PARTE
TREDICESIMA: LA CONDIZIONE
-Quella donna vi sta prendendo in giro!
Celia staccò un pezzo di carne dallo spillone di metallo con fare molto poco
aggraziato. Era la quarta volta che ripeteva quella frase, mentre Talora e
Vegeta discutevano animatamente su quello che l’aliena aveva appena raccontato.
Stavano seduti intorno al fuoco, l’aliena e Spartack
poco prima erano andati via dalla capanna. Ufficialmente per andarle a
procurare delle nuove calzature. Ufficiosamente per parlare lui e lei da soli.
Vegeta prese anche lui dal fuoco uno spillone e addentò la carne appena cotta.
La bestia che avevano tagliato era la migliore della dispensa. Ottima per
rifocillare dei guerrieri valorosi, anche se grazie a quella strana medicina
Vegeta sentiva tutto fuorchè la fame.
-Quella donna mi irrita terribilmente- disse Vegeta –ma non credo sia una
bugiarda.
Talora bevve un lungo sorso d’acqua e osservò il cielo grigio del primo
pomeriggio. –Neanche io credo che menta.
-Senza contare che anche Spartack le crede-
puntualizzò Vegeta.
-Già.
Celia calciò un rametto proprio al centro del falò. –E con gli Skatos come la mettiamo? Vi siete dimenticati che quella
era con loro fino a ieri? Potrebbe essere una macchina studiata da quei mostri
per quel che ne sappiamo.
Vegeta e Talora tacquero e si guardarono.
Celia non aveva tutti i torti, e anche se parlava più per antipatia che per
timore, Vegeta sapeva che la sua ipotesi non era poi così irrealistica.
Vegeta richiamò alla mente la scena del primo incontro con la donna, alla
ricerca di qualche particolare che potesse tornargli utile per smascherarla. Eppure
quella donna aveva reagito in maniera impeccabile. Non poteva sapere del suo
arrivo perché era scappato senza preavviso, ma poteva essere stata addestrata a
mostrarsi colpita alla vista dei Sayan. A fingere
attaccamento verso di loro.
Vegeta ripensò a come la donna aveva pianto.
E a come l’aveva sfidato per scherzo dentro alla capanna.
Poteva essere una macchina, come ogni Sayan del
villaggio sarebbe potuto essere un accolito degli Skatos,
ma sebbene fosse sospettoso di natura non riusciva a convincersi che mentisse.
Era questione di istinto. La sua mente gli diceva di stare attento, ma la sua
pelle di stare tranquillo.
C’era qualcosa in quella donna che lo irritava ma non di quell’irritazione che
fa venire voglia di far del male. Era solo come se a lei piacesse giocare, e
avesse scelto lui come compagno di malefatte.
Era una donna troppo umana per essere una macchina. Le lacrime che aveva
versato erano così grandi e lo sguardo così sgomento, il suo tono di sfida così
deciso, il suo sarcasmo così pungente. Quella donna era TROPPO, per essere una
macchina.
Non c’era da stupirsi che fosse la compagna di un Sayan,
pensò Vegeta. Nell’ottica di averla come compagna, doveva addirittura riconoscere che il suo compagno doveva essere
un Sayan decisamente fortunato.
Una bella donna con la testa di uno scienziato e il carattere di un Sayan. Cosa si poteva volere di più?
Persino litigare in continuazione con quella donna sarebbe stato stimolante.
Vegeta si rese conto di starsi fissando i piedi e sollevò lo sguardo.
Solo allora notò che Celia lo fissava di sottecchi.
Mentre Vegeta era assorto nei suoi pensieri, Celia aveva passato uno spillone a
un guerriero appena tornato dall’allenamento, sempre seguendo con la coda
dell’occhio i movimenti di Vegeta.
A un certo punto lui aveva sollevato lo sguardo, e i loro occhi si erano
incrociati.
Nessuno dei due disse nulla, ma Celia sentì da quel contatto che lui stava
pensando a quell’aliena.
Così tornò a guardare il fuoco.
-In ogni caso- continuò Vegeta, voltandosi nuovamente verso Talora –Ha detto
che ha quel segno sul collo perché nel suo mondo è la compagna di un sayan…
Talora annuì staccando dal ferro rovente altra carne. –Già. E ha detto anche
che i sayan nel suo mondo non esistono più.
-Ma che caso- disse Celia sottovoce.
