©©Hello!!©©
Eccomi
con la mia terza storia a capitoli …
All’inizio,
doveva essere un originale. Però mi serviva il nome per un band e per i suoi
componenti, di cui uno doveva essere pervertito. Non ho una grande fantasia sui
nomi, quindi ho detto: “Perché non uso i Tokio Hotel?”. Anche perché, data la
mia scarsa cultura su MTV, non ci sono altre band di cui conosco i nomi dei
componenti. Tra l’altro le fanfiction su di loro hanno anche un certo successo
di solito (spariamo bene). Beh, questo era per precisare che da loro ho preso in
prestito solo i nomi.
Prima di
iniziare, vi dico le solite cose:
Questa
fanfiction non è a scopo di lucro.
I Tokio
Hotel non mi appartengono [per ora … muhuahahahaha].
I fatti
narrati sono solo frutto della mia mente contorta.
Inoltre
la protagonista non esiste realmente (la stessa cosa vale per la sua
famiglia).
Io non
mi rispecchio in quest’ultima.
Le
parole in corsivo sono i pensieri.
Spero
che questa ff abbia successo, e perché questo avvenga vi chiedo di lasciare
almeno una piccola, minuscola recensione (se poi è grande non mi dispiaccio
mica!) e di essere clementi con una povera ragazza
inesperta.
Grazie
e buona lettura.
.pIkKoLa.EmO.
The
first rule
“Ma chi cazzo la produce
questa merda!” lanciò una converse nera contro il muro e la guardò ricadere per
terra.
In quel momento le
risultava complicato allacciare quella maledetta scarpa, forse per via del
nervosismo che aveva preso il sopravvento sulla sua mente appena si era alzata
ed aveva guardato il calendario: 3 Gennaio 2009.
Si alzò ed iniziò a
trafficare nel suo armadio rosa chiaro. O meglio, in una parte del suo
sterminato armadio rosa chiaro.
Sterminato come quella
stanza che tanto odiava, sterminato come quella casa che tanto odiava, ma di
certo non come il minuscolo stato in cui viveva, il Liechtenstein.
“Tesoro, sbrigati o farai
tardi!” la voce di sua madre interruppe la sua ricerca disperata di un paio di
scarpe adatte e non complicate –secondo le sue attuali capacità- da mettere.
Afferrò le prime scarpe che le capitarono sotto mano, delle ballerine, e a
malincuore le indossò -le odiava-
Guardò il suo riflesso
nello specchio lungo con uno sguardo a dir poco
soddisfatto.
Indossava una maglia a
strisce nere e rosse, una cinta a scacchi dei medesimi colori e un jeans scuro.
I guanti neri borchiati e una collanina con ciondolo a teschio parevano voler
dire con chiarezza ‘non mi fate incazzare’.
Guardò i suoi occhi
azzurri e sorrise, ci aveva messo un’eternità tra kajal, ombretto nero e
mascara. Per non parlare di quel ciuffo nero e rosso stirato e ristirato, che le
copriva un occhio.
Si era tinta i capelli di
nero a quindici anni, perché trovava che il biondo fosse troppo angelico per
lei. Poi l’anno scorso aveva deciso di tingersi il ciuffo di rosso. Ma aveva
sempre dovuto portare un frontino, perché per una come lei un ciuffo così lungo e per altro
bicolore, era ‘troppo poco elegante’.
Ora era finalmente lei.
Desiderava essere così da sempre.
Desiderava essere diversa.
Ed in effetti lo era dalla nascita, ma lei voleva essere diversa in un altro
modo, lei voleva distinguersi dall’altra gente non per via del suo cognome –che
da solo poteva dire tutto della sua vita- ma per via del suo modo di essere, di
fare, di vestirsi. Voleva sentirsi libera di essere se
stessa.
Uscì di corsa dalla stanza
e trovò la madre seduta su una poltrona celeste, di spalle, intenta a
sorseggiare chissà che cosa da una sobria tazzina. “Dico a Jeorge di prendere
l’auto?” chiese la donna, senza voltarsi.
Occhi verdi e capelli
biondo chiaro che le arrivavano alle spalle. Sua madre non sembrava avere
cinquant’anni.
“Non ti preoccupare,
prendo un taxi” rispose la ragazza cercando di non farsi vedere dalla
madre.
