Capitolo
11
Davanti
all’ingresso dell’hotel, un addetto del personale li salutò e prese in
consegna
la fuoriserie per portarla in garage, mentre i due passeggeri
scendevano con i
bagagli e si avviavano verso uno degli ascensori di vetro.
La
card magnetica fece scattare la serratura della porta della suite nel
silenzio
del lungo corridoio.
Si
richiuse alle loro spalle intanto che le luci si accendevano
automaticamente.
Akira
abbandonò il proprio trolley nei pressi e seguì con lo sguardo Hiro che
avanzava
più in là.
Il
ragazzo si guardò intorno come a sincerarsi che tutto fosse rimasto
come
l’avevano lasciando partendo qualche giorno prima.
Si
fermò davanti alla grande vetrata che dava sullo skyline della città,
immersa
nel buio della notte e nelle mille luci degli altri grattacieli.
E
non lo sentì raggiungerlo, i passi ovattati dalla moquette.
Se
non quando la voce dell’uomo gli fu a pochi centimetri dall’orecchio,
mandandogli un brivido traditore lungo la schiena.
-
Vuoi
uscire a cena fuori o preferisci che ordiniamo qui? – Si sentì chiedere
in un
semplice sussurro.
Incontrò
l’immagine di Akira che si rifletteva sulla superficie lucida del vetro.
-
Preferirei
rimanere qui, se per te fa lo stesso. – Espresse a bassa voce,
fissandolo
soltanto un momento. – Non ho voglia di stare in mezzo alla gente. -
Lui
gli sorrise.
-
D’accordo,
chiamo il servizio in camera. Vuoi qualcosa in particolare? –
-
Decidi
tu, va bene lo stesso. –
L’immagine
rifratta assentì e si allontanò.
Hiro
sospirò, un peso immane sul petto a schiacciarlo.
Sentì
la voce profonda e sicura di Akira che parlava con qualcuno al telefono.
Non
aveva fame, a dire il vero, lo stomaco ancora stritolato dalla morsa
permanente
che non lo aveva lasciato un istante in quella lunga giornata.
Ma
avrebbe fatto finta di piluccare qualcosa tanto per non deludere le
aspettative
del proprio ospite.
In
realtà l’unica cosa che davvero desiderava con tutto il cuore a quel
punto era
chiudersi nella stanza che gli era stata assegnata e andare a dormire,
provando
a escludere ogni brutto pensiero fosse stato anche con l’aiuto di un
sonnifero.
Tuttavia
fu consapevole, nell’istante in cui formulò quel desiderio in sé, che
la sua
sarebbe rimasta una misera e impossibile ambizione.
Sarebbe
stata una lunga notte, si disse sgomento e rassegnato.
Qualcuno
bussò alla porta parecchi minuti dopo.
Un
addetto al piano condusse il carrello della cena in stanza appena Akira
andò ad
aprire.
Fu
cordialmente licenziato e la porta si richiuse.
Hiro
registrò appena i rumori alle sue spalle, paralizzato lì dove si era
fermato,
rifiutandosi mentalmente di distinguere le immagini che pur scorrevano
sulla
superficie scura davanti a sé, come fosse stato un enorme schermo,
rincorrendo
le luci esterne piuttosto che quelle all’interno.
Suo
malgrado, però scorse la figura alta e slanciata di Akira che gli
ritornava
alle spalle.
Doveva
essersi cambiato perché adesso indossava i pantaloni scuri del pigiama
e la
camicia dello stesso, lasciata negligentemente aperta a mostrare la
pelle
scolpita del torace e degli addominali.
E
a piedi nudi avanzava per raggiungerlo.
Il
ragazzo non poté impedirsi di provare un violento rimescolamento
all’altezza
dello stomaco, sconvolto irrimediabilmente da quell’immagine ammaliante.
Per
l’ennesima volta in tutti quei giorni insieme, si domandò se Aki fosse
consapevole del proprio fascino e lo usasse con deliberata provocazione.
