E dopo mesi e mesi di silenzio, eccoci di
nuovo qua!*muoiono male*
Siete stati bene durante le vacanze?♥
Speriamo di sì*^*
Bene, prima di passare al secondo capitolo,
via alle risposte ai commenti è__é!
Beautiful_disaster: sì che è vera XD Ci sono persone che soffrono di questo
disturbo... Siam contente ti piaccia, speriam di
soddisfarti anche con questo^w^
Shichan: inquieta vero?8D Spero che il diabete non te lo sia
beccata da noi XD *specie da Na
che ne ha scritte davvero troppe e troppo mielose.* Grazie mille tata *w*
Chibisimo: Speriamo che andando avanti non ti sembri più tanto
dolce XD Grazie del commento comunque^^
Paper Doll: Grazie tata *w* Ed è
bello perché lo muove Mika, mica per altro ;__;!
Betta90: speriamo intanto che tu sia ancora
una nostra fedele seguace ;_;! Ecco il seguito, speriamo ti gusti *O*<3
Sarazaretta: Grazie mille tata ^w^ Eh, fa il geloso male però...;A;
Siamo tutte un po' preoccupate per Al, voi no?
Damaris: Eccolo*w* Siamo felici di aver reso bene una cosa così
inusuale... speriamo di non deluderti andando avanti è_é
Prima di iniziare, pubblicità!
http://elricest.forumfree.net, venite
numerosi/e!*^^*
And
now, let's go on!
Mugolò appena, la testa pesante come un
macigno.
Tentò di aprire gli occhi, ma la stanza era
immersa così tanto nel buio che non riusciva a capire se effettivamente ci
fosse riuscito o meno.
Che diavolo era successo? Ricordava solo che
stava per uscire per fare da guida alla cugina di Mustang, e che suo fratello
gli aveva porto il cappotto; dopo era tutto velato di nebbia, le orecchie
infastidite da un ronzio continuo e molesto, anche ora che era sveglio.
Tentò di portarsi una mano al viso - stanco,
stravolto, e chissà cos'altro - ma l'unica cosa che ottenne fu il rumore di
metallo appena dietro di lui, e una stretta gelida attorno al polso.
"M-ma...
che...?"
“Ben svegliato, fratellino.”
Alphonse si ritrovò il volto sorridente del
suo niisan davanti.
Sorrideva, Edward, ciondolando le gambe sulla
sedia troppo alta.
Sembrava un bambino – di tale innocenza era
il velo dipinto sulle sue labbra curvate.
"Nii...
niisan, che che cosa...!"
Cominciò ad agitare le braccia, quasi
isterico - nonostante la debolezza attanagliasse ancora i suoi arti, ogni suo
muscolo - ma ottenne solo la fitta di due profondi solchi doloranti nei polsi,
e il tintinnare di quelle che non pensava avrebbe mai avuto addosso.
Un paio di manette.
“Mi sembra semplice.”
E ancora un sorriso – era quasi puro,
infantile. Perché così gli sembrava la risposta che doveva dare allo
spaventatissimo Alphonse.
“Ti ho legato, così non andrai più via.”
E lo disse con un tono di totale innocenza
che sembrava davvero un infante che risponde in assoluta sincerità ad una
domanda totalmente elementare (“Hai fatto
i compiti oggi, Edward?” “Sì, mamma, e prima di Alphonse!”).
Alphonse spalancò gli occhi, sentendo forte
il cuore battergli nella gola, nello stomaco, dappertutto.
Terrorizzato. Né più né meno. Al non riusciva
a pensare a niente, se non a fuggire il più lontano possibile.
La paura aveva preso il posto del sangue,
scorrendo veloce nelle sue vene. E il fatto di vedere appena suo fratello -
quel bagliore lunare che si poggiava sui suoi lineamenti perfetti, rilassati,
come se non stesse effettivamente succedendo nulla - lo terrorizzava, se
possibile, ancora di più.
"Sl-slegami,
niisan, slegami, Dio!", alzò la voce, agitandosi sul letto sfatto.
Un brivido di eccitazione attraversò la spina
dorsale del fratello maggiore.
“Perché, Al…?”
Edward portò il viso a due millimetri da
quello del fratello.
“Per farti fuggire, mio piccolo uccellino?”
No, questo non sarebbe mai accaduto. Lo avrebbe
continuamente impedito. Mai, mai.
Al era solo suo. Incatenato a lui.
