Chapter Twelve-
Nobody’s Home
What's wrong, what's wrong now?
Too many, too many problems.
Don’t know where she
belongs, where she belongs.
<<
Genesis. >> Mark mi fissava con gli
occhi strabuzzati. Aveva il volto tirato e stanco, ma il suo sguardo di
disprezzo non era cambiato per niente. Giocherellai con le cordicelle
che
pendevano dal mio zainetto della Eastpack, nervosamente. Non pensavo di
trovare
proprio lui alla porta. Speravo che mi avrebbe aperto direttamente mio
padre,
in modo da non dover dare troppe spiegazioni.
<<
Posso entrare? >> Domandai,
schiarendomi la gola. Lui rimaneva immobile, a fissarmi. Alzai gli
occhi al
cielo, rifiutando di aspettare un minuto di più. Lo
sorpassai, scostandolo con
una spallata, poi mi feci spazio all’interno
dell’ingresso. Non era cambiato
assolutamente niente, se non il fatto che non consideravo quel luogo
casa mia. Non più. Ana
stava spolverando le scale
che portavano al piano superiore, borbottando di tanto in tanto
imprecazioni in
russo.
<<
Mark! Chi è alla porta? >> La voce di
Moira, squillante e fastidiosa, proveniva dalla cucina. Mi sistemai
meglio lo
zaino in spalla, stringendo Gioiosa
nella mano sinistra, fino a farmi diventare le nocche bianche. Avevo
paura che
un mostro saltasse fuori dal pavimento e cercasse di uccidermi. Mentre
camminavo, sul parquet rimasero delle impronte di sabbia. Le mie
Converse si
erano sporcate per colpa dei granelli che inondavano i marciapiedi di New York. I netturbini
stavano già
cominciando a spazzare le strade, ma il lavoro era piuttosto lungo e
noioso.
<<
Ciao. >> Mi appoggiai allo stipite
della porta, facendo un cenno della mano in direzione della mia
matrigna.
Lasciò cadere per terra il bicchiere di vino che teneva in
mano, spalancando la
bocca, come se avesse visto un fantasma. Di sicuro era stata
felicissima quando
me ne ero andata, probabilmente si aspettava di non rivedermi mai
più. Anzi,
credevo proprio che avesse organizzato una festa quando mio padre le
aveva
detto che non sarei più tornata. Con tanto di abito da sera
e cocktail con gli
ombrellini colorati.
<<
Esci subito da casa mia. >> Sibilò
Moira, con i capelli biondi che le fluttuavano attorno al volto.
Inarcai le
sopracciglia. Non mi sarei fatta intimidire da quella pazza isterica.
<<
Non è casa tua, è casa di mio padre.
>> Risposi, facendo roteare la spada. Lei
deglutì con aria
melodrammatica, fissando la lama scintillante della mia arma. Non ero
sicura
che lei vedesse Gioiosa, più
probabilmente una mazza da baseball, o cose del genere. I mortali non
erano in
grado di ammirare il mondo nella sua totalità ed interezza.
Me lo aveva detto
Leo.
<<
Chiamo la polizia! >> Sbraitò,
afferrando il telefono appoggiato sul tavolo della cucina. Si
sentì un forte
trambusto al piano superiore, poi qualcuno che scendeva le scale di
corsa. Mi
voltai appena in tempo per vedere mio padre che inciampava nelle
stampelle. Lo
afferrai per un braccio, impedendogli di cadere.
<<
Sei davvero qui. >> Mormorò. Mi
strinse talmente forte da farmi male alle costole. Ricambiai
l’abbraccio,
insicura. Sentii un’ondata di sollievo investirmi, rendendomi
conto che lui
stava bene. Probabilmente si era slogato una caviglia, o rotto la
rotula, ma
stava bene. Era vivo.
<<
Dovevo controllare che tu stessi bene.
>> Mi limitai a sussurrare. Quando si sciolse
dall’abbraccio notai che
aveva gli occhi pieni di lacrime. Mi invitò a sedermi in
cucina, sotto lo
sguardo stralunato di Moira, che teneva ancora in mano il telefono.
