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Autore: Black_Tear    26/08/2014    1 recensioni
La strada di una cacciatrice dal passato misterioso si incrocia per la seconda volta con quella dei fratelli Winchester, vecchi amici d'infanzia, che la aiuteranno ad ottenere la vendetta da lei agognata per tanti anni.
-Che fine ha fatto la ragazza dolce e timida che conoscevo?- chiese con un sorriso provocatorio stampato in faccia mentre si avvicinava di qualche passo.
-E' morta quella notte.-ribattei, più bruscamente di quanto avrei voluto, voltandomi verso la finestra per accertarmi che non ci fosse nessuno.
Con la coda dell'occhio vidi il suo sorriso incrinarsi in una smorfia.
Sentivo i suoi occhi su di me e fui travolta da un'ondata improvvisa di tristezza.
Deglutii cercando di sciogliere il nodo che si era formato in gola impedendomi di respirare.
-Ora è rimasta solo un cumulo di carne, sangue e rabbia- dissi con finto tono solenne, ma strinsi la pistola che avevo in mano mentre pronunciavo l'ultima parola.
-Non per migliorare la tua autostima, ma sei un po' più di questo- replicò serio.
-Cioè?- sospirai, tornando a guardarlo negli occhi, scettica.
-Sei un'irritante mozzarella sotuttoio- disse, una smorfia divertita sulla faccia.
Genere: Horror, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Dean Winchester, Sam Winchester
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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-Agente?
La voce giunse attutita, come venisse dal fondo di un pozzo davvero profondo, tanto che pensai fosse frutto della mia immaginazione. Attorno a me vedevo persone in divisa correre freneticamente da una parte all’altra della stanza, cercando accuratamente di evitare di posare gli occhi sulla macchia scarlatta del muro. Sentivo un vociare indistinto provenire dall’esterno dell’edificio, e ogni tanto un lampo bianco illuminava un gruppo di persone che, in piedi davanti alla pozza di sangue del pavimento, discutevano animatamente fra loro. Mi colpì particolarmente una donna anziana vestita di verde con dei capelli rosso fuoco e la faccia del medesimo colore che gridava contro un uomo di mezza età, puntandogli contro un dito scheletrico. Mi sarebbe piaciuto sapere il motivo di quella sfuriata, ma per quanto mi sforzassi, non riuscivo a sentire niente che non fosse il dolore che mi attanagliava la testa. Immagini confuse continuavano ad irrompere tra i miei pensieri, ma non potevo e non volevo farci caso proprio in quel momento. La polizia aveva controllato le telecamere di sorveglianza, che, nonostante la scarsissima qualità, dimostravano chiaramente che nessuno si era fermato alla stazione di servizio all’ora del decesso, che, a detta del medico legale, risaliva a circa dieci minuti prima del mio arrivo.
Credevano tutti di essere ad un punto morto dell’indagine, ma per me non era difficile capire cosa fosse successo: Stan Marly era la seconda vittima del mostro a cui stavo dando la caccia e la mancanza di impronte e il modus operandi, identico a quello della creatura, ne erano la prova. Torturare e squartare le vittime, rimanendo invisibile e senza lasciare alcuna traccia, era così che agiva. L’unica cosa che non riuscivo a capire era ciò che connetteva quelle persone: la prima vittima era una donna di sessant’anni, una dolce signora che amava vivere in solitudine in mezzo alla natura e per questo aveva la casa nel cuore della foresta; la seconda era un uomo di settantacinque anni, un vecchio burbero amante dell’alcool e dei cappelli da cowboy che viveva in città e amava stare in compagnia. Negli altri casi le vittime avevano qualche caratteristica comune, ma in questo caso sembrava che si stesse dando all’omicidio casuale. Qualcosa non tornava. Perché avrebbe dovuto cambiare proprio in quel momento?
Vagai con lo sguardo dalla donna al resto della stanza, soffermandomi sul punto in cui avevo attaccato Dean. Dopo aver controllato che non ci fosse nessuno avevamo chiamato la polizia. Da allora non l’avevo più visto. Aveva detto che sarebbe andato a recuperare “l’agente Wilson”, ma era da oltre un’ora che non avevo più sue notizie e la centrale non distava cero così tanto dal luogo del delitto.
