Chapter Ten-
Bleeding Out
When
the day has come
But I’ve
lost my
way around
And the seasons
stop and hide beneath the ground
When the sky turns
gray
And everything is
screaming
I will reach inside
Just to find my
heart is beating
Ricapitolando:
a)
Sono
a New York.
b)
Sono
a New York con Nico Di Angelo.
c)
Nico
Di Angelo mi ha appena offerto
un gelato.
Appoggiai i
gomiti al bancone del bar, passandomi
una mano tra i capelli. Lanciai un’occhiata preoccupata
all’orologio da parete
attaccato di fronte a me. Erano le cinque e mezza del pomeriggio. Entro
le
sette saremmo dovuti ritornare al campo mezzosangue, altrimenti il
“piano”
sarebbe andato a monte. Quella mattina ero stata buttata giù
dal letto da un
Trevis più iperattivo del solito, che mi aveva comunicato in
meno di
trentacinque secondi che quel giorno era il compleanno di Nico, ma con
lui tra
i piedi era impossibile organizzargli la festa a sorpresa,
perciò dovevo
trovare il modo di distrarlo. Avevo impiegato un’ora e mezza
per convincerlo ad
accompagnarmi a “fare shopping in città”
perché “ti prego, Nico,
sai che mi odiano tutti, sei l’unico che non ha paura
di me”. Avrei voluto tanto darmi un migliaio di
botte in testa, perché mi
ero comportata da bambinetta capricciosa, ma era l’unico modo
perché si
decidesse a dirmi di si.
<<
Non ti ho mai vista qui, prima. >> Mi
voltai di scatto. Un ragazzo biondo mi sorrideva. Era abbronzato, e
indossava un’uniforme
scolastica, con la cravatta annodata male. Doveva avere più
o meno la mia età.
<<
New York è una grande città. >> Mi
strinsi nelle spalle, ma ricambiai il sorriso. Lui era piuttosto
carino. Si
grattò la testa, quasi imbarazzato. Lasciò
scivolare lo zainetto su una spalla
sola, poi appoggiò un braccio accanto al mio, sul bancone.
<<
Beh, vengo qui tutti i giorni da più o meno
due anni, e mi sarei ricordato di te. >> Mi
lanciò un’occhiata birichina.
<<
Credimi.
>> Aggiunse poi, e mi squadrò da
capo a piedi, senza curarsi troppo
del fatto che sembrasse un maniaco. Mi sentii arrossire
istantaneamente. Poi
ridacchiai come un’idiota, cercando disperatamente qualcosa
da dire. Ero una
vera frana con i flirt. Nessun ragazzo mi aveva mai abbordata in quel
modo.
Anzi, nessun ragazzo mi aveva mai
abbordata. Nelle scuole che avevo frequentato il popolo maschile
preferiva le
cheerleader alle sfigate con le visioni.
<<
Mi chiamo Genesis, piacere di conoscerti.
>> Gli strinsi la mano, con insolita sicurezza. I suoi
occhi erano di un
bel castano scuro, ma niente a che vedere con quelli di Nico. Stop. Perché stavo pensando a
Nico?
<<
Mattew, il piacere è tutto mio. >> La
sua mano indugiò a lungo nella mia. Sorrisi come
un’ebete. Dovevo sembrare una
ragazzina alla sua prima cotta, così raddrizzai le spalle e
mi schiarii la
gola, trasformandomi in una donna vissuta ed esperta. Ma
chi volevo prendere in giro?
<<
Sei qui da sola? Perché sarei davvero
contendo di offrirti un caffè, o un frappè.
Insomma, quello che vuoi! >>
Esclamò, sbattendo le ciglia. Oh, ma ci stava davvero
provando? Insomma. Un
ragazzo carino ci stava provando. Con me.