Per sempre.
Un brivido scosse il corpo della vittima,
mentre incontrava le iridi d'oro dove neppure la luna riusciva a specchiarsi.
Non aveva mai avuto paura di lui, neanche per
un solo istante.
Prima di quel momento.
Spalancò la bocca, cominciando a urlare disperato,
mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime.
Scappare scappare scappare.
Ed, infastidito da quelle urla insensate, gli tappò la bocca con la
mano.
“Perché urli, niichan?
Che bisogno c’è di farlo, mio carissimo niichan?”
Quello tentò di cacciare via la mano,
sentendo la sua stessa voce soffocata e provando una sensazione tremenda al
livello dello stomaco. Era come se tutto si stringesse al suo centro, come se
ci fosse un buco nero che stava risucchiando tutte le sue viscere.
Agitò le gambe in segno di protesta, urlando
parole che filtrate da quella mano calda diventavano mugugni incomprensibili.
Poi si fermò – niente più urla, niente più
calci, solo lacrime che cominciavano a scivolare dalle sue guance, gelide
rispetto al calore del suo viso.
Le labbra del Fullmetal
andarono a baciare le perle liquide che scivolavano sulle guance dell’altro.
“Perché piangi, mio adorato niichan?”
Ripeteva le stesse domande, vuotamente,
aspettando una risposta da Al.
Perché piangeva? Se l’era meritato, in fondo.
Aveva tentato di fuggire.
Ed era stato anche buono in fondo. C’era chi
gli avrebbe spezzato le gambe, per non farlo andare via.
Dal canto suo, Alphonse si limitò a
singhiozzare pesantemente, il petto che andava su e giù senza controllo,
rantoli che tentavano ora di venir soffocati, anziché liberati.
… perché non se n'era accorto prima?
Perché suo fratello - quello che gli faceva
gli scherzi sulla culla, quello che gli spingeva l'altalena, quello che gli
aveva ridato una vita fatta di sole sulla pelle e risate nelle orecchie - si
era d'un tratto trasformato di qualcosa di orribile?
Non riusciva a smettere di piangere,
impaurito al solo pensiero di quello che poteva succedere.
"L… lasciami… " sibilò, lo stomaco che si contorceva
ancora.
“Perché mai? Non ti piace stare con me,
Alphonse?”
E la voce si incrinò leggermente, spezzandosi
come un vetro cosparso di sassolini.
Il suo cuore mancò un battito, mentre le
lacrime continuavano copiose a scendere dal suo viso.
"Mi… mi fa male…" sibilò soltanto, in risposta.
Perduto.
“Ti farebbe più male se scappassi di qua.”
Perché il Fullmetal
si era fissato sull’idea che Alphonse sarebbe fuggito.
Sì, la cugina di Mustang era una scusa, di
certo. Voleva solo scappare, non averlo più tra i piedi, non volerlo più
vedere.
Di certo era così, per forza!
E questo non doveva accadere.
"No… non me… non me ne vado…" disse,
la voce roca, il leggero solletico sul collo di una lacrima fuggiasca.
Non era neanche sicuro che l'avesse sentito.
Non era neanche sicuro che quella che andava
dicendo fosse la verità.
Sapeva solo che suo fratello aveva un
problema.
E no, non era solo una stupida lite per bere
il latte.
“… davvero?”
Quella promessa strappata sembrava aver
rassicurato il più grande dei due. Lo aveva calmato, forse.
“Non scapperai mai da me, Al?”
Gli accarezzò il viso, sfiorandolo con dita
ghiacciate.
L’altro mosse la testa, piano, in segno di
assenso.
Probabilmente la testa di Edward era confusa
quanto la sua, forse in un modo diverso.
Non si sarebbe mai sognato di andare via, lasciarlo
da solo.
Solo in quel momento. Perché la paura aveva
attanagliato ogni sua membra, senza dargli via di scampo.
“Me lo giuri, Alphonse?”
Gli toccava a malapena le gote con
un’accuratezza da amante.
“Me lo giuri su nostra madre?”
Vicino, vicino, sempre più vicino – sempre
più pericolosamente vicino.
“Me lo giuri su te stesso?”
Il piccolo si morse il labbro, singhiozzando
e annuendo di nuovo, gli occhi stretti stretti,
sapendo che tanto non avrebbe potuto vedere, con quel buio a coprire la stanza.
