non riesco mai a trovarlo.
Il che a pensarci fa anche ridere.
Cercare in un uomo il principe superstite di un mondo estinto.
La posizione di mia madre arroccata in quel gabbiotto ha una nota bellicosa che
farebbe sorridere se non si vedesse la sua espressione.
Mia madre ha un dualismo che nell’altra Bulma non ho
mai visto. La Bulma dell’altro mondo era come la
giusta via di mezzo tra i due estremi della Bulma del
mio mondo. La Bulma del passato è una ragazza giovane
e solare, un po’ cocciuta e un po’ sensibile. Mia madre invece è una madre
sensazionale, e al tempo stesso una donna che ha sconfitto la solitudine.
Mia madre quando è sola ha un’espressione che mi ricorda quella di mio padre
quando sedeva sul promontorio roccioso dopo la batosta presa da c-18.
Ha l’aria di una combattente che non importa per quale motivo continua a
combattere, ad andare e menar fendenti, salvo certi momenti fermarsi con l’espressione
amara di chi scopre di essersi fatto terra bruciata attorno ai piedi.
La donna che vedo mentre entro nel magazzino è Bulma Brief, una donna che in vent’anni ha vinto il mondo reale e
ha visto l’inferno. La donna che solleva gli occhi e mi vede vestito di tutto
punto ricordandosi di che serata sia quel giorno invece è la mia mamma.
Quella che da piccolo mi metteva il mercuro cromo
sulle sbucciature. E me lo metteva disegnando sopra il sangue un grande sole
rosso.
Ha una dolcezza negli occhi che da piccolo riusciva a rendermi orgoglioso.
Orgoglioso di essere l’unico a poterlo suscitare.
Orgoglioso di essere l’unico e ricevere le sue carezze. Come solo un bambino
egoista poteva esserne felice.
Il suo volto si apre in un leggero sorriso, come se si fosse scossa da un
pensiero.
Eppure non si alza, così mi alzo in volo e la raggiungo.
-Mi sono proprio dimenticata- dice lei, con la voce da madre stanca di
combattere che le sentivo sempre quando ero bambino.
-Non ti preoccupare.
-E’ che stavo provando a lasciar cadere il cilindro del nuovo materiale per
vedere se si incapsulava e il mordente della gru ha perso la presa… Era tutto il giorno che…
-Mamma?
Lei si volta. Vedo quegli occhi blu che trasmettono stanchezza loro malgrado.
-Cosa?
Io la guardo dritta negli occhi. –E’ solo uno stupido
cilindro.
La sua è una risata lieve. Lancia uno sguardo al cratere nel pavimento. –Già, probabilmente è così.
Fisso anch’io lo stesso punto e vorrei dirle qualche cosa.
Che non m’importa del concerto, che posso chiamare Alissa
e dirle che non andiamo.
Che mi fa male rendermi conto che anche se i Cyborg sono morti la vita per noi
non sembra essere più facile. Che mi piace vederla sorridere, ma detesto
vederla accorgersi che attorno al suo tanto amato figlio c’è solo un mondo di
macerie.
Che io posso combattere i miei fantasmi, ma mi fa male non potere nulla contro
i suoi.
Che mi fa male saperla sola. Anche se questo mi rende l’unico che lei ami per
davvero.
Mia madre continua a fissare il cratere con sguardo assorto. Senza distogliere
gli occhi prende una sigaretta nell’ampia tasca del camicie. L’accende con un
gesto che conosco bene.
-Sai Trunks, quando avevo vent’anni in questo
magazzino lavorava un ragazzo che si chiamava Jared.
Nel pronunciare quel nome la sento incerta. Non dico nulla perché prosegua. Lei
aspira il fumo e poi espira un’ampia nuvola.
-Era un ragazzo in gamba. Ricordo che era capace di fare anche 30 test sulla
stessa macchina, e ogni volta ne trovava di nuovi come se di notte non facesse
che pensare al suo lavoro.