Vegeta si voltò verso di lei. –Cosa?
Celia sollevò lo sguardo. –Bè, non mi stupisce che la
nostra “razza” nel suo mondo non esista più.
Nel vedere che gli altri non replicavano, Celia pensò che detestava essere
quella a cui toccava sempre dire come stava la realtà.
-Già adesso siamo più di 300 e non riusciamo a sconfiggere quel branco di
mostri senza un minimo di forza combattiva, figuriamoci fra settecento anni in
che condizioni dovremmo essere.
Celia piantò di nuovo lo spillone vuoto accanto al fuoco.
-Mangiamo animali malati e viviamo come animali malati, sai che dramma sapere
che tra settecento anni non esisteremo più.
Talora abbassò lo sguardo a fissarsi la gamba sana e poi quella malata, mentre
Vegeta si guardò intorno. Il cielo era tanto grigio da sembrare quasi finto.
Era stata una maledizione capitare su quel pianeta.
Cosa poteva esserci mai stato di così attraente in quel luogo asfittico e
inospitale?
Vegeta, Talora e Celia guardarono insieme il misero fuoco e la carne che
cuoceva lentamente lambita dalla fiamma. Poi tutti e tre abbassarono lo
sguardo.
-Non è per un cazzo giusto…-mormorò Talora.
Vegeta sollevò lo sguardo sull’amico e vide che Talora si stava fissando la
protesi alla gamba. Quel Sayan aveva una forza
d’animo tale da metterlo in soggezione, pensò Vegeta, e forse era per questo
che erano diventati così amici. Talora era quanto di più dissimile da lui gli
fosse mai capitato d’incontrare, ma non l’aveva mai considerato un debole.
Neanche quando aveva smesso di combattere.
Anzi, forse Talora era più forte di tutti loro che combattevano e avevano due
gambe. Talora alzò lo sguardo e Vegeta fissò la protesi. Lui si sarebbe fatto
fuori se fosse rimasto senza una gamba.
I tre finirono di consumare il pasto ragionando ognuno sulla loro situazione.
Celia concluse che quella donna andava tenuta il più lontano possibile da
Vegeta, e non perché costituisse una minaccia in qualche modo legata agli Skatos.
Talora invece pensò che credeva a tutto quello che l’aliena aveva detto, e che
se era una scienziata forse avrebbe trovato un modo per fargli avere una
protesi migliore.
Vegeta, infine, concluse solo che quella donna forse era sincera.
E che, in ogni caso, se così non fosse stato l’avrebbe portata via dal
villaggio e l’avrebbe uccisa.
-Credo che sia meglio che Vegeta non sappia nello
specifico chi è il Sayan che ti ha morsa. Mi sembra
già abbastanza scosso dalla tua presenza, e anche se gioca a fare il grande
uomo è ancora un ragazzo.
Io e Spartack passammo accanto al fuoco e lo
superammo diretti verso l’altra parte della piazza. Ci stavamo dirigendo verso
una capanna sul cui uscio erano appese delle pelli pressate, per cercare di
farmi avere qualcosa da mettere ai piedi. E anche per parlare lontano dai
ragazzi.
Quello che diceva Spartack era logico. Quando avevo
raccontato la mia storia anche a Vegeta, senza pensarci avevo omesso che il Sayan chiamato Vegeta e il Sayan
del morso sul mio collo erano in realtà lo stesso uomo.
Già avevo visto lo sguardo degli altri due, alla notizia che nel mio mondo non
vi era traccia dei loro discendenti e c’era invece un discendente di Vegeta
Spartack non era sembrato sorpreso, ma Vegeta mi
aveva fissata come chiedendosi perché proprio a lui fosse toccato sopravvivere.
In quell’istante avevo pensato che forse doveva essere stato quello lo sguardo
del mio Vegeta alla notizia dell’esplosione del suo pianeta.
Uno sguardo indagatore che diceva: “perché proprio io?”, consapevole che nulla
quando si è guerra viene lasciato al caso.
Io e Spartack entrammo nella capanna e una donna ci
accolse parlando con la stessa cadenza strana delle terze classi di qualche ora
prima.
-Devi cucire subito della calzature per lei- disse Spartack
indicandomi, con un tono che non ammetteva repliche.
La donna fissò la mia statura poi mi disse di sedermi. Osservandomi un momento
i piedi prese qualche misura con la mano, poi da una credenza prese una pelle cominciò
a inciderla con una specie di coltello.