O,
più probabile, se ancora da qualche parte era rimasto quello che lui
ricordava,
era semplicemente naturale e incurante dell’effetto che faceva il suo
corpo
impunemente mostrato.
Raccolse
un profondo respiro, tentando di trovare il coraggio di tenere a freno
le
proprie emozioni, ma non ne fu molto sicuro, mentre girava su se stesso
per
ritrovarselo non più riflesso, ma davanti in tutta la sua sfrontata
invadenza.
-
E’
pronto, vuoi venire? –
Si
sentì chiedere da un sorridente Akira, ignaro del suo stato d’animo.
Hiro
inghiottì aria e fece un cenno impercettibile con la testa.
Lo
seguì, lo stomaco sempre più chiuso e dolorante, e un imprevisto,
imbarazzante
irrigidimento delle sue parti basse.
Pregò
disperatamente che lui non se ne accorgesse.
Sull’immenso
tavolino di cristallo, davanti al divano, erano stati deposti due
vassoi con
del sushi, disposto ad arte da mani sapienti, due calici e una
bottiglia di
vino bianco di una nota marca.
-
Ho
pensato che volessi qualcosa di leggero. –
-
Grazie,
va bene. –
-
Non
vuoi metterti più comodo prima di mangiare? –
Il
ragazzo non seppe come interpretare le sue parole.
Si
limitò a scuotere il capo.
Akira
non aggiunse altro, gli fece un gesto con la mano per invitarlo a
sedersi.
Lo
vide accomodarsi sull’orlo della penisola del divano, lontano da dove
sarebbe
stato logico prender posto, e cioè davanti al tavolino, ma non glielo
fece
notare.
Tempo
e spazio.
Si
impose, paziente, e sedette a sua volta poco distante, deciso a
concedergli
tutto il tempo che gli serviva e a non invadere troppo il suo spazio
per non
soffocarlo.
Perché,
lo vedeva, Hiro sembrava muoversi come su un campo minato, concedendosi
di
respirare lo stretto necessario per pompare aria sufficiente nei
polmoni.
E
non riusciva a rilassarsi.
Completamente.
Nemmeno
nel loro viaggio di ritorno, quando gli si era accoccolato sulla
spalla, lo
aveva sentito lasciarsi andare.
Anzi,
ancora si sorprendeva del suo gesto.
Ma
ne era stato felice, malgrado il suo disagio fosse palpabile.
Tempo
e spazio.
Si
ripeté silenziosamente come un mantra.
Sapeva
che ricondurlo a sé non sarebbe stata impresa facile.
Troppe
barriere.
Troppe
parole ancora da dire.
Troppe
verità da pronunciare.
Non
tutte quella sera.
Non
tutte insieme almeno.
-
Hiro?
– Lo chiamò piano.
Il
giovane trasalì e lo guardò.
-
Scusami,
ho dimenticato di lavarmi le mani. – Scattò più nervoso di quanto
avesse
previsto.
-
O..
ok, ti aspetto! –
Lo
vide rimettersi in piedi e avviarsi verso il corridoio.
Quando
scomparve alla vista, sprofondò nel divano, lasciandosi andare contro
la
spalliera.
Con
una mano cercò il telecomando delle luci che aveva lanciato lì vicino,
e regolò
l’illuminazione, diminuendone l’intensità.
L’immensa
stanza cadde in una penombra accogliente e meno invasiva.
Si
dispose ad attendere.
L’acqua
scorse fresca e rapida dal rubinetto del lavandino, appena fu sfiorata
la
fotocellula sensibile.
Hiro
si lavò le mani e si rinfrescò il viso accaldato, sperando così di
raffreddare
il resto del proprio corpo agitato.
Il
getto si arrestò nel momento in cui si allontanò e il liquido
trasparente
mulinò nello scarico.
Sollevò
lo sguardo all’enorme superficie riflettente davanti a sé e l’immagine
che lo
specchio gli sbatté in faccia non gli piacque granché.
Aveva
gli occhi arrossati e stanchi, con delle occhiaie paurose.