Volevo dirgli che in realtà c’era Di
Angelo nei paraggi, che non avevo
tempo per un caffè e che non saremmo mai potuti uscire
insieme, perché quasi
sicuramente sarei stata braccata da mostri vari e avrei potuto avere
una
visione nel bel mezzo del Central Park, ma non lo feci. Che male
c’era a
desiderare di volersi sentire normale, almeno
per un momento? Aprii
la bocca, per
dirgli che mi avrebbe fatto molto piacere, ma qualcuno mi precedette.
<<
No, non è qui da sola. E no, tu non le
offrirai proprio niente. >> La voce di Nico mi fece
rizzare i peli sulle
braccia. Digrignai i denti.
<<
Scusalo, oggi è di cattivo umore. >>
Sorrisi, in direzione di Mattew, poi mi voltai verso il figlio di Ade,
che
teneva in mano un frullato alla fragola e un cono due gusti cioccolato
e
nocciola, come gli avevo chiesto. Mi piazzò in mano il
gelato, poi posò il
bicchiere sul bancone, lanciando al povero malcapitato
un’occhiata che avrebbe
ammazzato un piccione in volo.
<<
Non sapevo che avessi il ragazzo. >>
Commentò Mattew. Non capivo se fosse spaventato o
arrabbiato. Forse un po’
tutte e due. Sorrisi, pestando un piede a Nico. Come si permetteva di
rovinarmi
il flirt?
<<
Non è il mio ragazzo. Siamo soltanto…
>> Mi bloccai. Cosa eravamo noi due? Amici? Conoscenti?
Non ne avevo la
minima idea.
<<
Amici? >> Suggerì il biondo, con aria
più rilassata. Tirai un mezzo sospiro di sollievo, felice
che non fosse scappato
a gambe levate. Non sarebbe stato carino abbandonare Nico nel giorno
del suo
compleanno, e non volevo farlo. Ma procurami il numero di quel tipo non
mi
sembrava un reato punibile con la pena di morte.
<<
Ascolta, se oggi sei impegnata posso
lasciarti il mio numero, così ci si sente più
tardi. >> Suggerì Mattew,
allargando le braccia.
<<
Oh, sarebbe… >>
<<
Una pessima idea. >> Sibilò il
ragazzo dietro di me, afferrandomi per un polso. Provai a divincolarmi,
ma lui
era troppo forte. Fui tentata di rovesciargli il frappè in
testa, ma non avevo
voglia di scatenare una lite furibonda in un bar nel centro di New
York.
<<
Amico, stai tranquillo, non sono un
maniaco. >> Provò a difendersi Mattew, alzando
le mani in segno di resa.
La presa sul mio polso non fece altro che stringersi. Magari avrei
potuto
estrarre Gioiosa dallo zainetto, e
dare una botta in testa a Nico con il piattone. Chissà cosa
avrebbero visto gli
umani. Magari io che picchiavo un tipo dall’aria inquietante
con una mazza da
baseball.
<<
Genesis, dobbiamo andare. >> Si
limitò a ringhiare il figlio di Ade. Poi, prima che potessi
scusarmi o dire
qualcos’altro, mi trascinò via, afferrando il suo
frappè con la mano libera. Mi
lasciò andare soltanto quando fummo sul marciapiede, lontani
dall’entrata del
bar. Assaggiai il mio gelato, cercando di non farlo sciogliere tra le
mie mani.
Poi mi piantai davanti a Nico, assumendo un’aria feroce. Per
quanto me lo
permettesse il cono che avevo tra le mani, ovviamente.
<<
Ma sei impazzito?
Quel ragazzo era carino! Voleva soltanto scambiare due parole, e tu
l’hai fatto
spaventare. >>
Sbottai, con voce
un po’ troppo alta. Nico mi guardò
dall’alto, incrociando le braccia al petto.
Poi ghignò.
<<
Scambiare due parole? Mi prendi in giro?
>> Domandò, sarcastico. Inarcai un
sopracciglio.
<<
Quel tizio ti fissava come se fossi un
pezzo di carne dal macellaio. Ci mancava poco e ti avrebbe sbavato addosso. >>
Ringhiò, con cattiveria. Poi sorseggiò un
po’ della sua bevanda, con espressione truce. Dovevamo
sembrare ridicoli.