In poco meno di un quarto d’ora avevo dopo due giorni di nuovo qualcosa ai
piedi, e prima di indossare le calzature Spartack
disse di ricordarmi di farmi cambiare le fasciature appena arrivata alla
capanna. Nel seppur breve tragitto fino a quel locale le bende bianche erano
diventate sporche e nerastre, e cominciavo a sentire anche la sporcizia
penetrare negli intersizi.
Una volta usciti dalla conceria, Spartack mi condusse
alla sua capanna.
-Ci sono cose di cui ti devo parlare ma che non voglio che i ragazzi sentano. Nessuno
osa avvicinarsi alla mia capanna quando sanno che sono dentro.
Ed era per davvero un locale che intimoriva. Al contrario delle altre
abitazione, la dimora di Spartack era l’unica a esser
fatta di pietre e non di terra e arbusti. Da fuori sembrava una fortezza,
rispetto alle altre case. Inoltre la stanza era più grande, quasi il doppio
dell’infermeria, ed immaginai fosse un’eccezione anche la credenza sotterranea
in cui erano conservati cibo e bevande.
Notai subito che il letto, o comunque il giaciglio sul terreno, era grande ma
non abbastanza per due persone. Del resto né Talora né Celia né lo stesso Spartack avevano accennato nulla circa la madre dei
ragazzi.
Se conoscevano il mio morso probabilmente esistevano legami stabili tra i Sayan, e mi sembrò strano rendermi conto che Spartack non sembrava avere una consorte.
Mi sedetti su una sedia davanti al letto, come lui mi disse di fare. Al
contrario Spartack rimase in piedi.
-Immagino che riguardi la mia storia, quello che mi devi dire- dissi.
–A dire il vero non proprio. Sono curioso della tua storia, ma quel che mi
preme è qualcos’altro.
Dovetti sembrare delusa dalla risposta, perché Spartack
mi fissò e aggiunse: -Perché, c’è qualcos’altro che dovrei sapere?
Ero indecisa su cosa dire. Avevo sperato in quel momento per poter vuotare il
sacco. Avevo bisogno di un aiuto, e anche se erano Sayan
giovani e forti, Vegeta, Talora e Celia erano comunque dei ragazzi.
Solo con Spartack sapevo di poter parlare. Di dover
parlare, se volevo tornare a casa.
Per un attimo lo fissai cercando qualcosa con cui cominciare.
-Gli Skatos hanno la mia macchina del tempo. Senza di
quella non posso tornare a casa.
Per un lungo istante nel locale calò il silenzio.
Non sapevo cosa aspettarmi. Non sapevo se avrei ricevuto un qualche aiuto dal Sayan. Sapevo che volevo tornare a casa, ma al tempo stesso
che riuscirci non sarebbe stato per nulla facile.
Vedendo la mia espressione dura ma amara, Spartack mi
guardò con una comprensione inaspettata.
-Gli Skatos ti hanno raccontato qualcosa di questo
pianeta?-disse, prendendo una sedia e sedendosi di fronte a me.
Era seduto esattamente come Lektar il giorno prima.
Solo che la schiena era più dritta, l’espressione meno abbattuta.
-Mi hanno detto che convivono con voi ma che questo non è il vostro pianeta.
Spartack rise amaramente. –Direi che “convivere” sia
esagerato, per descrivere come viviamo. Comunque in parte hanno ragione: questo
non è il nostro pianeta.
Fuori dalla capanna arrivava il vociare confuso di un gruppo di bambini. Con
piccoli schianti di oggetti di legno che precedevano ogni grido. Bambini che
giocavano alla guerra, prima di combatterla davvero.
Spartack si guardò intorno e scosse la coda in aria.
-Noi Sayan non abbiamo un nostro pianeta. Dacchè io me ne ricordi e da quello che mi hanno raccontato
non siamo mai stati su un pianeta stabile.
Un bambino scoppiò a piangere. La voce di una donna pose tregua alla battaglia.
-Su Eos siamo arrivati scappando da un altro pianeta. E ci siamo fermati perché
non sapevamo dove andare.
Spartack guardò la porta poi tornò a guardare me.
-Quando siamo arrivati qua non sapevamo neanche se ci fosse aria e cibo. Però
dalle navicelle si vedevano terreni sconfinati. Finalmente siamo arrivati,
abbiamo pensato all’atterraggio.