Voleva
sicuramente lanciarmelo in testa, stile arma contundente. Ana, che
doveva
assolutamente pulire il pavimento della cucina, ci servì da
bere, guardandomi
come se mi avesse vista per la prima volta. Non pensavo che si sarebbe
dimenticata
di me così facilmente, del resto mi aveva urlato contro
almeno diecimila volte
perché il pavimento della mia stanza era sempre disseminato
di vestiti.
<<
Come ti trovi al… in quel posto? >>
Domandò, a bassa voce. La mia matrigna uscì
dalla stanza, furibonda. Grazie agli dei, avevamo bisogno di un
po’ di privacy.
<<
Posso sapere come mai Ana è ancora qui? E
perché eravate tutti svegli? Manca poco alle due.
>> Borbottai,
stringendo tra le mani la mia tazza di cioccolata calda. Non faceva
freddo, ma
avevo comunque i brividi. La bevanda dolce mi scaldò lo
stomaco, facendomi
rilassare.
<<
E’ rimasta bloccata qui a causa della
tempesta. Ha già pulito tutto questa mattina, ma credo che
sia spaventata. Sta
cercando qualcosa da fare. Comunque, non hai risposto alla mia domanda.
>> Mio padre si strinse nelle spalle, poi mi
lanciò uno sguardo molto
triste. Forse gli mancavo sul serio.
<<
Sto bene, papà, non è per me che devi
preoccuparti. >> Sospirai, con voce improvvisamente cupa.
Avevo smesso di
avere paura per me stessa un po’ di tempo prima. Mi ero
sempre considerata una
persona piuttosto egoista, ma in quei cinque giorni qualcosa in me era
cambiato.
Era poco tempo, ma non ero più la ragazzina di qualche mese
prima, che si
faceva maltrattare da Mark e passava le estati in manicomio.
<<
Quello che è successo a che fare con loro,
vero? >> Indicò il soffitto,
con aria spaventata. Ridacchiai, scuotendo la testa. Ovviamente si
stava
riferendo agli dei e all’Olimpo. Annuii, lentamente. Non
avevo intenzione di
spiegargli tutto quanto. Non avrei fatto altro che terrorizzarlo ancora
di più;
avevo soltanto bisogno che mi ascoltasse.
<<
Non posso scendere nei particolari, ma la
tempesta non è stato un episodio isolato. >>
Cominciai, passandomi una
mano tra i capelli.
<<
Ce ne saranno altre, sempre più violente e
pericolose. Dovete chiudervi in casa. Fate scorte di cibo, e
soprattutto acqua,
molta acqua. >> Sparai tutto d’un fiato,
sporgendomi verso mio padre. I
suoi occhi color nocciola si spalancarono, in un’espressione
stupita e
spaventata allo stesso tempo.
<<
M-ma… Cosa dirò a Moira? E poi ho il
lavoro, non posso… >> Cominciò a
balbettare, scuotendo la testa con
troppa veemenza. Finii la cioccolata calda con rimpianto, ne avrei
voluta
ancora. Poi riappoggiai la tazza sul tavolo, lentamente.
<<
Papà. >> Lo interruppi, con durezza.
<<
Non ci sarà più nessun lavoro. Si sta
scatenando l’Apocalisse, e non abbiamo molte
possibilità di sopravvivere.
Prometti che farai quello che ti ho detto, ti prego. >>
Gli strinsi
l’avambraccio, incatenando il mio sguardo al suo,
perché capisse quello che
cercavo di comunicargli. Poi sfiorai l’elsa di Gioiosa,
cercando di infondermi sicurezza
<<
Non posso, Genesis. Cerca di capirmi.
>> Rispose infine, con la voce spezzata. Strinsi la
mascella,
distogliendo gli occhi.
<<
Tu non… Almeno comincia a fare le scorte,
per favore. >> Esclamai, con voce piuttosto tirata. Lui
mi fissò per un
lungo istante, appoggiando la schiena alla sedia, con aria esausta. Si
passò
una mano tra i capelli brizzolati. Sembrava molto più
vecchio rispetto
all’ultima volta in cui l’avevo visto.
<<
Ci proverò, ma… >> Si
bloccò, perché
Moira sbraitò qualcosa a gran voce.
<<
Peter, la polizia vuole parlare con noi!
>> Gridò. La sua voce proveniva
dall’ingresso. Mio padre mi lanciò uno
sguardo di scuse, poi si alzò, aiutandosi con le stampelle.