La sigaretta va di nuovo verso la bocca. La brace sulla punta brilla un attimo.
-Non ho mai parlato a nessuno di questa cosa, ma credo che continuare a
tenermela dentro non serva a nulla. Ci sono già troppe cose che in questi anni
non ho mai potuto raccontare a nessuno, e non voglio avere più pesi sulle
spalle di quanto non sia strettamente necessario.
Mia madre solleva il capo e pianta gli occhi dentro i miei.
-Jared morì testando un’arma che avrebbe voluto usare
contro i cyborg. Fu la prima persona che conoscevo a morire dopo tuo padre e i
miei amici.
Si arresta un attimo. Nei suoi occhi leggo smarrimento, come se stesse cercando
dentro di sé di trovare la verità.
-Per anni sono stata convinta che anche noi saremmo morti così. Cercando un
modo per sconfiggere quei mostri.
Per questo mi rifiuto di assumere qualcuno che cerchi di sostituire quel
ragazzo.
Perché sarebbe come ammettere dei ragazzini a studiare Karate nel gt in
cortile.
Questo magazzino è di quel ragazzo, del terrestre testardo che sarebbe potuto scappare ma è restato perché
consapevole che scappare in qualche isola non avrebbe scacciato il pensiero
degli androdi. Esattamente come ho fatto io.
Esattamente come hanno fatto pochi altri.
Non permetto a nessuno di entrare in questo posto perché la sua presenza è
ancora qui.
Esattamente come la presenza di quel Sayan nell’aria
stantia del Gravital trainer.
Ho ancora la forza
di starvi a raccontare
Le storie che ho già visto
e quelle da vedere
e tutti quegli sbagli che per un motivo o l’altro so rifare.
Mia madre spegne la sigaretta e guarda il
cratere un’ultima volta.
-Dici che se vengo al concerto col camicie mi dicono qualcosa?
E io le faccio di no pensando che sembra più serena.
E che amo il suo sapersi rialzare sempre così in fretta.
Ho ancora la forza
di chiedere anche scusa
e fare la partita
giocando fuori casa
E dirvi che comunque la mia parte, ve la voglio garantire.
PARTE
QUARTA: IL CONCERTO
-C’è davvero tanta gente.
Alissa si guarda attorno con l’espressione
meravigliata di una bambina in un parco giochi. Ha uno sguardo di assoluto
stupore, come se tutto fosse nuovo.
Io sono vent’anni che non vedo un palco in una piazza, quindi per loro forse è
vero, che tutto questo è qualcosa di nuovo.
Trunks cammina al mio fianco e sta fra me e Alissa tenendoci entrambe per mano come se temesse di
smarrirci. I ragazzi in questa piazza sono silenziosi, parlottano tra loro, ma
come se non sapessero che ai concerti è concesso urlare e parlare ad alta voce.
Una generazione cresciuta spenta, abituata a non disturbare.
Il cantante che si esibirà è famoso da una decina d’anni. Ha cantato diversi
inni ai caduti per via dei Cyborg. Bellissimi testi e una gran partecipazione
con il pubblico, e sembra strano dirlo ma credo questo sia il suo primo live.
Quando ci sistemiamo abbastanza avanti per poter comodamente vedere il cantante
mi rendo conto che i ragazzi si sono scostati tutti per farci passare. Quando
ero giovane e andavo a vedere gli idoli del momento ricordo che sgomitavo e
comunque rimanevo indietro. Adesso sembra quasi maleducazione non far passare
chi vuole andare avanti.
E’ una bella sera di inizio giugno, comincia a fare caldo, e l’emozione sui
volti dei ragazzi è tanto palpabile da essere commovente.
E’ il primo concerto di una generazione. La prima volta in cui tutti loro
vedranno qualcuno suonare dal vivo le canzoni che più amano.
Anche Trunks è emozionato. Lo sento tamburellare le
dita sul dorso della mia mano con la stessa impazienza con cui da bambino
aspettava di aprire i regali di Natale.