La
pelle pallida e tirata.
Le
labbra esangui e serrate.
Faceva
schifo.
Giudicò
impietoso, distogliendo gli occhi.
Puntò
le mani sul bordo della vaschetta di porcellana, fece un passo
indietro,
incurvandosi e lasciò cadere la testa pesante in avanti.
Non
se la sentiva di ritornare subito di là: percepiva chiaramente il
proprio corpo
stravolto da una serpeggiante eccitazione che gli pizzicava la pelle.
Ogni
terminazione nervosa risvegliata da una violenta ondata di calore che
si
propagava dalla punta dei piedi, risaliva rapida e si concentrava come
una
bolla urgente e pulsante tra le gambe, rendendogli improvvisamente i
pantaloni
troppo stretti e l’erezione dolorosa.
L’immagine
di Akira stampata nel cervello, bello e seminudo, e ignaro, e quel suo
profumo
familiare e sottile, inusitatamente gli risvegliava sensazioni che non
provava
più da anni.
Che
non aveva più provato per nessuno dopo che era rimasto solo, neppure
per
qualcuno dei clienti che si erano succeduti in agenzia.
Quel
piacere strisciante, insinuante e sconvolgente che aveva provato
quell’unica,
indimenticabile, volta e che nessun altro uomo era stato in grado di
replicare,
ora lo aggrediva cogliendolo drammaticamente impreparato.
Negli
anni era stato un susseguirsi meccanico di reazioni automatiche,
indotte dalla
mera stimolazione fisica di mani e corpi sconosciuti, durante centinaia
di
amplessi tutti uguali e insignificanti pur nelle loro variabili, che
non erano
mai riusciti a raggiungere e toccare la sua mente, e meno che mai il
suo cuore.
Quante
volte aveva pensato incurante di essere diventato impotente e
insensibile, a
dispetto delle risposte del proprio corpo?
E
adesso, eccola di nuovo, “quella” sensazione che gli esplodeva dentro,
avvolgendolo come una fiamma, e distruggeva ogni convinzione cementata
nel
tempo.
Eccola,
percepirla e provarla ancora e soltanto per l’unica persona che l’aveva
creata
per lui, gliel’aveva fatta assaporare e gliel’aveva piantata dentro,
conficcandola nel profondo come la lama di un pugnale affilato.
Il
cuore aumentò i battiti, suscitandogli un lieve mancamento.
Doveva
esserne felice o spaventarsene?
Non
seppe deciderlo.
L’unica
cosa di cui era certo in quel momento era la tempesta che si era
scatenata
dentro di sé e l’inadeguatezza a disciplinarla.
Semplicemente
perché non era preparato.
Così
si prese qualche minuto.
Il
tempo di darsi una calmata.
Si
disse nel tentativo di convincersi a riprendere il controllo di sé.
Perché
malgrado tutto, in quel momento, nello stato di prostrazione in cui
era,
sfinito dalle mille emozioni di quella giornata assurda, non avrebbe
voluto che
accadesse nulla tra loro.
Per
quanto una parte di sé lo desiderasse costantemente, soverchiando la
ragione e
il buonsenso.
Non
DOVEVA accadere nulla.
Anche
se lui lo provocava, sebbene involontariamente – o no? – mostrandosi
con quel
pigiama nero che nulla lasciava all’immaginazione, rilucendo sulla sua
pelle
bianca e perfetta.
Non
DOVEVA!
Infine
si tirò su e raccolse un altro, l’ennesimo, profondo respiro.
Le
condizioni non erano migliorate granché, ma forse poteva azzardare a
mostrarsi
senza suscitare l’attenzione della causa di tutti i suoi guai.
Se
lo ripeté mentalmente mentre gettava un’ultima occhiata ostile alla
propria
immagine riflessa.
Si
passò le dita tra i capelli per darvi un senso, ma le ciocche ribelli
non
vollero intendere e alcune gli ricaddero sulla fronte.