<<
E anche se fosse? Saremmo potuti uscire
insieme, e poi… >>
<<
Oh, ti prego, Genesis. Era un mortale.
Credi davvero che saresti potuta uscire con lui? Non so se te ne sei
accorta,
ma non fai più parte di quel mondo!
>> Esclamò, scuotendo la testa. Socchiusi gli
occhi, ma poi abbassai lo
sguardo. Sapevo che lui aveva ragione. Non potevo mettermi con un
umano, e
anche solo farci amicizia sarebbe stato pericoloso per entrambi.
<<
Scusa se per una volta ho provato ad essere
normale. >> Sputai
tra i denti.
Poi girai i tacchi. Speravo con tutto il cuore che Nico non mi
seguisse, ma in
due falcate mi aveva già raggiunta. Alzai la testa,
orgogliosamente.
<<
Central Park è dall’altra parte, ragazzina.
E poi non dirmi che ti sei offesa. >> Il suo tono era
quasi divertito.
Fissai il cielo, come per chiedere aiuto agli dei. Però mi
bloccai, evitando di
fare la figura dell’idiota. La mia teatrale uscita di scena
era stata
indubbiamente rovinata.
<<
Certo che mi sono offesa, mi hai rovinato
il flirt! >> Esclamai, passandomi una mano tra i capelli.
Nico alzò gli
occhi al cielo, poi mi affiancò. Dovevamo sembrare proprio
una coppia strana.
Nonostante fosse ancora il cinque settembre- perciò faceva
caldo- lui indossava
i jeans neri strappati, un
giubbino di
pelle che mi sarei messa soltanto in inverno inoltrato e pesanti anfibi
ai
piedi. Io, invece, avevo una semplice canottiera bianca e un paio di
shorts da
battaglia, di quelli che si comprano al mercatino dell’usato
per qualche
dollaro.
<<
Non ti chiederò scusa, se è questo che
vuoi. >> Ribatté, risoluto. Oh,
ma
sentitelo un po’.
<<
E’ quello che fanno le persone normali.
>> Sibilai. Per colpa sua non stavo nemmeno riuscendo a
gustarmi quel
buonissimo e dolce gelato, che si stava rapidamente squagliando sulla
mia mano.
<<
Primo, non sono normale. >> Cominciò,
alzando il pollice.
<<
Secondo, non mi dispiace, perciò non vedo
il motivo per cui dovrei scusarmi. >> Concluse,
soddisfatto delle sue
argomentazioni. Fui tentata di strozzarlo, ma non mi sembrava il caso,
nel bel
mezzo di New York. Avevo detto a Trevis che ero la persona meno
indicata per
uscire con Nico. Per un momento avevo pensato di chiedere a Lux di
prendere il
mio posto, ma poi era tornata la brutta sensazione alla bocca dello
stomaco. Al
solo pensiero di lei e il figlio di Ade in giro per Manhattan mi veniva
voglia
di picchiare qualcuno.
<<
Lascia perdere. >> Mi limitai a
borbottare. Il Central Park distava più o meno venti minuti
di cammino. Venti
minuti che passarono in assoluto silenzio. Stranamente,
però, non era uno di
quei silenzi tesi ed imbarazzanti. Era più una specie di
momento di riflessione
per entrambi. Ognuno era immerso nei suoi pensieri.
Avrei
tanto
voluto parlare di qualcosa, perché il mio cervello
continuava a settarsi sulla
modalità “Risveglio di
Chaos” e
“Profezie e imprese.”, “Apocalisse”
e via dicendo. Con mia
enorme sorpresa mi trovai a rimpiangere la mia vecchia vita. Di cosa mi
lamentavo? Di Mark che mi faceva i dispetti e di mio padre che si
mostrava
freddo nei miei confronti? Mi venne da ridere e da piangere allo stesso
tempo.