Per un momento
pensai che sarei rimasta in cucina, ma non volevo lasciarlo solo. E poi
una
strana sensazione di inquietudine si era improvvisamente impossessata
di me.
Come se ci fosse qualcosa che non andava.
<<
Agenti, cosa posso fare per voi? >>
Sentii l’uomo domandare, con voce estremamente cordiale. Era
sempre stato molto
gentile con le autorità, forse perché era un
avvocato e aveva imparato molto
bene a fare buon viso a cattivo gioco.
<<
Mia figlia? Oh, mi dispiace, ma non è qui
ora. Vede, è partita per una gita scol…
>> Il corpo di mio padre volò per
tutto l’ingresso, andandosi a schiantare contro le scale.
Tornai in cucina
correndo, afferrando Gioiosa con
forza.
<<
Genesis Hale! Sappiamo che sei qui!
>> Quelle voci… Pamela
e
Michelle. Ma Nico le aveva uccise quel giorno a scuola.
Perché
erano ancora vive? Perché erano tornate a
cercarmi? Deglutii, cercando di ragionare a mente lucida. Non potevo
scappare
dall’ingresso principale, perché era bloccato
dalle Empuse. Osservai le scale
per un istante. Camera mia dava sul giardinetto sul retro, e dalla mia
finestra
potevo saltare fino ai rami del grande olmo che cresceva lì
da molto tempo. Poi
non mi restava altro da fare che correre fino alla fermata del pullman,
sperando di seminare i mostri. Non potevo trattenerli a lungo in casa,
o
qualcuno si sarebbe fatto seriamente male.
<<
Eccoti, ragazzina. >> Ringhiò una
terza voce, sconosciuta. Mi sentii il cuore in gola.
Cazzo.
Erano in tre. Si
erano portate un’altra amichetta
con cui giocare. Calcolai brevemente le speranze che avevo di riuscire
a
sorpassarle per salire le scale. Molto scarse, ma non avevo altra
scelta. Gli
occhietti rossi del mostro si puntarono su di me. Pensai di utilizzare
il mio
potere, ma eravamo tre contro uno, e poi ero troppo lontana. Deglutii,
poi mi
lanciai all’attacco. Con un fendente laterale feci spostare
l’Empusa, che mi
lasciò spazio per scappare attraverso la porta della cucina,
e raggiungere di
corsa le scale. Parai un artigliata di Pamela con il piattone, poi
cominciai a
salire i gradini a due a due. Sentii unghie affilate e lunghissime
infilarsi
nel polpaccio. Gridai, dando uno strattone. La mia pelle si
lacerò
completamente, ma perlomeno ero riuscita a liberarmi. Però
c’era qualcosa che
non mi tornava. Pamela e l’altro mostro erano al piano di
sotto, ma non avevo
ancora visto…
<<
Dove scappi, dolcezza? >> Michelle
non si era ancora trasformata. Indossava una divisa da poliziotta, che-
per
quanto detestassi ammetterlo- le stava d’incanto.
Non
impiegò
molto a diventare un’orribile creatura spelacchiata, con gli
occhiali da sole. Dannazione. Doveva
aver intuito qualcosa
riguardo al soggiogamento. Se non riuscivo a guardarla negli occhi, non
avrei
mai potuto piegarla al mio volere, sempre che avessi le forze per
farlo. Mi
lanciai in avanti, con un affondo mirato. Michelle si scostò
appena in tempo, e
la lama cozzò di striscio contro al suo fianco. Il mostro
produsse un sibilo
disgustato, osservando qualche goccia di sangue scivolarle lungo le
gambe
pelose.
<<
Oh, adesso sai combattere con la spada?
Davvero ammirevole. >> Ghignò Michelle,
scoppiando in una risata che
assomigliava ad un ululato. Deglutii. Non avevo speranze contro di lei.
Con la
coda dell’occhio mi guardai alle spalle. Pamela e
l’altro mostro erano sul
fondo delle scale, e mi fissavano con odio. Ero in trappola.
<<
Che bello rivederti, Michelle. Sai che stai
bene con la divisa da poliziotta? >> Cominciai, con tono
stridulo. Il
panico nella mia voce era chiaramente percepibile, ma non avevo altra
scelta,
se non perdere tempo per farmi venire in mente qualcosa.