Le
ignorò prima di cedere all’impulso irrazionale e rabbioso di
strapparsele e
uscì dalla stanza.
Sgomento
si ritrovò Akira a pochi passi da lui e trasalì vistosamente.
-
Scusa,
non volevo spaventarti, è che stavo venendo a vedere che fosse tutto a
posto:
sei stato chiuso dentro per parecchio tempo. –
La
sua risata leggera, mentre gli parlava, gli riscaldò il cuore per un
istante,
facendogli dimenticare lo spavento.
-
Mi
spiace, non mi ero accorto! – Mentì in un sussurro, subito distogliendo
lo
sguardo.
Il
giocatore gli fece scorrere un braccio intorno alle spalle,
avvicinandolo un
poco a sé, e lo sospinse gentile a seguirlo.
La
seta nera scivolò appena di lato con il movimento dell’arto,
scoprendogli parte
del torace: una folata di profumo avvolse il ragazzo come un secondo,
impalpabile abbraccio, mandandogli i sensi in ulteriore confusione.
-
Stai
bene, si? –
-
Si,
grazie. – Ma il cuore di Hiro riprese a battere impazzito al centro del
petto.
Di
quel passo non sarebbe sopravvissuto, pensò, curandosi di non fissarlo.
Sedettero
vicini sul morbido divano e solo allora si accorse che l’atmosfera era
mutata
dalle luci abbassate.
Di
male in peggio!
-
Mangia
qualcosa, ti prego, è tutto il giorno che non tocchi praticamente
nulla. – Gli
chiese Akira, offrendogli un piatto colmo di sushi.
Lui
lo prese meccanicamente e se lo poggiò sulle gambe unite.
Per
un momento ne fissò il contenuto chiedendosi che cosa farne, quasi
avesse
dimenticato il significato stesso di quel che aveva davanti.
Poi
scacciò quell’assurdo interrogativo e prese un quadratino di pesce con
le dita
portandoselo alla bocca.
Lo
masticò piano, lasciando che il cervello ne recepisse il gusto e la
consistenza.
E
si accorse che rimanevano quasi indifferenti, lui, la testa e lo
stomaco,
malgrado, ne era certo, sapesse che quel sushi fosse della miglior
qualità e
costasse anche uno sproposito.
Pur
inappetente, si sforzò di mandar giù qualche boccone in più, giusto per
non
provocare ulteriore attenzione da parte del compagno, che era rimasto a
fissarlo con un sorriso d’incoraggiamento disegnato sulla bella bocca.
-
E’
buonissimo. – Mormorò, sentendosi in dovere di commentare.
-
Sono
contento che ti piaccia. – Approvò Aki annuendo felice.
Stette
a guardarlo mangiare per qualche minuto, seguendo ogni suo gesto.
Dopo
un po’ gli scostò una ciocca di capelli dalla guancia, portandogliela
dietro
l’orecchio, dove la sistemò perché stesse ferma.
E
lasciò che le dita indugiassero sulla sericità e la morbidezza di
quella
porzione di pelle.
Hiro
si arrestò turbato e dal gesto e dal tepore che gli stava trasmettendo
alla
guancia.
-
Ti
stanno bene i capelli così. – Sussurrò l’uomo con un tono di voce più
basso,
accarezzandolo con uno sguardo colmo di affetto. – Non li hai mai
portati tanto
lunghi. –
-
Gr…
grazie. –
-
Ti
senti un po’ più tranquillo, amore mio? –
Il
giovane deglutì a vuoto: ogni volta che sentiva pronunciare quelle due
parole
era una stoccata nelle costole.
Ed
erano dolore e felicità al tempo stesso: gli piaceva così tanto
chiamarlo in
quel modo.
Gli
era sempre piaciuto fin da quando si erano dichiarati la prima volta.
Gli
sovvenne il ricordo traditore.
Istintivamente
reclinò appena la testa verso la sua carezza morbida, lasciando che la
guancia
strusciasse contro i polpastrelli, ma non disse nulla, ben consapevole
che
qualunque cosa avesse risposto, sarebbe stata una bugia, ‘che non era
tranquillo proprio per niente.