Non sentivo Peter Hale da cinque giorni, eppure mi sembrava passata
un’eternità. Osservai una coppietta felice che si
teneva per mano, poi una
madre che trascinava sua figlia lontano dalla strada, sgridandola per
essere
scesa dal marciapiede. Io non sarei mai stata quella madre, molto
probabilmente. Non sapevo nemmeno se sarei vissuta abbastanza da
compiere i
miei diciassette anni, o da innamorarmi e avere dei bambini. Una vita
normale. Lanciai
un’occhiata di sottecchi a Nico. A volte lo ammiravo per la
sua forza. Dopo
tutto quello che aveva passato riusciva ancora a trovare il coraggio
per andare
avanti.
<<
Come fai? >> Domandai, senza quasi
nemmeno accorgermene. Il ragazzo mi guardò.
<<
Riesci a non farti scalfire da niente.
>> Continuai, a mezza voce. Lui sorrise. Un sorriso
amaro.
<<
Otto anni di esercizio. >> Rispose,
stringendosi nelle spalle. Varcammo il cancello di Central Park senza
accorgercene. Alle sei e venti avremmo preso il pullman per tornare a
Long
Island, perché Nico era stanco, e non era sicuro di riuscire
a trasportare
entrambi con un viaggio nell’ombra, fino al Campo. Aprii la
bocca per parlare,
ma le parole mi si bloccarono in gola. Mattew se ne stava appoggiato al
tronco
di un albero, e mi fissava. Sorrideva, come uno che la sa lunga.
Inarcai le
sopracciglia.
<<
Vuole davvero essere picchiato? >>
Chiese Nico, sbuffando. Il biondo ci fece un cenno con la testa,
invitandoci a
raggiungerlo. Il figlio di Ade ed io ci scambiammo
un’occhiata. Poi ci
dirigemmo verso Mattew. Dovevo piacergli proprio tanto. Magari ci aveva
seguito
per tutto il tempo, o forse ero troppo egocentrica, e lui aveva
semplicemente
scelto di passare un pomeriggio al parco.
<<
Non c’è bisogno che tiri fuori la spada,
Nico. >> Sorrise Mattew, facendoci
l’occhiolino. Nico strabuzzò gli
occhi. Poi il sedicenne biondo che ci trovavamo davanti scomparve,
lasciando il
posto ad un ragazzo sui venticinque, molto più bello e molto
più abbronzato. E
biondo. Davvero tanto biondo.
L’avevo
già visto nella sala del trono, sull’Olimpo. Era
Apollo.
<<
Miglioro di giorno in giorno con i
travestimenti, lo so. >> Alzò i pollici,
passandosi una mano tra i
fluenti capelli color oro.
<<
Divino Apollo. >> Nico sembrava
accigliato, e preoccupato. Beh, non lo biasimavo. Aveva rischiato di
scatenare
una rissa con un dio. Il dio del sole, ma pur sempre un dio.
<<
Ho scritto un haiku per questa occasione,
volete… >>
<<
No, grazie. >> Lo interruppi, un po’
troppo bruscamente. Ero piuttosto irritata. Pensavo di piacere davvero
a
“Mattew”. Invece Mattew era uno stupido dio che si
divertiva un mondo a
prendermi in giro, probabilmente perché non aveva il
permesso di parlare con
me, perciò era dovuto ricorrere ad uno stratagemma per
sfuggire agli occhi
vigili di quell’isterico di suo padre. La vita era ingiusta.
<<
Come vuoi. >> Apollo si strinse nelle
spalle. Poi frugò nelle tasche, estraendo un piccolo
contenitore di plastica.
Sembrava quello per le pastiglie.
<<
Non ho molto tempo, ma voglio aiutarvi. Gli
dei pensano che sia una cattiva idea interagire con voi in questo
momento, ma
non mi interessa. >> Sorrise, smagliante. Almeno Apollo
era un gran figo,
senza ombra di dubbio.
<<
Non potevi inviarci un messaggio iride?