Sentiva il suo respiro sul viso... lo
scaldava, lo arroventava.
Sudava, sudava paura.
"Sì…"
bisbigliò, assicurandosi che comunque lo sentisse.
E di nuovo, Edward sorrise. Il sorriso puro
di bambino gli illuminò il viso.
Lo liberò, abbracciandolo.
“Ne ero sicuro che non mi avresti lasciato,
Al!”
Al, è davvero tuo fratello, questo?
Si lasciò sollevare dal materasso, senza
accennare un minimo di resistenza. La debolezza, lo spavento, e tutti i - troppi- sentimenti provati in un solo
tempo avevano intorpidito ogni suo muscolo.
Si limitò a singhiozzare sulla sua spalla,
senza dire una parola.
Va e viene, sembra l'anima di un bambino disperso in un
tunnel buio, un omicida prima del suo delitto.
“Scusa se ho usato questi metodi…
un po’ bruschi.”, fece, grattandosi la testa, come a farsi perdonare di una
marachella da mocciosi.
Iniziò a massaggiare i polsi del fratello,
dopo aver sciolto l’abbraccio, col volto sereno.
Cosa stava succedendo nella sua mente?
C'era ancora qualche traccia del vecchio Edward lì
dentro?
Alphonse mugolò di dolore, a quel contatto.
Probabilmente qualche taglio, o la manetta troppo stretta. Ma faceva male.
Faceva male tutto.
Ed, dimentico dell’empatia naturale che lo
collegava al fratello, continuò a massaggiarlo, tranquillo e beato come un
fanciullo di pochi anni.
“Mi sembrava l’unico modo buono di
convincerti, scusa…”
Al ritrasse le mani con uno scatto, preso da
un improvviso brivido alla schiena.
Si sentiva a disagio, con le sue mani
addosso.
"Mi fa male." si giustificò,
portando i polsi dietro la schiena.
“… ti ho già chiesto scusa, mi pare.”,
mormorò Edward, con lo sguardo basso sulle proprie dita che prima toccavano la
pelle tiepida del fratello. “Non ti sembra abbastanza? Perché ti arrabbi?”
Era lui ad avere ragione, non certo Alphonse!
"Non… non mi
sto arrabbiando… - mormorò il fratello, retrocedendo
un poco sul materasso (un pochino solo, piano, pianissimo, perché lui non se ne
accorgesse) - Stavo solo dicendo che… che mi fa male…"
“Te l’ho già detto, era l’unico modo per
farti ragionare.”
Lo era davvero, Al?
“Saresti andato via.”
"Non… non me
ne sarei andato…" mormorò, stringendo i lobi
della coperta, un sospiro soffice che si schiantava con la tensione che
aleggiava nella stanza.
"... devo chiamare la... cugina del
colonnello..."
“… cosa?”
Le parole di Alphonse erano come forbici, che
recidevano ogni più piccolo e sottile filo che collegava ancora Edward alla
normale realtà umana. Tagliavano ogni contatto, poco a poco, involontariamente.
“Vuoi organizzarti con lei per fuggire?”
Ogni parola rassicurante precedente del
fratello era stata cancellata, lavata via con un minimo tocco di spugna
bagnata.
"Niisan… -
cantilenò, scuotendo piano la testa - Non voglio fuggire da nessuna parte… voglio solo scusarmi…"
Pigolò, stanco, attraverso le coperte tirate
sulle labbra.
Non capiva da dove suo fratello avesse tolto
fuori un'idea tanto assurda. Non aveva mai avuto l'intenzione di lasciarlo,
mai. E adesso, si vedeva assalito dai suoi inutili dubbi.
Quando aveva cominciato a diventare così? Aveva perso
qualche passaggio, in tutto quel tempo? Aveva forse sbagliato qualcosa?
“… vai a fare questa telefonata.”
Facendo stridere le gambe della sedia sul
pavimento, si alzò e se ne andò, precedendolo in salotto, dove si trovava il
vecchio telefono, regalo di zia Pinako.
Sembrava essersi calmato. Acido, scorbutico,
ma calmo.
Alphonse piegò le gambe al petto, passandosi
le mani sul viso e sospirando.
"Dio..."
Prendendo coraggio - ed invocando la divina provvidenza
affinché le sue gambe reggessero (si sentiva ancora come se gli avessero dato
una botta in testa, di quelle pesanti, che ti rimane addosso la confusione per
tutto il giorno) - poggiò i piedi sul parquet, seguendo suo fratello.