“E tu vorresti chiamare un
taxi? Farlo venire qui? Hai diciannove anni e non hai ancora realizzato che non
puoi chiamare un taxi? Ti rendi conto di chi sei?” la donna si voltò e la sua
espressione cambiò da irritata a stupita, o meglio shockata “ma … ma … come …
come ti sei conciata?”
“Come piace a me! E poi il
taxi non lo faccio certo venire qui sotto! E nessuno mi riconoscerà, non ti
preoccupare!” la ragazza era decisamente seccata.
“Certo, non ti riconosco
nemmeno io! En-” la donna non finì di pronunciare il nome della figlia, che fu
fulminata da uno sguardo di quest’ultima.
“Alex, mamma! Mi chiamo
A-L-E-X! Non tentare più di chiamarmi con quello stupido nome che mi hai
affibbiato!”
Alex. Era il suo nome,
ossia il nome che si era scelta, perché quello vero non le andava giù. In
effetti non le andava giù niente della sua vita, ed era per questo che se ne
andava a Berlino, in Germania.
Analizzando dall’esterno
la sua vita, si poteva giungere all’errata conclusione che era tutto perfetto.
Perché lei non era una
ragazza comune, come non lo era suo padre, Hans III, principe del Liechtenstein,
attualmente all’estero per chissà quali affari.
Esatto: principe del
Liechtenstein, con la conseguenti due ville con piscina, campo da tennis e
giardino con tanto di fontana al centro.
Una delle due residenze,
la più importante ed immensa, a Vaduz, era quella in cui Alex passava la
maggior parte del suo tempo, pur non volendolo.
Da quando aveva smesso di
amare le principesse Disney -e quindi a circa quattro anni, non era fatta per
queste cose- aveva deciso che quel posto non le piaceva, ma non poteva cambiare
l’arredamento della sua stanza, perché, a detta di tutti, i suoi gusti erano
‘poco raffinati’, quindi aveva dovuto sopportare il letto a baldacchino e le
tende ottocentesche, il tutto rigorosamente rosa o lilla. Dopotutto non era una
camera estremamente principesca, ma comunque non era per niente il suo
stile.
La donna si alzò “Ok
Alex …” scandì bene il nome della figlia “e non ti affezionare a nessuno, mi
raccomando, perché fra tre mesi …”
“Si mamma lo so: fra tre
mesi torno qui, quindi non devo affezionarmi a nessuno e soprattutto non devo
attirare l’attenzione dei media! Me l’hai ripetuto un milione di volte!” Alex
si avvicinò alla porta.
“Allora … ciao” disse la
madre mantenendo sempre la sua solita freddezza, ma con un velo di tristezza
negli occhi.
“Ciao” rispose la figlia
che non poté risparmiarle un sorriso.
“Alex!” la ragazza si
sentì chiamare dalla vocina della sua sorellina Jessica, che pur avendo solo sei
anni sembrava essere l’unica in grado di capirla. La piccola le venne incontro e
l’abbracciò. In realtà abbracciò le sue gambe, perché oltre ad essere più o meno
bassa per la sua età, le era capitata anche una sorellona alta quasi
La ragazza arruffò i
capelli biondi della sorellina “Ci vediamo tra tre mesi Jes”. La piccola senza
staccarsi dall’abbraccio alzò la testa e guardò la sorella “Così sembri un
vampiro! Però sei bella!”. Le due si guardarono e risero, poi Alex si staccò
dall’abbraccio ed aprì la porta.
Prima di andare via
sorrise di nuovo alla madre e alla sorella. Poi uscì e si chiuse la porta alle
spalle.
1° regola: non
innamorarmi.
2° regola: nessuno deve sapere chi
sono.
3° regola: godersi questa
breve, ma tanto sofferta libertà.
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“Vuole una mano con i
bagagli?” chiese il tassista baffuto.
Alex afferrò il manico
del trolley nero “No, grazie, faccio da sola”.
Attraversò la strada
portandosi dietro -con non poca fatica- i due bagagli.
Eccola lì, di fronte a
lei: quella sarebbe stata la sua casa per tre mesi. Un palazzo piuttosto alto,
situato nel quartiere più elegante di Berlino, pullulante di vip e ricconi. Il
posto migliore per chi, come lei, voleva nascondersi e sentirsi normale. Perché
è deducibile che in un posto del genere, gli unici poco normali erano proprio
quelli normali.