>> Chiese Nico, con le braccia incrociate al petto. La
sua maschera
imperturbabile era tornata a coprigli il viso. Se era spaventato, in
quel
momento, non lo dava affatto a vedere.
<<
Nah, troppo rischioso. E poi mi sono
divertito di più così. Comunque, Genesis,
c’è un motivo per cui tu e Rachel
siete collegate. >> Tagliò corto. Deglutii.
Volevo davvero sapere perché?
<<
Me lo chiese tua madre, perché tu fossi
preparata a ciò che ti aspettava. Con l’aiuto di
Circe preparammo un
incantesimo, attraverso il quale i mostri non avrebbero sentito il tuo
odore, e
il collegamento con l’Oracolo si sarebbe presentato solo al
momento giusto.
>> Sparò tutto d’un fiato. Spalancai
la bocca, incapace di parlare.
Apollo sapeva già che io e Rachel eravamo collegate? E
perché aveva accettato
di aiutare mia madre? Non riuscivo a capire.
<<
Ma… Mia madre era stata bandita, perché hai
deciso di aiutarla? >> Sussurrai, quasi per paura che
qualcuno mi
ascoltasse. Apollo scosse la testa, per dirmi che quello non era il
momento
giusto per parlarne. Ogni volta che scoprivo qualcosa, le domande
quadruplicavano.
<<
Non posso dirti molto altro, soltanto che
credo ad Eris perché… Rachel mi ha detto delle
visoni, quelle che condivide con
te. Sto cercando di convincere gli altri dei… Ma non
è facile. Per niente.
>> Si passò una mano tra i capelli, mostrando
i bicipiti gonfi e
dolcemente scuriti dalla luce del sole.
<<
Ma a te devono
credere. Che motivo avresti di mentire? >> Intervenne
Nico, scuotendo la
testa. Sbuffò, scostandosi dalla fronte una ciocca di
capelli color del
petrolio.
<<
Gli dei sono diffidenti per natura. Se non
agisco con cautela penseranno che io sia passato dalla parte di Eris.
Che io
sia un traditore. >>
Spiegò.
Non mi era difficile immaginare che il resto del consiglio non gli
avrebbe
creduto. Ero stata nella sala del trono per nemmeno mezz’ora,
eppure avevo
capito di cosa erano capaci gli dei.
<<
Quindi… Le visioni non sono mie, ma di
Rachel? >> Domandai, mordendomi un labbro.
<<
Esattamente. E lei le condivide attraverso
il vostro collegamento, senza accorgersene. >>
Annuì Apollo. Sospirai.
Almeno quel mistero era chiarito. Restava soltanto da capire per quale
motivo
mia madre sapeva già ciò che sarebbe successo, e
come mai Circe aveva accettato
di aiutarla. Mi sentii girare la testa. Troppe domande e troppe poche
risposte.
<<
Devo andare adesso, si sono accorti che
manco. >> Alzò gli occhi al cielo. Poi mi mise
in mano il contenitore di
plastica. Magari custodiva informazioni top-secret che ci avrebbero
permesso di
fare un po’ di luce su quell’intricato mistero. Mi
sembrava di dover sciogliere
un nodo complicato. Uno di quelli in cui basta trovare
l’estremità del filo, e
tirare. Ma io non sapevo dove si trovava
quell’estremità, né se avrei avuto la
forza per riuscire a
tirare.
<<
Devi proteggerla, Nico. >> Apollo si
rivolse al figlio di Ade, la cui bocca era distesa in una linea
sottile.
Impiegai un po’ per capire che si stava riferendo a me.
<<
E buon compleanno! >> Ammiccò. Poi
scomparve, così come aveva fatto Eris. Battei un piede per
terra, frustrata.
Aprii il palmo della mano, osservando la boccetta che mi aveva
consegnato.
XANAX,
COMPRESSE.
Non sapevo se ridere o
piangere. Mi aveva regalato
un contenitore di pasticche per gli attacchi di panico. Ma mi stava
prendendo
in giro? Srotolai il biglietto avvolto attorno alla boccetta.