Buttò un occhio all'orologio, inarcando le
sopracciglia. Sperava solo che quella ragazza fosse restata a casa e non fosse
uscita.
In malo modo, Ed gli diede in mano la
cornetta, e si sedette di fianco a lui, per assicurarsi che dalle sue labbra
non uscisse nulla che non gli andava a genio.
“Su, muoviti. È tardi.”
Al sì limitò a prendere la cornetta e a
comporre il numero della ragazza, scritto di gran fretta dal colonnello su uno
scontrino che ancora aveva in tasca. Aspettò che il telefono smettesse di
squillare, e quando sentì la voce dall'altra parte, deglutì, prima di salutare.
"Salve, sono Alphonse... sì, l'amico del
colonnello Mustang... mi dispiace per non poter essere venuto ma..."
Buttò un occhio su suo fratello, le labbra
serrate e gli occhi fissi sui suoi.
"... ma non sono stato bene e
quindi..."
Edward, riducendo gli occhi a fessure, gli
strappò il telefono di mano.
“Quindi ciao.”
E ributtò giù, sorridendo poi ad Alphonse,
senza proferir parola alcuna.
"Ma... niisan! – esclamò, stringendo un
pugno e incrociando il suo sguardo. – Ce n'era bisogno?!"
Poteva capire l'astio nel confronti di
Mustang - quello c'era sempre stato, e sempre avrebbe continuato ad esserci -
ma non verso quella ragazza.
"Potevi evitare, sai!"
“Anche no.”
E il sorriso non mutò, assolutamente, neppure
per un istante.
Ed era questa la cosa che più spaventava Al.
Sentiva il cuore battergli in gola.
Era diventato quasi... temibile.
Prima lo scatto d'ira, poi... Dio, non aveva
neanche capito ancora cosa gli aveva fatto - doveva essere stata quell'acqua ad
averlo mandato k.o., non c'era altra spiegazione - e
ora questo.
"Tu non..."
“Io non cosa,
niichan?”
Il sorriso, sempre lo stesso, si velò di una
sorta di malignità. Affilato, divenne, come un coltello.
“Cosa non posso fare, niichan?”
Si avvicinò sempre di più ad Al, facendolo
retrocedere.
“Credi di potermi dire che fare e che non
fare, niichan?”
Passo dopo passo - piccoli, lenti, appena
percettibili - sentì il muro sfiorare la sua schiena. E di nuovo la paura gli
attanagliava lo stomaco.
"Tu... tu..." balbettò ancora,
senza riuscire a concludere la frase.
Edward gli tappò la bocca per l’ennesima
volta col palmo della mano.
“Io cosa, Al? Che vuoi dire, eh?”
Sempre più forti attorno alle labbra,
Alphonse si sentiva soffocare, morire.
“Pensi forse di potermi ordinare qualcosa,
bambino mio? Tu, che mi devi tutto? Tu, che mi devi la vita intera? Chi credi
di dover ringraziare per il tuo corpo? Chi credi di dover adorare per sempre,
per la vita di ora?”
Mentre quello lo fissava con occhi quasi
inespressivi, la cui unica cosa che riuscivano a trasmettere era il terrore che
saliva dallo stomaco, Alphonse si aggrappò al polso d'acciaio di suo fratello,
tentando di liberarsi da quella stretta, dolorosa più per la persona che gli
stava facendo così male, piuttosto che per il dolore in sé. Farfugliò un lasciami a labbra serrate, spingendo con
tutta la sua forza.
Gli occhi di Edward erano due puntini opachi.
“Bambino ingrato, di chi credi sia il merito,
eh? Che credi che abbia dato in cambio della tua carne pulsante? Cosa, eh? La
cosa più preziosa che avevo! E tu, irriconoscente, ora vuoi scappare!”
Il più giovane scosse nervosamente la testa,
un po' per rispondere a quelle accuse, un po' per trovare un modo per
liberarsi. Inutilmente. Sentì gli occhi pizzicare, mentre il cuore correva
dannatamente veloce.
Temeva quasi stesse per scoppiare, come era scoppiata
l'ira di suo fratello.
Implorò ancora di essere liberato da quella
stretta, senza risultato.
Questo non è mio fratello, questo non è mio fratello,
questo non è...
Alphonse poteva sentire il respiro del
fratello sfiorargli la pelle e riempirlo di brividi da capo a piedi – il corpo
non riusciva a smettere di tremare, e questo non fece che indispettire ancora
di più Edward.