Appoggiò le valigie al
muro e prese le chiavi da una tasca della felpa nera.
Non sapeva nemmeno lei
come Jeorge –che più che un maggiordomo era un tuttofare- avesse fatto a
procurarle le chiavi ancor prima che lei arrivasse in
Germania.
Aprì il
portone.
Pur essendo abituata –per
ovvi motivi- al lusso, Alexia non poté trattenersi dal dire tra se e se
“All’anima del palazzo”.
L’androne era enorme. Alla
sua sinistra c’erano le scale e di fronte a lei le due ascensori. A destra c’era
un bancone piuttosto lungo, dietro al quale vi era un uomo di colore, con una
giacca rossa. Sembrava più un hotel di lusso che un
palazzo.
---
“Anche le ultime formalità
sono stare sbrigate” la signora Shinfer si affacciò alla
finestra.
“Bene, il mio taxi è
arrivato. Queste sono le chiavi” disse porgendo le chiavi ad Alexia che, pur
essendosi accorta che la donna la squadrava dalla testa ai piedi con aria di
superiorità, dovette salutarla con il più falso dei sorrisi ed un cortese
“Arrivederci”, al quale la donna rispose con un originalissimo “Buona
giornata”.
Alex iniziò a guardarsi
intorno. In quel momento si trovava in un salone a dir poco immenso. Alla sua
destra vi era una finestra, a sinistra la porta. Dietro di lei la porta
scorrevole che divideva il soggiorno dalla cucina. Davanti, un corridoio che
portava alla stanza da letto, ai cui lati c’erano i due
bagni.
Il viaggio in aereo e i
minuziosi controlli in aeroporto, l’avevano sfinita, ma questo non le vietava
comunque di fare un giro per le strade di Berlino.
Lasciò i bagagli accanto
alla finestra ed uscì dall’appartamento. Un soffio di vento gelido proveniente
dalla finestra del pianerottolo le scompigliò i capelli.
Iniziò a scendere le
scale, ma era talmente sovrappensiero che non si accorse che un ragazzo andava
nella direzione opposta alla sua.
Nel momento in cui se ne
accorse, la sfortuna volle che inciampasse nel suo stesso
pantalone.
Non si può dire che urtò
contro quel ragazzo. È più corretto dire che travolse quel
ragazzo.
“Ma che …” disse –o
meglio, tentò di dire- il
malcapitato.
Alex non aspettò un
nanosecondo per alzarsi permettendo al poveretto di
alzarsi.
La ragazza guardò il
ragazzo come se fosse colpa sua. Naturalmente non lo era, ma doveva prendersela
con qualcuno “Grande mi si è scucito il pantalone”.
I due si squadrarono e
stavano per scoppiare a ridersi in faccia. Era impossibile capire chi dei due
sfoggiasse l’abbigliamento più insolito.
Lui portava un jeans
larghissimo, una maglietta bianca ancora più larga ed una cuffia nera con sopra
un cappellino bianco. I rasta biondi erano legati in una coda. Aveva un paio
d’occhi nocciola che di certo non passavano inosservati. Non era male, Alex
dovette ammetterlo, e se non fosse stato per quel primo incontro decisamente
fuori dal comune, e per quel suo sguardo così incredibilmente presuntuoso, ci
avrebbe fatto un pensierino.
“Che cos’è quella faccia?
Devo ricordarti che sei tu che mi sei caduta addosso. Non è mica colpa
mia!”
“Si che lo è, mi hai
distratta”
Il ragazzo fece spallucce.
“Lo prenderò come un complimento”
“Non lo
è”
Un ultimo sguardo
assassino ed entrambi tornarono sui loro passi.
Ma prima di arrivare al
piano sottostante Alex sentì un rumore di chiavi alle sue spalle e si
voltò.
Complimenti Alex, bel modo
di socializzare col vicinato pensò vedendo quel ragazzo
entrare nell’appartamento di fronte al suo.
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Ecco
qui il primo capitolo! Spero vi abbia incuriosito! Ho già pronto il primo
capitolo, quindi credo che aggiornerò tra non più di una settimana! Ringrazio in
anticipo chiunque recensirà, o semplicemente leggerà questa storia!
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monsone di kiss a tutti!!!!!
.pIkKoLa.EmO.
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piccola recensione non fa mai male a nessuno e illumina la giornata di una
povera scrittrice inesperta ©