Prendine un paio quando
la paura diventa ingestibile. Ti
serviranno.
La calligrafia
era pulita e ordinata. Chi si credeva
di essere? Il mio dottore? Fui tentata di scagliare via le pastiglie,
ma mi
bloccai. Mi bloccai, ripensando a quando avevo avuto
l’attacco di panico al
falò. Alla sensazione di annegare, alla sensazione che il
mondo continuasse a
muoversi senza lasciarmi via di scampo, e che i miei polmoni non
fossero più in
grado di svolgere il loro compito. Non volevo più sentirmi
così. Impotente,
debole.
<<
Dovremmo tornare al campo. >> Mormorò
Nico, con lo sguardo perso nel vuoto. Annuii, sospirando.
C’era
una festa a sorpresa a cui partecipare.
L’orologio
vicino allo specchietto retrovisore segna le ventitré e
trenta. Mark sembra di
cattivo umore, mentre mastica a bocca aperta la sua gomma alla fragola.
Sono le
sue preferite. Gli tocco un braccio, ma lui rimane fermo. Non si
accorge che
sono lì. Nemmeno il taxista lo fa. Ai loro occhi sono
invisibile.
<<
Scendi subito. Devi scappare. >> La voce di Rachel mi si
insinua nel
cervello. Lo so. So che sono in pericolo, lo sento fin nelle ossa.
Provo ad
aprire la portiera, ma le mie dita sembrano fatte di fumo. Il
conducente suona
sul clacson, sbuffando. Siamo intrappolati nel traffico di New York.
Batto sul
finestrino, ma nessuno si accorge di me.
Devo
scappare, devo scappare. Morirò. Morirò se non
scappo.
<<
Ci vuole ancora molto? >> Borbotta il mio fratellastro,
irritato. Adesso
sono le ventitré e trentatré, sta per succedere
qualcosa di brutto.
<<
Vattene subito! >> Strilla la voce. Le lacrime mi bagnano
le guance.
<<
Non posso! >> Grido, disperatamente. Prendo a gomitate la
portiera, ma
non succede niente. Scalcio, contro al vetro del finestrino, ma non
faccio
altro che ferirmi i piedi. Salto addosso a Mark, ma lui non mi sente.
Non può
sentirmi. Sono fatta di fumo, non esisto.
Ventitré
e trentasei. Il
taxista apre la bocca
per parlare, ma si interrompe.
Una
raffica di vento gelido penetra nella vettura. I finestrini esplodono
in una
pioggia di schegge. Sta cominciando. Mark urla, coprendosi la testa. La
sabbia
lo colpisce negli occhi, mentre io mi lancio fuori dal taxi.
Atterrò sul
cemento, e improvvisamente riesco a sentire di nuovo. Il sangue che mi
cola
dalle dita tagliate, il dolore alla spalla su cui sono caduta. E poi la
sabbia.
Sono
le ventitré e trentasette.
E’
così che segna l’orologio di un grattacielo di cui
non mi ricordo il nome.
Non
riesco ad alzarmi in piedi, perché il mostro rosso mi ha
afferrato una
caviglia. Tendo le mani verso Mark, che sta scappando. Lui mi guarda.
Continua
a fissarmi, con occhi vitrei. Poi se ne va, di corsa. Grido con tutto
il fiato
che ho in gola.
Sono
le ventitré e
trentanove.
Un
anziano signore viene risucchiato dalla sabbia.
Ventitré
e quaranta; un’esplosione sconquassa New York.
E’
l’inizio della fine.
Chaos
si è risvegliato.
Spalancai gli
occhi, con il respiro incastrato in
gola. L’autobus si fermò con uno scossone, ma io
non mi mossi. La mia testa era
appoggiata alla spalla di Nico. Mi ero addormentata durante il viaggio
verso
Long Island.
<<
Stai piangendo. >> Disse il ragazzo.
Sentivo le guance bagnate di lacrime, e un peso esattamente al centro
del
petto. Feci una smorfia. Almeno non mi ero messa ad urlare in mezzo a
tutta
quella gente. Sollevai la testa, asciugandomi il volto con
l’orlo della canottiera.