Perché tremava? Perché? Che motivi ne aveva?
“Perché tremi?! Non ne hai diritto, perché lo
fai?!”
E si stupì, il più piccolo, che ancora non
riuscisse a comprenderlo.
Non è mio fratello, non è mio fratello...
Cominciò a sentire le gambe farsi molli,
mentre il respiro andava al diavolo - sentiva in bocca il sapore del metallo,
quelle dita grigie che premevano violente sulle sue labbra, bagnate dalle
lacrime che non riuscirono più a stare al loro posto.
“Cos’hai da piangere, Al?”
Con la mano libera, gli asciugò le perle
liquide. Anche le sue dita sembravano avere personalità differente. Un
assassino e un fratello. Un pazzo e un amante.
“Perché piangi?”
Si ritrovò a piangere per la seconda volta,
inerme.
Era una situazione subdola, impossibile.
Pensava ad Edward , quello vero, quello
che ha sempre il sorriso sulle labbra, quello che sa solo viziare il suo
fratellino, "Niichan, niichan,
niichan!" ,e vedeva davanti a se un uomo
completamente diverso.
Vedeva quegli occhi, e si trovava in balia di
un estraneo.
“Ti ho fatto qualcosa di male, Al?”
Ed parlava con un’innocenza totale e per
nulla fittizia. Guardava Al chiedendosi che stesse succedendo.
Tutto cancellato?
Tutto dimenticato?
Non c’era più speranza di farlo tornare
normale?
Non sapendo da dove avesse trovato la forza,
riuscì finalmente ad allontanarlo - giusto in tempo per non cadere ai suoi
piedi privo di sensi una seconda volta, per non farsi vedere più debole di
quanto solo la sua visione riusciva a farlo essere - e corse verso la camera, balbettando il
nome del suo fratellone, ricamato da un Non
è possibile qua e là.
Sì intrufolò tra le coperte, nascondendosi
sotto di esse, tremando come un ramo sbattuto a destra e a manca dal vento.
Non era lui, non era lui, non era lui…
Quello che era teoricamente suo fratello
sbuffò, allontanando un ciuffo di capelli (gli erano cresciuti incredibilmente,
nella totale noncuranza) dagli occhi e si alzò.
“Bah…”, fu l’unico monosillabo che uscì dalle
sue labbra.
Se fosse stato normale, si sarebbe gettato su
Alphonse, cullandolo, tranquillizzandolo.
Se fosse stato normale, non sarebbe successo
nulla, in realtà.
Se fosse stato normale, non ci sarebbero
stati né vetri rotti, né lacrime, né occhi iniettati di quel principio di
pazzia che sembrava star dilagando nel petto del maggiore, nel suo corpo, nel
suo cervello.
I singhiozzi della vittima rimbombavano nelle
pareti vuote della stanza, mentre tutto si faceva più scuro.
Per la prima volta, dopo anni, i due fratelli
avevano dormito separati. Al nel letto in cui non aveva smesso di tremare e Ed
sul divano. In verità, non aveva chiuso occhio, rimuginando su tutta la
giornata precedente.
Aveva un mal di testa come quelli provocati
dall’alcool. Ogni minimo rumore gli rimbombava nel cranio, insopportabilmente.
Il cinguettio degli uccelli, i bambini che andavano a scuola, il telefono…
… il telefono?
“Chi diavolo è a quest’ora?”
Scocciato, si alzò, prendendo in mano la
cornetta.
La sua alterazione aumentò
incommensurabilmente, al solo sentire quell’odiata voce.
Un complotto, ecco cos’era, un meschino complotto
architettato alle sue spalle!!
Ah, ma non l’avrebbero passato liscia, lui e
quell’altro!!
“ALPHONSE, E’ PER TE!”
Alphonse si girò verso la porta, avvolto
ancora nelle coperte.
Sotto le palpebre, due occhiaie di un viola
appena accennato, gli occhi arrossati dalla paura che ancora gli circolava in
corpo.
Non sapeva chi potesse essere, né cosa
potesse volere. Ma con un briciolo di intelligenza pensò che forse era meglio
andare da lui per non provocarlo ancora di più.
La sua voce era quella di un leone che non
mangiava da giorni e reclamava il suo cibo furibondo.