Mi fissò dritta negli occhi e mi sentii stringere lo stomaco.
–Ma non avevamo calcolato gli Skatos. All’inizio ci
erano sembrati esseri innocui, non ce ne importava nulla di combattere con
loro, eravamo talmente stanchi di viaggiare che anche solo la prospettiva di
avere della terra sotto i piedi ci faceva sentire soddisfatti.
-Ma loro non la pensavano come voi.
Spartack sferzò di nuovo la coda in aria.
-Non avevamo fatto loro nulla. Vivevamo in questi stessi posti, ci costruivamo
le nostre capanne. Davamo da mangiare ai nostri cuccioli.
-Uno di loro mi ha detto che li avete attaccati.
-Non per divertirci né per sterminarli, inizialmente. Volevamo solo cibo. Le
bestie senza luce muoiono, e quelle che sopravvivono sono quasi tutte
incommestibili o malate. Un anno ci fu un inverno particolarmente freddo, e
saremmo morti se la madre di Vegeta non avesse rubato loro qualche provvista e
qualche pillola nutritiva.
La donna del tradimento, sempre lei che ritornava.
-Ma avete fatto del male a un popolo pacifico.
Non sapevo perché li stavo difendendo, quegli Skatos
che erano responsabili da star sterminando il popolo dell’uomo che amavo.
O forse sapevo perché li difendevo.
Perché gli Skatos erano i terrestri di settecento
anni prima. Gente sempre vissuta in pace ed invasa all’improvviso.
Le vittime di un’invasione, come sarebbe potuta essere la Terra.
C’era quasi un senso di immedesimazione, nel loro modo di voler dire
“tornatevene da dove siete venuti”.
Eppure c’era quell’uomo, che aveva solo qualche anno più di me ma
un’espressione così dura e segnata in volto. Quel corpo che intravedevo a
tratti sotto i vestiti così coperto di cicatrici. Quei muscoli nervosi,
abituati a restare tesi.
Quella postura così dritta eppure l’espressione così stanca.
Il pianto del bambino nella piazza si placò e la piccola battaglia infuriò di
nuovo. Per un lungo istante Spartack tacque e sembrò
perdersi il quel rumore così infantile e al tempo stesso familiare.
Poi il Sayan tornò a guardarmi.
-Quanti siete sul tuo pianeta?
Lo fissai senza capire. -Sei miliardi.
Spartack allora si alzò in piedi. Prese da una
mensola una pelle pulita e me la passò perché la indossassi.
-Sul tuo pianeta siete sei miliardi e un Sayan vive
nella tua stessa casa.
Continuavo a non capire.
-Gli Skatos sono meno di diecimila. E sono convinti
che il pianeta sia troppo piccolo per contenerci tutti.
In quello stesso istante, poco lontano nel senso
spaziale del termine, ma completamente in un altro mondo, Jasper fissava gli
scienziati che lavoravano alla macchina su cui il giorno prima era arrivata la
terrestre.
-Non credo che sia una buona idea finire di aggiustarla- gli aveva detto il
capo-gruppo soltanto un’ora prima. –Potrebbe venirla a riprendere se fosse di
nuovo funzionante.
Ma Jasper non gli aveva dato peso. Se la donna fosse tornata e avesse usato
quella macchina, sarebbe al massimo ritornata sul suo pianeta.
Prospettiva abbastanza rosea, contro l’idea di sapere il suo intelletto nelle
mani di quelle scimmie.
Jasper passeggiò avanti e indietro lungo la circonferenza del macchinario.
Quella donna era un’arma, non per loro che erano scienziati, ma per i Sayan che di tecnologia non sapevano quasi nulla. E che in
tutti quegli anni avevano posseduto alcuni loro oggetti, senza riuscire mai a
usarli per colpa della loro scarsa intelligenza.
Avrebbero dovuto riprendere quella donna, pensò Jasper osservando la fiancata
della macchina su cui con inchiostro nero era stata incisa la parola
“speranza”. Una grafia tondeggiante ma decisa, forse quella della donna, per
una parola di cui lui non comprendeva appieno il senso.
Quella donna con i Sayan era pericolosa come
nient’altro poteva essere. Un’arma in grado di pensare e costruire altre armi.
Un’arma in grado di sterminarli, se i Sayan avessero
capito in che modo poterla usare.