-Agente?
Questa volta la voce giunse più distinta, seguita da una lieve pressione sulla spalla. Mi voltai di scatto, un gesto probabilmente troppo brusco perché l’importunatore sobbalzò. Era un uomo di circa trent’anni, con l’aspetto del tipico milionario figlio di papà,  con un paio di occhiali da sole a goccia e capelli ossigenati e impomatati. Indossava un abito elegante e scarpe nere di pelle italiana.
–L’ho chiamata tre volte. Si sente bene?- chiese. Mi fissava con un’espressione preoccupata e spaventata allo stesso tempo, come se fosse indeciso se dimostrarsi preoccupato per me o se manifestare il suo terrore. Mi stavo chiedendo cosa potesse spaventarlo tanto, ma solo allora mi accorsi di tenere le mani strette a pugno e i muscoli tesi, come se stessi per saltargli addosso e assassinarlo a forza di pugni. Ritenendo che la mia faccia non dovesse essere più rassicurante della posizione del corpo, cercai di sorridere e di rilassarmi.
-Sì, scusi. – risposi, cercando di addolcire il più possibile la voce. –Sono solo stressata da tutta questa storia.-
-Non si preoccupi agente. Con un macellaio del genere da queste parti, non sono solo gli animali a dover essere spaventati.-  Detto questo si mise a ridere
 Cos’era, una battuta?
- Non sono spaventata- replicai freddamente. La risata del tizio si spense immediatamente. Cosa diavolo voleva quell’idiota?
-Frederick Marly, per servirla- si presentò tendendo la mano.
Fred  Marly… non sapevo che Stan avesse un figlio!
Scrutai meglio il suo visto cercando di scorgervi qualcosa che mi riportasse indietro di dieci anni, quando vivevo ancora felice ed ignara del mondo in quella città. Niente del viso di quell’uomo ricordava il vecchio Stan, eppure qualcosa nella sua espressione mi risultava familiare. Allora ricordai. Vero nome Frederick Charles Marly, Rick per gli amici –anche se era conosciuto così in tutto il paese- era famoso per essere il più stupido,  altezzoso e arrogante ragazzo che fosse mai passato da quelle parti. In giro si diceva che fosse adottato, ma non mi ero mai interessata particolarmente alla situazione familiare di quel ragazzo. Più grande di me di sei anni, non perdeva occasione per sfoggiare la sua antipatia contro i ragazzi più piccoli di lui, me compresa. Ricordavo ancora quando mi aveva soprannominata “amore di mamma” –pronunciandolo in italiano in modo scandaloso-  dopo che mia mamma mi aveva chiamata così per salutarmi dopo avermi accompagnata a scuola. Il suo errore era stato pronunciarlo proprio mentre Rick passava accanto alla macchina. Non avevo mai rimproverato mia madre per questo perché non aveva nessuna colpa se un coglione mi prendeva in giro, ma lei si era sempre sentita in colpa.
La stretta allo stomaco mi fece quasi piegare in due, ma lo nascosi incrociando le braccia sul petto.
-Mary Ford- dissi. Rimanemmo così per qualche secondo, io aspettando che dicesse qualcosa di sensato, lui con la mano sospesa a mezz’aria, finché decise di abbassarla.
-Wow, che freddezza. Comunque so benissimo chi è ed è proprio per questo che sono qui. – Ricominciò a sorridere, ma il suo entusiasmo si smorzò subito di fronte alla mia espressione indifferente. Quel tizio mi stava innervosendo.
-Vede, vengo dalla California, ho fatto davvero un lungo viaggio solo per venire fin qui…
-Risparmi i preamboli. Cosa vuole?
-Ehm… dunque… com’è scontrosa… allora…
-Allora?
-Sono il figlio di Stan Marly ed ero qui per vedere mio padre. Era tanto che non ci vedevamo, ma adesso è morto.- L’intelligenza che emergeva da quelle parole era davvero disarmante.