Combattendo contro la voglia di restare
nascosto sotto il tepore delle coperte, prese il piumone e se lo avvolse attorno
alle spalle, mettendo piede sul pavimento freddo e dirigendosi verso la cucina.
"Chi... chi è?" mormorò appena,
senza incrociare lo sguardo del fratello maggiore.
“Mustang.”
L’acido con cui, solitamente, pronunciava
quel nome venne triplicato, quadruplicato, potenziato all’ennesima.
Tornò in camera, prendendo il fratello per il
braccio in malo modo, stringendo le dita sulla carne morbida, portandolo in
cucina praticamente di peso, e dandogli la cornetta in mano.
Vediamo cosa architettano alle mie spalle.
Alphonse la fissò per un attimo, la schiena
scossa da un brivido.
E adesso, cosa gli avrebbe detto?
"... p-pronto?" mormorò, dopo aver
portato l'apparecchio all'orecchio.
Dall'altra parte udì la voce squillante ed un
pizzico preoccupata del generale chiedere spiegazioni.
"Io... - alzò lo sguardo cercando quello
del fratello per riflesso incondizionato - Mi dispiace per... ieri sera,
generale... ma ecco... non... non sono stato bene e..."
E non sentì più la voce del colonnello. Anzi,
non sentì più nulla. Alzò lo sguardo sulla figura del fratello.
“Mi irritava. E mi ha sempre irritato il
rumore del telefono. Così non avremo più questo problema, no?”
In mano, risplendevano assassine le forbici.
“Così nessuno ti disturberà più, non trovi?”
Alphonse tenne lo sguardo fisso sul suo viso
soddisfatto.
"Ma..." boccheggiò, aprendo e
chiudendo la bocca lentamente - era come se suo fratello fosse in piena
metamorfosi, cambiava così rapidamente da un momento all'altro che gli
faceva... paura.
"Niisan..." bisbigliò, guardando la
cornetta ormai inutile nella sua mano.
“Tu non hai bisogno di nessun altro che non
sia io, no?”
Lo guardava e sorrideva, estremamente
convinto di quello che diceva.
Se fino a quando era un’armatura non erano
vissuti che unicamente di loro stessi, perché ora qualcosa sarebbe dovuto
cambiare?
“Non è così, Al?”
Il più piccolo sentiva la mano che reggeva il
telefono tremare, mentre continuava a fissare terrorizzato il volto di suo
fratello.
Il suo viso sembrava così rilassato da essere
troppo... felice.
"S... smettila..." disse, un
sospiro appena pronunciato, la gola che si chiudeva, e non lo lasciava
respirare.
“Di far cosa, Al?”
Nella sua voce non c’era nulla che potesse
tradire falsità, o artificiale. Tutto quello che pronunciava, ogni singola sillaba
gli veniva dal cuore, e lui ci credeva profondamente.
Di che poteva abbisognare il suo adorato
fratellino, se non di lui? Cos’altro poteva essergli fondamentale?
Nulla, ovviamente.
"Di... di fare così..."
La voce del minore degli Elric
si faceva sempre più bassa, lo sguardo scendeva al pavimento, intimorito da
quel contatto visivo.
"Di... di..."
Indietreggiò, quasi le sue gambe avessero
deciso di comandare al posto della sua testa.
Non sapeva cosa fare.
I fili del telefono penzolavano dal mobile
dov'era poggiato.
Era isolato, abbandonato. Solo.
“Cosa, Al?”
Edward lo seguì, e più avanzava più l’altro
indietreggiava.
“Di fare cosa?”
Poteva sentire il suo respiro caldo contro il
collo.
“Cosa sto facendo, Al, di male, secondo te?”
L'interessato sentì il gelido marmo del tavolo
sbattergli contro i lombi.
Scosse la testa, il cuore ormai andato per
altre strade.
"Mi stai..."
“Ti sto?”
Non capiva, semplicemente. Cos’aveva? Che
succedeva al suo fratellino?
Eppure non stava facendo nulla di male.
Alphonse mise le mani davanti, le braccia
tremavano, quasi ci fosse un terremoto.
"Non... non ti... avvicinare..."
Ad Edward montò su un’irritazione
inimmaginabile.
Perché si comportava così? Cos’aveva fatto di
male per meritarsi un’irriconoscenza simile?
“Merda, fai come cazzo ti pare!!”
Come una furia, tornò in camera da letto,
sbattendo rabbioso tutte le porte che trovò nel suo cammino.