Jasper si maledisse per non essere mai riuscito a scoprire quali progetti di
preciso la donna Sayan avesse sottratto dai loro
uffici anni prima.
Il ricordo di quei giorni aveva una forza insopportabile, un’ incessante
pulsazione che gli faceva venir voglia di uscire fuori e urlare di rancore.
I pensieri del sommo Falen gli riempivano il
cervello. Il ricordo dell’incontro con la donna, delle notti passate a curarle
il figlio, dei giorni trascorsi nell’intento di convincerla a restare. Che lei
era diversa dagli appartenenti alla sua razza.
Che sarebbero potuti essere felici, se lei fosse rimasta.
Nei suoi ricordi quella donna aveva occhi grandi e neri come due pozze di
carburante, un’enorme e assurda chioma di capelli anch’essi neri, così selvaggi
e così diversi da quelli lisci e turchesi di Falen e
dei suoi simili.
E aveva un temperamento chiuso e ombroso, ma una furia passionale contro chi
sembrava volerle nuocere che lasciava storditi.
Era così diversa dagli Skatos, così istintiva e persino
CALDA. Così libera nell’ esprimere ciò che sentiva nel profondo, fino al punto
di fargli desiderare di poter essere come lei, libero dai vincoli di quella
calma autoimposta. Da quell’evoluzione che gli sembrava un passo indietro,
un’enorme sacrificio per mantenere una società tranquilla.
Tranquillamente immune dal dolore. E immune anche dall’amore.
Da un sentimento così scomodo, così pericoloso, anche, da poter distruggere in
un colpo solo anche il più forte di tutti loro.
Una passione incontrollata, che poteva essere gelosia, possessione e poi voglia
di redenzione.
Un sentimento così vivo, ma così torbido e inebriante da annebbiare ogni mente.
Come l’oscurità che avevano imparato a dissipare grazie alla grande sfera nella
piazza.
Per vivere sempre nella luce, e non avere dubbi o cedimenti.
Per poter essere tranquilli, appunto, come quella donna non era mai nemmeno
durante il sonno.
-Il capo- squadra mi ha detto che non hai intenzione di ascoltarlo.
Jasper si voltò pur avendo riconosciuto la voce di Calisia.
Lo Skatos lo raggiunse e osservò la macchina con
un’espressione di sufficienza.
-Sarà anche una bella invenzione, ma non s può certo dire che sia aggraziata
come aspetto.
Jasper si strinse nelle spalle e fissò la scritta in inchiostro nero. –Credo
che per il popolo della donna sia già tanto riuscire a farle funzionare, le
invenzioni. Gli ingranaggi sono ben costruiti ma è ancora una costruzione ad
energia elettrica, con il nucleare avrebbe potuto ovviare al problema di
doverla ricaricare se avesse saputo come utilizzarlo. Non credo che ne sappiamo
granchè di invenzioni questi “terrestri” di cui lei
parla.
Calisia convenne con la testa e si portò le braccia
al petto.
-Lektar si rifiuta di parlarmi da quanto il Sayan ha rapito la donna.
Jasper si voltò a guardare il volto candido e i capelli purpurei dello Skatos al suo fianco. Il capo comunità insieme a lui e
forse a Lektar. Dalla sera prima, dopo l’attacco, non
aveva più visto suo fratello, ed era pressoché convinto che la cosa non fosse
un caso.
Jasper fece una smorfia di noncuranza.
-Lektar non è come noi. Non riesce a non attaccarsi
alle persone.
Calisia lasciò che un gruppo di scienziati li
raggiungesse e poi passasse loro accanto. Solo quando gli scienziati di furono
allontanati, dopo un breve cenno di riverenza in loro direzione, Calisia parlò di nuovo.
-Lektar non è l’unico a non riuscire a controllarsi.
Jasper la fissò con aria interrogativa. –Che cosa intendi?
Si scambiarono una lunga occhiata, e Jasper capì appieno a cosa Calisia si riferisse.
Calisia tornò a fissare l’invenzione. –Sei stato fortunato che sia successo
quel che è successo e nessuno abbia notato niente. Ma la prossima volta cerca
di controllarti.
Calisia si scostò i capelli dalla fronte. –E’ già
abbastanza difficile avere a che fare con i Sayan solo
a causa del loro normale temperamento. Non possiamo permetterci di dar loro
altri motivi per volerci sterminare.