<<
Lo so. A dire il vero mi dona molto più
della divisa da cheerleader. >> Sorrise lei. Un sorriso
orribile e
spaventoso, ma evitai di dirglielo.
<<
Già, lo credo anche io. Quei pon-pon erano
orribili, in effetti. >> Risposi, gesticolando.
<<
Sono d’accordo! E poi… >> Si
bloccò.
<<
Oh, aspetta. Stai cercando di fare quel
giochino anche con me. >> Ringhiò, su tutte le
furie.
Poi, con uno
scatto fulmineo, venni artigliata per
la gamba, e Michelle mi lanciò giù dalle scale.
Atterrai sul pavimento
dell’ingresso, battendo una spalla. Vidi soltanto puntini
rossi per un istante,
e quando rinvenni il dolore era come un potente e rimbombante rumore di
sottofondo. Strinsi i denti, rialzandomi. La gamba destra mi cedette
per un
attimo, ma riuscii a rimanere in piedi. Il sangue mi colava sulla
pelle, ed ero
piuttosto sicura che la mia spalla non stesse affatto
bene. C’era il rischio che mi fossi slogata
l’articolazione,
o cose del genere. Allontanai Pamela con un fendente, che la
colpì allo
stomaco, poi indietreggiai. C’era la possibilità
di uscire dalla finestra della
cucina, anche se avrei impiegato tempo ad aprirla, e mi sarei dovuta
arrampicare sui fornelli. Riuscii ad abbassarmi in tempo per schivare
cinque
artigli diretti al mio viso, ma mi ero dimenticata che loro avessero un
vantaggio
numerico. Errore madornale. Il
dolore
alla schiena fu acuto e bruciante, mentre cadevo sul pavimento freddo.
Altro
sangue. Dovevo assolutamente trovare il modo di scappare, o non sarei
sopravvissuta. Mi voltai, stringendo Gioiosa
con forza. Se l’avessi persa sarebbe stata davvero
la fine.
<<
Ultime parole? >> Domandò Pamela,
piantandomi uno zoccolo peloso contro al collo. Annaspai in cerca
d’aria, ma
lei premeva troppo forte.
<<
Vai al Tartaro. >> Ma quella non era
la mia voce. Una lama nera come l’ossidiana si
abbatté sulla gola della
biondina, recidendo di netto la testa. Approfittai di quel momento per
rialzarmi, e ficcare la mia spada nel cuore della terza Empusa, che non
avevo
mai visto prima. Speravo di aver colpito il punto giusto, e quando il
mostro
esplose in una nuvoletta mi permisi di respirare di nuovo, cadendo in
ginocchio.
<<
Non posso lasciarti sola un secondo e tu
combini un fottuto casino! >> Ringhiò Nico,
infilzando Michelle nella
schiena, uccidendola una volta per tutte.
<<
Oh, chiudi quella bocca! >> Sbraitai,
chinandomi su me stessa. L’adrenalina mi stava abbandonando,
insieme ai residui
di energia che mi erano rimasti in corpo. Il dolore peggiore era quello
alla
spalla, che, sommato ai vari tagli che avevo sulla coscia, sui polpacci
e sulla
schiena, rendeva la vita un vero schifo.
<<
Diis
Immortales, quanto sangue… >>
Imprecò il ragazzo, chinandosi accanto
a me. Strinsi i denti, ignorando il bruciore a tutto il corpo. Del
resto era
stata colpa mia se ero finita in quella situazione. Avevo immaginato
che
sarebbe andata a finire così, ma non potevo rinunciare a
vedere mio padre.
Sarebbe stato peggio di qualsiasi ferita.
<<
Sto bene. >> Borbottò il mio
orgoglio, al mio posto. Il figlio di Ade mi lanciò
un’occhiataccia,
sollevandomi senza sforzo, e dirigendosi in salotto a passo spedito. Un
divano
era già occupato da mio padre, in evidente stato
confusionale. Mark fissava il
vuoto, Moira piangeva disperatamente e Ana mi trucidò con lo
sguardo quando
Nico osò posarmi sulla poltrona libera, sporcando la pelle
italiana di sangue.
Rischiai di urlare quando la mia spalla toccò lo schienale.