-Mi dica qualcosa che non so- dissi sorridendo, ironica. Non ero davvero dell’umore di portare pazienza con quell’uomo che, oltre a darmi sui nervi, mi stava facendo perdere una sacco di tempo.
-Non… volevo solo chiederle cosa… se ha scoperto qualcosa riguardo all’assassinio.
-Se avessi scoperto qualcosa non sarei qui.
-Ecco, il fatto è che fra due giorni dovrò tornare in California da mia moglie per partecipare ad un’asta per ottenere un pregiato mobile che viene direttamente dal Giappone e non vorrei perdermi l’evento per questo incidente e…- Doveva essere un’altra pessima battuta. Suo padre era apena stato fatto a pezzi e lui si preoccupava di una stupidissima asta?
-Guardi, non mi interessa. Ha qualcos’atro da dirmi? Avrei delle domande da farle, già che è qui.-
-No… ma vede, quest’asta…
-Ha qualcosa da dirmi che non riguardi una stupida asta o no?
La mia voce aumentò in modo considerevole, tanto che metà delle persone nella stanza si girarono a guardarmi, compresa la signora in verde, che mise di gridare contro l’uomo per capire cosa stesse succedendo.
-L’agente Ford sta cercando di dirle di rivolgersi a noi per l’interrogatorio- La voce proveniva dalle mie spalle, ma non dovetti voltarmi per capire a chi apparteneva.
-Sa, non è molto brava a parlare con le persone- disse Dean, che ora era vicino a me, seguito da Sam, che seguiva la scena, indifferente. Con la coda dell’occhio vidi che il maggiore dei fratelli mi guardava, con un’espressione compiaciuta sulla faccia. Mi pentii di non averlo picchiato più forte, poco prima.
-Agente Olt, iniziavo a sentire la mancanza della sua linguaccia.
-Non è la prima ragazza che lo dice- ribatté con un’espressione che lasciava intendere benissimo in che tipo di ricordi si stava perdendo. Tre facce scandalizzate si voltarono verso la sua espressione appagata. Sam scosse impercettibilmente la testa. Quando Dean se ne accorse, il sorriso si smorzò, assunse un’aria innocente e alzò le spalle, un gesto abbastanza eloquente per dire “Che ho fatto?”.
Ci mancavano solo i Winchester per rendere il tutto ancora meno sopportabile. Di quel passo sarei esplosa.
In un accordo inespresso, decidemmo tutti di ignorare il commento di Dean.
-Ha notato qualcosa di strano ultimamente?- chiesi. –Comportamenti innaturali di suo padre, strane sensazioni…
-Ombre…- iniziò Sam, poi, lanciandomi un’occhiata nervosa come se si ricordasse all’improvviso chi fossi continuò: -Persone che potevano fare del male ha suo padre?
-Tutto normale- rispose Rick.
-Non ha visto davvero niente?
Marly esitò.
-Beh… Ieri sera mio padre sembrava più nervoso e burbero del solito…
-Può immaginarne il motivo?- chiesi.
-Il motivo?- chiese, con un’espressione confusa stampata in faccia. Ma era stupido o faceva finta?
Sospirai, esasperata.
-Perché. Suo. Padre. Era. Nervoso?
-Perché dovrei saperlo?- Sembrava si fosse rincretinito col tempo.
-Era successo qualcosa che avrebbe potuto farlo innervosire?
-Non mi pare… Però continuava a dire qualcosa come “verrà a prendermi” o qualcosa del genere, ma non so perché.-
-Non conosce nessuno che avrebbe potuto fare del male a suo padre?
-No. Viveva da solo e stava sempre qui a bere e guardare la tv. Non aveva nemici. Voglio dire, a parte l’alcool.-  Rise a quella che avrebbe dovuto essere un’altra battuta.
Senza aggiungere altro mi diressi verso l’ingresso. Avevo bisogno di un po’ d’aria ed era evidente che Rick non avrebbe potuto dirmi nient’altro di sensato. Alle mie spalle sentii la voce di Marly dire qualcosa che non riuscii a capire e la voce di Sam che rispondeva.  –Ha solo avuto una giornata pesante.-
All’esterno dell’edificio alcuni poliziotti parlavano tranquillamente reggendo in mano una tazza di caffè, mentre un gruppo di cinque ragazzini si era radunato vicino alla porta per cercare di vedere cosa fosse successo.