Jasper annuì per la prima volta con sincero pentimento. Era stato sciocco ed
avventato, a colpire il ragazzo il giorno prima, e sapeva che il fatto fosse
stato provocato non costituiva un’attenuante.
La loro era una guerra di strategia, e solo questo era stato il punto che aveva
loro concesso di non cedere durante tutti quegli scontri. Non potevano
permettersi di rendere furiose quelle bestie, perché ancora non conoscevano
quanto forti potessero essere se mosse dall’odio puro e semplice. Ma ciò che
più importava, più della pericolosità della forza dei Sayan,
più di quella donna e della debolezza di suo fratello, era che gli Skatos dovevano riuscire a mantenersi calmi.
Non potevano permettersi di lasciarsi guidare dalla vendetta, e quello che lui
aveva fatto il giorno prima ne era stata la riprova.
Forse se il ragazzo fosse stato solo un animale feroce come sempre la donna non
sarebbe fuggita, e Lektar non avrebbe esitato a
lanciare l’allarme.
Ancora non si spiegava come poteva essersi liberato il ragazzo dagli anelli, e
per questo aveva maledetto Lektar che si ostinava ad
evitarlo.
In conclusione, comunque, Jasper aveva commesso un errore.
Un errore che sebbene gli costasse molto ammetterlo, non doveva ripetersi in
alcun modo.
Jasper si avvicinò alla macchina e Calisia lo seguì.
Si fermò a guardare l’invenzione, ora che gli scienziati si erano allontanati
per consumare il proprio pasto.
Jasper sollevò una mano fino a toccare la scritta nera. Quella parola che
conosceva ma non aveva mai provato dentro di sé.
-Dobbiamo fare in modo di rendere innocua quella donna- disse Jasper,
percorrendo con un dito le lettere calcate e tondeggianti, senza sapere che
quel suo pensiero, a modo proprio, esprimeva una speranza.
-Non possiamo permettere ai Sayan di servirsi di
quella donna.
Mentre la donna si cambiava all’interno della capanna, Spartack
si appoggiò allo stipite dell’uscio e osservò il villaggio in fervente
attività.
Le carcasse malate catturate da Bardack e i suoi
erano state gettate dentro al fuoco, il puzzo era terribile ma sempre meglio
delle malattie, e alcune donne stavano sedute poco lontano dalla conceria, intente a cucire nuove pelli per i Sayan
che il giorno prima avevano perso le proprie trasformandosi in Ozaru.
Celia, Talora e Vegeta non erano più vicino al fuoco, e Spartack
sperò dentro di sè che Celia guarisse presto al polso
e Vegeta aspettasse prima di tornare ad allenarsi.
Il ragazzo stava bene, ma non avevano mai usato le pillole degli Skatos e non sapevano quanto fossero efficaci. Era meglio
attendere qualche giorno, prima di tornare a combattere come sempre.
Se Vegeta non avesse mostrato sintomi negativi avrebbe dato una pillola anche a
Celia. Avevano bisogno che si allenasse, perché dallo sguardo di Vegeta quando
era tornato mezzo morto dalla città del Blu, Spartack
intuiva bene che la fine di quella guerra era ormai più che prossima.
Qualunque cosa di bene o male ciò potesse voler dire.
La giovane, perché sebbene non avesse molti anni in meno di lui così sembrava
dalle fattezze del corpo, terrestre uscì dalla capanna con fare incerto.
La pelle che aveva indosso era palesemente troppo grande per la sua statura e
corporatura, ma lei era riuscita con una serie di nodi strategici ad appuntarla
nei punti giusti, almeno quel tanto che bastava perché l’indumento non le
scivolasse via di dosso.
Era una donna piuttosto attraente, Spartack dovette
ammettere, e benché fosse sporca ma comunque meno sporca della donna media tra
i Sayan, si vedeva che aveva fino a quel momento
condotto un’esistenza agiata.
Aveva le mani lisce, se n’era reso conto nel momento in cui le aveva sfiorato i
palmi passandole la pelle.
I Sayan che vivevano nel suo mondo dovevano essere
fortunati. Quella donna aveva lo sguardo di una persona dura ma non egoista. Di
qualcuno capace di comprendere che certe volte non esistono buoni o cattivi.
-Bulma?
Lei si stava sistemando la spallina destra della pelle. –Sì?
-Quel Vegeta, il tuo compagno, perché l’hai accolto in casa?