<<
Bevi. >> Il ragazzo mi consegnò una
fialetta di nettare, che buttai giù tutto d’un
fiato. Il dolore diminuì,
trasformandosi in un sordo e fastidiosissimo brusio di sottofondo. Nico
era
piuttosto incazzato. Lo si notava dai movimenti bruschi, e
dall’espressione
dura dipinta sul bel volto. Chissà come faceva a sapere che
ero andata da mio
padre. Forse mi conosceva meglio di quanto io conoscessi me stessa.
<<
Qui servono i punti. >> Mormorò,
pensieroso, fissandomi la gamba con aria preoccupata.
<<
Tu. Vammi a prendere un kit ti pronto
soccorso. >> Ordinò a Mark. Lui, dal canto
suo, rimase fermo immobile,
con la bocca spalancata nell’espressione più ebete
che avessi mai visto. Se non
fosse stato per il male e la stanchezza sarei scoppiata a ridere e gli
avrei
fatto una foto.
<<
Ora. >> Ringhiò Nico, facendo
scattare i denti. Il mio fratellastro si riscosse, e sparì
di corsa.
Sicuramente non era preoccupato per me. Era molto più
probabile che fosse
terrorizzato dal neo-diciottenne, che in quel momento incarnava il
perfetto
stereotipo del figlio di Ade. Mark tornò in fretta,
consegnando al ragazzo una
cassettina rossa con una croce bianca sopra.
<<
Da quando sai mettere i punti? >>
Chiesi, cercando di sembrare divertita.
<<
Farà abbastanza male. >> Mi
avvertì,
ignorando la mia domanda.
<<
Non ho paura del dolore. >> Bugia.
<<
Cercherò di metterci poco. >>
Continuò, imperterrito. Annuii, e chiusi gli occhi mentre
Nico infilava il filo
da sutura nella cruna dell’ago.
Poi
iniziò a cucire, e io mi morsi una mano per non
mettermi ad urlare, mentre lacrime silenziose mi bagnavano le guance.
Durò
pochi minuti, ma a me sembravano passate ore quando il ragazzo recise
il filo
con i denti, rimettendo tutto al suo posto. Rimasi immobile per un
istante,
stringendo con tutta la forza che avevo il bracciolo della poltrona,
mentre il bruciore
diminuiva. Ne avevo decisamente abbastanza di soffrire per quella
giornata.
Improvvisamente mi sentii stanchissima. Mi sarei voluta addormentare su
quella
poltrona, e rimanere lì a poltrire per il resto della mia
vita. Mi alzai a
fatica, appoggiando tutto il peso del corpo sulla gamba buona.
<<
Cosa credi di fare? >> Nico mi
fissava con le sopracciglia inarcate.
<<
Tornare a casa? >> Domandai,
sarcastica. Scossi la testa, lanciandogli un’occhiataccia.
<<
Non puoi camminare ora, ti salterebbero i
punti. >> E mentre me lo spiegava, con tono monocorde, mi
prese in
braccio, mettendosi in spalla il mio zainetto. Avrei voluto dirgli che
piuttosto che farmi trasportare da lui mi sarei messa a strisciare come
un
verme, ma avevo la lingua impastata, e mi si chiudevano gli occhi.
Allungai un
braccio verso mio padre, che si era addormentato, con le stampelle
accanto al
divano. Chissà cosa aveva fatto alla gamba.
<<
Non tornare mai più, Genesis Hale. Non fai
più parte di questa famiglia. >> Disse Moira,
con voce maligna. Forse
aveva ragione. Non ero mai stata una buona figlia, non avevo mai
portato gioie
in casa. Forse il mio posto non era mai stato sotto quel tetto di
quella
villetta di New York. E allora qual era, il mio posto? Il Campo
Mezzosangue,
dove tutti sembravano avere paura di me? A chi appartenevo? Chi si
sarebbe
preso cura di me? Magari avrei semplicemente dovuto imparare a non
affezionarmi, a contare soltanto sulle mie forze. Mi sentii gelare, ma
non
risposi, mentre avvolgevo le braccia attorno al collo di Nico,
nascondendo la
testa contro al suo petto.
Il dondolio
della sua andatura era così rilassante
che temetti sul serio di scivolare tra le braccia di Morfeo. Sfregai il
naso
contro alla scapola del figlio di Ade, e lo sentii rabbrividire.
Impossibile.