Aki
si chinò su di lui, sfiorandogli le labbra con un bacio, assaporando
lui e il
gusto del sushi che gliele inumidiva.
Pietà!
Implorò
Hiro dentro di sé, disperato, non osando fare un solo fiato.
Lo
sentì ridere d’un tratto a un soffio dalla sua bocca.
-
Respira,
piccolo, respira! – Gli disse sempre più sensuale.
-
Non
prendermi in giro! –
-
Non
lo farei mai. – Il blu cobalto delle iridi piantate nelle sue dilatate
dall’ansia.
-
Stai
ridendo di me. –
-
Non
è vero, sei delizioso! -
-
E
tu un deficiente! –
Appena
pronunciò l’insulto si pentì: aveva fatto un passo falso?
Se
lo chiese mentre il sorriso sul volto davanti a sé si allargava invece
di
avvizzire.
-
Ma
lo sai quanto tempo era che non mi apostrofavi così? – Esultò Akira con
un
entusiasmo che il ragazzo non riuscì a spiegarsi.
Certo
che lo sapeva da quanto non lo rimbrottava con il suo aggettivo
preferito e che
più gli si attagliava: da quando si erano separati.
Glielo
diceva così spesso quando erano ragazzini.
Se
lo meritava tutte le volte per il suo atteggiamento sempre e
costantemente
leggero e felice.
Perché
non prendeva quasi nulla sul serio, forte della sua filosofia
la-vita-è-bella-perché-farci-problemi-inutili? che gli faceva
affrontare tutto
a cuor leggero.
E
per questo entrando spesso in contrasto con lui, più posato e
riflessivo, e
caratterialmente più pessimista.
Esasperandolo
e facendolo andare in escandescenze una volta su due.
S’accorse,
mentre si perdeva in quella riflessione, di quanto, invece di
offenderlo, lo
avesse reso contento.
Beh…
non che Akira se la fosse mai presa davvero.
Anzi,
di solito gli veniva da ridere.
O
da guardarlo con uno dei suoi classici sguardi da gatto sornione che
avrebbero
puntualmente smontato ogni sua velleità di punirlo per qualcosa a
seconda del
caso.
Impossibile.
Questo
era sempre stato quell’uomo.
Impossibile
da scoraggiare o da smontare.
Quante arrabbiature si era preso?
Aveva
perso il conto.
Ricevette
un altro bacio a fior di labbra, ma stavolta si permise di sorridere
appena,
felice di aver ritrovato un pezzettino del vecchio compagno di quegli
anni.
Forse,
da qualche parte di lui, c’erano ancora piccole schegge di ciò che era
stato
quando la vita era quella quotidiana di ogni adolescente pieno di
voglia di vivere
e di aspettative e di progetti.
E
niente aveva dilaniato o indurito il suo entusiasmo.
Sperò
con tutto il cuore di poterne rintracciare altre e mettere insieme i
cocci.
…
Con quel che restava di sé.
-
Ridillo!
–
-
Cosa?
–
-
Insultami
ancora! –
-
Che?
-
-
Daiiii!
–
Aki
lo baciò ancora in attesa che l’accontentasse, regalandogli sempre quei
baci
casti e lievi.
E
ancora.
E
di nuovo.
-
Se
non la pianti di baciarmi come faccio a parlare, deficiente? – Sbottò
Hiro di
colpo, alterandosi di riflesso, ma senza convinzione.
Non
si scostò tuttavia da lui e dal contatto con la sua vicinanza, le sue
dita
sulla guancia e la sua bocca irriverente e morbida sempre lì a un
respiro da
sé.
Per
niente al mondo sarebbe stato disposto a staccarsi da tutto quello,
qualunque
cosa fosse.
Il
cuore gli ballava in mezzo allo sterno, e assordava la ragione, che pur
tentava
di imporsi al di sopra del chiasso che faceva.
In
un batter d’occhio si ritrovò stretto in un abbraccio soffocante che
quasi lo
stritolò.