Lei sollevò lo sguardo stupita. Lo guardò per un istante. Poi con noncuranza
scrollò le spalle e tornò ad armeggiare con la pelle.
-Casa mia è molto grande. E lui aveva bisogno di una casa.
Senza che lei se ne accorgesse, Spartack sorrise
amaramente.
Sarebbe stata una fortuna, atterrare sulla Terra invece che su Eos.
Non riuscivo a comprendere perché gli Skatos fossero
così recalcitranti a convivere con i Sayan.
Passeggiando per il villaggio mi resi conto che i Sayan
non erano come li avevo immaginati. Erano rozzi, rumorosi, ovunque c’erano
bambini che correvano e si rotolavano per terra, donne che vociavano e
chiamavano i figli, uomini che si allenavano a combattere o rimettevano in
piedi le capanne crollate per la pioggia e il vento, ma nessuno di loro sembrava
un mostro.
Erano folcloristici e inusuali, tendenzialmente violenti, ma non le bestie sanguinarie
che mi Lektar mi aveva detto.
Grazie alla tecnologia degli Skatos i Sayan sarebbero potuti vivere meglio, adattarsi nei
costumi, magari anche evolversi.
Erano sanguinari perché sfiniti dalla fame, dal buio, dal clima malsano e
asfissiante. E dalla consapevolezza che gli Skatos,
invece, vivevano tranquilli alla luce del Sole (o quel che era), con cibo in
abbondanza e delle vere case.
Sebbene fossi in quel villaggio da meno di un giorno, il dramma di quelle vite
mi toccava profondamente. I bambini
erano sporchi, coperti di cicatrici, gli adolescenti non facevano altro che
picchiarsi tutto il giorno. Era una miseria che in vita mia mi era stata
sconosciuta, la condizione di uomini costretti a vivere come animali.
Accanto a me Spartack non parlava. Ogni tanto mi
indicava qualche capanna, per dirmi dove stesse la dispensa, il bagno pubblico,
o la riserva di legna per il fuoco. Per il resto mi lasciava libera di
contemplare, e rendermi da sola conto di quanto misera fosse la loro
condizione.
Come potevano gli Skatos permettere tutto ciò? Anche
se quella era casa loro, come potevano dormire sapendo della miseria che
albergava fuori dalle proprie mura?
Pensai che forse da bambino anche Vegeta aveva avuto lo sguardo di quei
bambini, e da adolescente lo sguardo ardente e pieno di rancore dell’altro
Vegeta di quel mondo.
Era qualcosa che mi era sconosciuto. E ora che lo conoscevo faceva troppo male,
per lasciarmi indifferente.
-Perché mi hai fatto fare questo giro?-dissi a Spartack,
quando fummo giunti alla sua capanna dopo aver percorso tutto il villaggio.
Mi aspettavo una risposta vaga ma lui mi fece cenno d’entrare e di sedermi di
nuovo sulla sedia. Ubbidii con indecisione.
-Hai visto come viviamo.-disse Spartack, rimanendo in
piedi di fronte a me.
In quel locale improvvisamente mi sentii braccata in trappola. –Sì.
-Ti sembra giusta, dopo aver visto come vivono gli Skatos,
la condizione di noi Sayan?
Dovetti ammettere che: -No, non è giusto.
Spartack allora si scostò, avviandosi verso una
specie di armadio per aprire una delle ante.
Ne tirò fuori dei fogli e degli oggetti che sembravano di metallo.
-Non ti ho fatto fare il giro del villaggio per divertirti, ma per farti capire
perché stiamo combattendo.
Spartack prese il tavolo per un’estremità e la tirò
con forza facendolo arrivare davanti a me.
Mentre distendeva i progetti sopra il tavolo, capii il motivo di quel giro.
-Ti ho fatto vedere il villaggio perchè volevo che
capissi, prima di dirti cosa ho deciso della tua sorte.
Il progetto era di un’arma che riconobbi essere la spara anelli da cui avevo
salvato l’altro Vegeta.
–E quale sarebbe la decisione?
E Spartack mi guardò con un’espressione così
guerriera da ricordarmi il mio Vegeta.
-Che non ti uccideremo e ti aiuteremo a riprendere la tua macchina.
Fissai il progetto e poi di nuovo Spartack.
-Ma solo se ci aiuterai a sconfiggere gli Skatos.