Assieme a loro una bambina di circa sei anni saltellava cercano di vedere sopra le spalle dei ragazzi. Accanto a loro notai cinque  biciclette appoggiate al muro.
 -Hey!- li richiamai passando sotto il nastro che bloccava l’entrata alla porta. I sei stavano già per correre via, quando videro che stavo sorridendo. Probabilmente avrebbero saputo dirmi qualcosa di più consistente rispetto a Frederick.
-Cos’è successo?-  chiese il più grande.
-Cosa ci fate qui?- chiesi, fingendo di non aver sentito la domanda. Cosa si dice ad un bambino quando muore una persona? E se qualcuno viene ucciso?
-Abbiamo visto la polizia e l’abbiamo seguita.- intervenne un bambino con la faccia coperta di lentiggini.
-Vogliamo catturare l’assassino!- disse un altro che indossava un cappellino da baseball. A quanto pare qualcuno li aveva informati. Per un attimo non seppi cosa dire. Spero che tu non lo veda nemmeno, l’assassino, pensai.
-Non siete un po’ troppo giovani per fare i detective?-chiesi.
-Tu sei una detective?- chiese la bambina, l’ammirazione dipinta negli occhi color nocciola. Deglutii per sciogliere il nodo che mi si era formato alla gola guardandola.
-Non è una detective, idiota! Non ha l’uniforme!- Intervenne il bambino con le lentiggini.
Sorrisi.
–In realtà sono una specie di detective.
-Davvero?!
Annuii, inginocchiandomi per guardarli in faccia e non dall’alto.
-Conoscevate Stan Marly?
Sei teste annuirono tutte assieme.
-Ci dava le caramelle.
- Solo quando venivamo a trovarlo.
Per un momento non riuscii a credergli.
-Stan?! Il signore con il cappello da cowboy e la barba rossa?
Annuirono di nuovo.
-Da un po’ poi ce ne dava un sacco!
-Già! Quelle più  buone!
Qualcosa non tornava. Stan, l’ubriacone che sputava per terra ogni volta che vedeva un bambino, regalava caramelle?
-Perché lo faceva?- chiesi.
I bambini si strinsero nelle spalle.
-Diceva sempre che non importava.
-È vero! E che ormai era finita!
-Cos’è che non importava? Cos’era finita?-
Alle mie domande i bambini si strinsero di nuovo nelle spalle.
-Non gliel’abbiamo mai chiesto. Ci faceva un po’ paura.
-E poi puzzava!-disse la bambina, ridendo e scatenando l’ilarità generale. Sorrisi anch’io, nonostante il peso sul petto che m’impediva di respirare.
-Grazie a tutti, siete stati davvero utili, ma forse è meglio che ora torniate a casa. Questo non è un posto per bambini.- commentai, alzandomi. –Anche se sono detective!- aggiunsi ridendo davanti alle smorfie deluse del bambino con il cappellino da baseball.
-Anche se faceva paura e puzzava volevamo bene a Stan- disse la bambina, con le lacrime agli occhi.
 -Perché è morto?- chiese.
-Una brutta persona gli ha fatto male.- risposi, distogliendo lo sguardo dal suo volto spaventato.
-Ho paura…-disse la bambina, voltandosi per raggiungere le biciclette.
-Andrà tutto…- le parole mi morirono in gola.
 
-Ho paura, Jade- sussurrò Cara  con voce rotta dal pianto. Era troppo buio per vedere qualcosa, ma sapevo che i suoi occhi color nocciola erano posati su di me.
La sentivo tremare nella mia stretta. Le porte dell’armadio non erano abbastanza spesse da impedirci di sentire le grida provenienti dall’esterno. Strinsi a me la bambina, cercando di rassicurala
-Tranquilla- mormorai, cercando si nascondere la paura
-Andrà tutto bene.
L’armadio si aprì.
Mia sorella mi venne strappata via.
 
Asciugandomi la lacrima che scivolava silenziosa lungo la guancia, tornai nella stanza. 
 
  
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