<<
Era soltanto un incubo. >> Sussurrai,
ma la mia voce era ancora spezzata. Quel sogno mi era sembrato
più reale dei
soliti. Come se fossi davvero in quel taxi, ma nessuno riuscisse a
vedermi.
Come se una parte di me fosse volata fino a laggiù, mentre
il mio corpo
rimaneva da qualche altra parte. Mi guardai le mani. Niente sangue,
niente
tagli. Ma bruciavano ancora.
<<
Non è mai soltanto un
incubo, Genesis. >> Commentò il figlio di Ade.
Sentivo il suoi occhi su di me, ma non avevo il coraggio di alzare la
testa.
Aveva ragione. Non avevo mai fatto un sogno così preciso, e
mi ricordavo tutto
quanto. L’orario dell’orologio sul taxi, quello del
grattacielo… E la data. Il
cinque settembre. Quel giorno. Significava qualcosa? Perché
se Apollo e mia
madre avessero avuto ragione, in meno di quattro ore sarebbe accaduta
una
catastrofe.
La sabbia
avrebbe invaso New York, la gente sarebbe
morta, e io non sarei stata in grado di fare niente. Perché
ero troppo debole,
troppo inutile… Perché il peso da portare sulle
spalle era troppo gravoso per
me. Sentii una sensazione di gelo strisciarmi nelle vene. Aprii lo
zaino in
fretta e furia, poi estrassi il contenitore con le pasticche. Ne mandai
giù due
in un colpo solo, ad occhi chiusi.
<<
Cos’è quello schifo? >> Nico mi
strappò di mano la boccetta di plastica. Appoggiai la testa
al sedile, con il
fiatone. Il cuore mi batteva ancora a mille, ma per lo meno riuscivo a
respirare senza problemi. Lo Xanax aveva bloccato l’attacco
di panico che stava
per assalirmi in pullman.
<<
Me le ha date Apollo. Sono per gli attacchi
di panico. >> Spiegai brevemente, stringendomi nelle
spalle. Una voce
metallizzata avvisò che la fermata
successiva era quella di Lons Island. Altri dieci minuti a
piedi e
saremmo arrivati al Campo senza spargimenti di sangue.
<<
Non dovresti prenderle, altrimenti non
imparerai mai a controllarli. >> Scosse la testa, con
tono di
disapprovazione. Mi riconsegnò il contenitore, che ficcai
prontamente nella
tasca dei pantaloni. Volevo avere le pastiglie a portata di mano. Nico
non
capiva. Non sarei mai stata così
forte. Forse lui si era già sobbarcato il peso del mondo
sulle spalle, ma io
non sarei stata in grado di reggere a lungo. Non ero un eroe. Non
volevo
esserlo.
<<
Non riuscirò mai a controllarli. Sono
troppo… Debole.
>> Sputai,
stringendomi le braccia attorno al torace. Poi l’autobus si
fermò a Long
Island, e scesi a grandi passi, afferrando lo zainetto. La fermata era
praticamente in mezzo al nulla, ma di sicuro da quel punto avremmo
raggiunto il
campo senza difficoltà.
<<
Non è vero. >> Ribatté il figlio di
Ade. Nonostante stessi quasi correndo, lui non faticava a stare al mio
passo.
Ridacchiai. Una risatina piuttosto amara.
<<
Sì, invece. E non c’è bisogno che fingi
per
farmi stare meglio, davvero. >> Mi stavo comportando come
l’adolescente
tormentava di cui parlavamo qualche sera prima, ma non mi interessava.
Volevo
soltanto stare da sola, e pensare a come sistemare quel casino della
mia vita.
E poi avrei dovuto avvertire Chirone del mio incubo, pregare che Rachel
pronunciasse la stupida profezia, parlare con Lux… Nico mi
afferrò per un
polso, facendomi fermare bruscamente.