Nel momento in cui si spengono le luci e parte un lento corollato da effetti
luminosi blu e oro, vedo sulle guance di Alissa
scorrere una lacrima di commozione.
Il cantante ha la mia età, capelli lunghi che si riavvia ogni tanto indietro
con la mano.
Ha un’espressione emozionata, forse ancora più del suo pubblico.
Trunks e Alissa si lasciano
trasportare dalla musica. A un certo punto vedo che Trunks
non la sta più tenendo per mano, bensì le cinge un fianco con il palmo.
Questa è la stessa piazza in cui tanti anni fa io vidi Goku combattere contro
Junior. La stessa piazza dove si tenne il primo torneo combattuto da Goku, Yamcha e Crilin.
La piazza cui si sono legati molti dei miei ricordi in maniera involontaria.
Guardo questa piazza piena di giovani e penso che è esattamente come per quei
tornei. Ragazzi giovani, che trattengono il fiato e poi sospirano quando vedono
il cantante intonare un nuovo bravo come un guerriero che si rialza dopo una
caduta. La stessa vibrante energia che scaturisce dai corpi e dalle voci che
poco per volta si lasciano andare e immergere nell’atmosfera.
E’ una notte di giugno mite e stellata.
Quasi trent’anni fa mi trovano in questa piazza a vedere Goku trasformarsi in Ozaru sotto l’influsso della luna. Oggi il mondo è così
cambiato che sembra di essere in un altro mondo.
E accanto a me c’è un ragazzo dagli occhi che in questi mesi sono diventati
chiari come il cielo invece che freddi come il ghiaccio.
Stringo con forza la mano di Trunks come se avessi
paura di perderlo, come a voler esser sicuro che lui sia qui, e non sia
soltanto un sogno.
Il cantante sul palco a un certo punto si ferma, intima al pubblico di fare
silenzio e di prestare un attimo di attenzione.
Dice che la prossima canzone la accompagnerà a una serie di immagini che gli
stanno molto a cuore, e che vuole che il pubblico stia in silenzio e osservi lo
spettacolo.
La canzone è un insieme di strofe iniziate con la frase “ho ancora la forza”, e
su un enorme telone bianco una serie di spezzoni di filmati ci ricordano quello
che era il mondo prima che arrivasse il nostro inferno.
Si vedono bambini che giocano in un prato, i primi passi di un neonato, un fiore che sboccia e due giovani che si
baciano. E noi tutti vediamo che il cantante ha il volto rigato di quello che
lui dirà essere sudore, ma che è troppo opalescente per non essere commozione.
Le note invadono l’aria come le eco di mondi lontani, di mondi in cui si può
smettere di pensare e stare all’erta. L’eco di mondi che questi ragazzi non
conoscono.
E io mi rendo conto di essere viva come non mi sentivo da anni.
Una superstite con tanta voglia di ricominciare.
Una donna che ha commesso molti errori, e che è stata salvata dal più grande di
essi.
In questa piazza, questa stessa piazza in cui si celebra il mondo che non è morto,
alzo gli occhi al cielo e mi sembra di scorgere una falena, che si dirige verso
un riflettore ma poi all’ultimo si allontana.
E anche se sono vecchia, anche se ormai sono passati tanti anni e ho visto così
tante cose, penso che nulla sia mai stato più bello di quell’insetto.
E del cielo stellato che lo sovrasta. E della mano di mio figlio che stringe
con forza la mia mentre le lacrime gli inondano le guancie.
Ho ancora la forza
e guarda che ne serve
Per rendere leggero
il peso dei ricordi
E far la conta degli amici andati e dire
“Ci vediam più tardi…
…più tardi”
Sono passati tanti anni.
Ma vedere di esserci ancora, è qualcosa di impagabile.
E di essere capaci di piangere non soltanto di dolore.
Abito sempre qui da me
fra chi c’è sempre stato
e chi non sai se c’è
col mondo sono andato
col mondo son tornato sempre vivo
sempre vivo.
[FINE]