Forse era soltanto l’effetto della stanchezza. Il viaggio
nell’ombra non fu
traumatico come al solito. Sentii soltanto una stretta allo stomaco, ma
durò
pochissimi secondi. Quando arrivammo al Campo non c’era
nessuno ad aspettarci.
Evidentemente Nico aveva preferito venire a cercarmi per conto suo.
Decisione
saggia. Era inutile mettere in allarme Chirone e gli altri soltanto
perché ero
preoccupata per mio padre e avevo deciso di fare una gita
fuoriprogramma a New
York. L’ambiente rischiarato dalla luna era silenziosissimo.
Persino nella
cabina di Ermes non si sentiva volare una mosca. Non volevo tornarci.
Volevo
restare con Nico.
<<
Posso… Posso dormire da te stanotte?
>> Mormorai, con la voce ovattata dal tessuto della sua
maglietta. Di
sicuro se fossi stata lucida non glielo avrei mai chiesto, ma del resto
era
vero. Non volevo svegliarmi in preda agli incubi e agli attacchi di
panico. Con
lui non sarebbe mai successo, perché mi faceva sentire
protetta. E in quel
momento l’unica cosa di cui avevo bisogno era un luogo sicuro
dove riposare.
<<
Ah, Genesis.
Cosa devo fare con te? >> Sussurrò, ma il suo
tono era divertito.
Quando
aprì la porta della cabina di Ade tirai un
mezzo sospiro di sollievo. Quel posto era inquietante, con le pareti
nere e la
quantità industriale di pugnali sparsi un po’
dappertutto, ma non mi
interessava. Mi fece sdraiare sul suo letto, e sentii freddo senza il
suo corpo
contro il mio. Cavolo. Perché
pensavo
a quelle cose assurde? Mi sembrava di essere diventata la protagonista
di uno
di quei smielati romanzi rosa che avevo sempre detestato con tutto il
cuore. Mi
misi a sedere, mentre Nico frugava nel suo armadio.
<<
Tieni. >> Mi lanciò una maglietta,
che non ebbi la prontezza di afferrare al volo. Mi atterrò
in grembo. La
guardai per un istante, senza capire. Poi mi resi conto che la mia
canottiera
bianca era macchiata di sangue un po’ dappertutto, era sporca
di sudore e
coperta di sudiciume. Il diciottenne fissava il suo guardaroba mentre
io
indossavo la sua t-shirt e toglievo i pantaloncini, infilandomi poi
sotto le
lenzuola. Crollai a peso morto sul cuscino, senza riuscire a sostenere
il peso
della testa. Il ragazzo si sedette accanto a me, guardandomi con
un’espressione
indecifrabile dipinta sul volto pallido.
<<
Sai cosa? Sei un cavaliere senza macchia e
senza paura molto strano. >> Biascicai, con gli occhi che
mi si
chiudevano contro la mia volontà.
<<
Hai
battuto la testa, eh? >> Le sue labbra si curvarono in un
sorriso
sarcastico. Mi scostò una ciocca di capelli dalla fronte,
quasi distrattamente,
come se non ci avesse pensato. La sua mano si fermò sulla
mia guancia, mentre
si rendeva conto del suo gesto. Nonostante fossi nel mio mondo di
unicorni rosa
ed arcobaleni, mi sentii mancare il respiro al contatto con le sue dita
fredde.
<<
Mio padre sta bene. Mi dispiace… >>
Mi interruppi, sbadigliando.
<<
Mi dispiace per averti messo nei guai.
>> Borbottai con voce strascicata.
<<
Potevi morire, per colpa mia. Deve essere
una seccatura corrermi dietro a causa della profezia. >>
Bofonchiai ad
occhi chiusi, mentre il sonno tirava le mie membra con più
forza, per trascinarmi
nella sua spirale. Prima di perdere coscienza mi parve di sentirlo
sussurrare
qualcosa, ma forse me l’ero soltanto immaginato.
<<
La profezia non cambia le cose, Hale. Io ti
proteggerei sempre. >>
NOTE
AUTRICE
Ed
ecco il casino più piccolo nel casino grande. Comunque, non
so se riuscirò a
pubblicare il prossimo capitolo entro tre giorni, perché
domani ho gli esami
scritti e lunedì gli orali (AIUTO). Comunque, grazie mille
come al solito, e spero
che il capitolo vi sia piaciuto!
Bacioni
e buona fine delle vacanze :3