<<
Tu hai davvero una concezione sbagliata di
te stessa. >> Commentò. Alzai lo sguardo.
Eravamo molto vicini. Più
vicini di quanto le norme sociali avrebbero consentito. Ma eravamo
amici.
Soltanto semplicissimi amici. Eravamo usciti come amici, e saremmo
tornati a
casa come amici. Niente di particolare.
<<
Sono realista. >> Asserii a mezza
voce. Non ero mai stata una persona coraggiosa, né
particolarmente bella o
brillante. A parte la pazzia ero una banalissima adolescente
newyorkese. A
scuola c’erano tantissime ragazze molto più carine
di me, che avevano ottimi
voti a scuola e ottenevano borse di studio per lo sport. Io non avevo
mai
spiccato in niente.
<<
No, sei coraggiosa.
>> Mi corresse lui. E per la prima volta sulle sue labbra
si formò un
sorriso sincero. Un sorriso comprensivo, e quasi dolce. Avevo
l’impressione che
in Nico Di Angelo bruciasse ancora il fuoco. Era soltanto nascosto da
una
spessa lastra di ghiaccio, che ero riuscita a scalfire. Abbassai lo
sguardo,
scuotendo la testa, ma il figlio di Ade mi infilò un dito
sotto al mento,
costringendomi a fissarlo.
<<
Quella ragazza che ha sconfitto un’Empusa,
che ha affrontato Clarisse, che ha avuto il fegato di contestare
Zeus… Non è
coraggiosa? >> Domandò. Mi sentii le lacrime
agli occhi, perché quella
era sicuramente la cosa più dolce che qualcuno mi aveva mai
detto.
<<
Cercavo soltanto di salvarmi la vita.
>> Ribattei debolmente.
<<
Cercavi di fare la cosa giusta. >> La
sua fronte si posò sulla mia. Sentivo i suoi capelli ribelli
sfiorarmi le
guance. Ci separava soltanto un respiro, un soffio. I nostri nasi si
toccavano
quasi, mentre lo fissavo negli occhi, incantata.
<<
D-dovremmo andare… >> Balbettai senza
troppa convinzione.
<<
Già, dovremmo. >> Ripeté, ma il suo
tono era piatto. Chiusi gli occhi.
Ok,
d’accordo.
Volevo baciarlo.
Morivo
dalla
voglia di baciarlo. Mi chiedevo come mi sarei sentita, se il tremore a
tutto il
corpo sarebbe sparito o se le farfalle allo stomaco si sarebbero
placate. Il
cuore mi batteva a mille, come a voler scappare dalla mia cassa
toracica. Ma
era sbagliato. Era tutto sbagliato. Ci conoscevamo da cinque giorni,
continuavamo a litigare e probabilmente di lì a poche ore
saremmo morti tutti.
Non potevamo stare insieme. Non in quel modo. E poi io non gli piacevo.
Lui non
mi piaceva. O almeno credevo.
<<
Nico. >> Soffiai. Mancava davvero
poco. Quattro, cinque centimetri. Chiusi di nuovo gli occhi, mentre si
avvicinava sempre di più.
<<
Ragazzi, finalmente! >> Spalancai le
palpebre, e saltai all’indietro. Trevis Stoll ci salutava da
lontano con la
mano. Cosa ci faceva lì? Mi lanciò
un’occhiataccia d’avvertimento.
Probabilmente avevamo tardato per la festa.
<<
Vi stavamo aspettando! >> Esclamò.
<<
Per cosa? >> Di Angelo sembrava
sospettoso.
<<
Oh, vedrai.
>>
NOTE
AUTRICE
Zalve
a tutti :3 allora, piaciuto questo capitolo? Apollo è sempre
il solito gran
figo, e finalmente si decide a spiegare qualcosa a Genesis. Nel
prossimo
capitolo succederà un gran casino, vedrete. Ringrazio i miei
lettori, i miei
recensori, chi segue, preferisce e ricorda questa storia. Grazie di
cuore,
tanti bacioni :3