Un
angolino della mente gli fece registrare che il piatto sulle ginocchia
stava
per fare un volo sul tappeto.
Istintivamente
lo afferrò perché non cadesse mentre l’ossigeno gli si frantumava tra i
polmoni
e la gola.
Ma
Akira lo liberò subito, venendo in suo soccorso, e lo aiutò a tenerlo.
Così
facendo gli sfiorò il tessuto dei jeans tra le gambe, poco più su del
ginocchio, in un gesto in verità casuale, null’affatto intenzionale o
provocatorio.
Tuttavia
tanto bastò perché Hiro, in preda al panico, reagisse con uno scatto
nervoso, allontanandogli
la mano con una specie di schiaffo.
-
Hey,
tranquillo, non voglio far niente! – Cercò di rassicurarlo l’altro
sincero.
-
Mi
dispiace, scusami… io… tu… -
Scattò in
piedi irrequieto, portando il piatto con sé, completamente dimentico
dell’uso
che ne dovesse fare.
Anzi,
lo abbandonò sul tavolino rapidamente e mosse qualche passo lontano
sotto lo
sguardo perplesso di Akira.
Che
gli concesse soltanto qualche attimo prima di raggiungerlo.
Con
un gesto fluido e delicato, gli fece scivolare le braccia intorno ai
fianchi, e
se lo tirò contro piano, facendo aderire la sua schiena al proprio
petto.
Piegò
il capo sulla sua spalla, affondando il volto nel suo collo bollente e
attese
interminabili istanti che si tranquillizzasse, percependo e assorbendo
distintamente
l’inquietudine che lo scuoteva.
-
Mi
dispiace. – Pigolò il ragazzo in un sussurro, rabbrividendo da capo a
piedi. –
Tu hai pagato per avermi, non ho il diritto di sottrarmi, scusami, non
volevo…
-
La
presa intorno a lui si fece più drastica, provocandogli un principio di
soffocamento.
-
Non
dire cazzate, te lo proibisco! – Il sibilo feroce che gli sfiorò
l’orecchio gli
fece dubitare di chi fosse quella voce. – Tu sei mio, ma non è per
“averti” che
ho pagato.
Calmati
adesso, stavo solo cercando di aiutarti a tenere il piatto prima che si
rovesciasse, nient’altro. –
-
Perdonami,
sono stanco, non… non so più neppure che sto facendo. –
Immediatamente
l’abbraccio ritornò dolce e pieno d’affetto, permettendogli di
respirare.
Hiro
girò un poco la testa alla sua sinistra, incrociando il respiro caldo e
lo
sguardo adorante di Akira.
Ebbe
tuttavia la sensazione netta e paralizzante che se si fosse voltato un
momento
prima, si sarebbe scontrato con un muro di ghiaccio ostile.
Non
volle soffermarsi, intimorito.
-
Andiamo
a dormire. – Gli disse lui conciliante. – Questa giornata è stata
davvero
troppo lunga… -
Gli
stampò un bacio leggero sulla bocca socchiusa e lo liberò dalla propria
stretta.
Lo
prese per mano e lo accompagnò fino alla porta della sua camera, aprì e
ve lo
sospinse gentile, inoltrandosi soltanto di un metro all’interno.
Qui
lo strattonò leggero, riavvolgendolo nel proprio abbraccio e lo baciò
per
l’ennesima volta senza alcuna pretesa, con casta e limpida devozione,
come se
stesse sfiorando un oggetto prezioso e fragile.
-
Buonanotte,
amore mio! – Si congedò, l’espressione riverente e affettuosa negli
occhi e il
timbro di voce così suadente che tanto bene gli riusciva, e che mandava
in
crisi la sua vittima.
Infine
tornò sui suoi passi e si richiuse la porta alle spalle.
Lasciando
un Hiro attonito e stordito, avvolto in una scia intensa di profumo,
impossibilitato a capacitarsi di cosa fosse successo nel giro di un
istante.
Tresor