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Autore: Glenda    22/09/2008    2 recensioni
Storia completata. Grazie a tutti coloro che ci hanno letto e incoraggiato!
Riusciranno i cinque della squadra dell'Unità di Analisi comportamentale a trovere il killer che sta mietendo vittime nella piccola Sand Spring, rivestendo i delitti di un misterioso alone religioso?
Genere: Azione, Introspettivo, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I desideri dei morti

 

Capitolo 6

Il dolore del mondo

“A cosa pensi che si riferiscano?” domandò Hudson accendendosi una sigaretta.
Si trovavano in auto.
Guidava Hudson, come al solito.
Tee fece spallucce.
Poteva essere tutto o nulla…che qualcuno cercasse di intralciare le loro indagini?
“Forse il reverendo ha qualcosa da nascondere” buttò lì Murphy.
Hudson non rispose.
Per il buon proseguimento delle indagini si erano dati una tacita tregua. Usavano un tono colloquiale, ma la tensione era ancora palpabile.
Tee sapeva che prima o poi sarebbero giunti alla resa dei conti…l’unica incognita era il quando.
Ripensò all’espressione assorta di padre Tamas che pregava poco prima che arrivasse e poi al suo volto nell’accorgersi che qualcuno aveva osato insozzare la sua preziosissima Chiesa.
L’avevano lasciato in compagnia di una fedele parrocchiana sopraggiunta poco dopo l’avvenimento che aveva sconvolto il prete.
Alle sue urla erano accorsi anche altri parrocchiani, una piccola folla peraltro.
Probabilmente quanto accaduto quel giorno sarebbe diventata la notizia più discussa dall’intera cittadina.
Era sempre così nei piccoli paesi, si disse Tee.
E anche questa era un certezza, così come lo era il fatto che non si sarebbe più fatto coinvolgere così tanto da quanto successo la sera prima.
Doveva concentrarsi sul caso, solo su quello.
Doveva pensare e anche in fretta o ci sarebbero state altre Mary e Trisha o altri Malcom Denver.

Davanti alla centrale di polizia, Tobias li aspettava, in piedi, all’ingresso.

“Novità?” chiese subito Tee, ancora con una mano sul volante

“Novità” fece eco il ragazzo.

Li precedette silenziosamente fino alla sala riunioni, un passo avanti a loro, come se volesse scortarli in quel breve percorso. Poi aspettò che si sedessero, e, appena ognuno ebbe preso posto, andò a prendere una sedia e si sistemò alle spalle del supervisore, un po’ in disparte.

“Dunque, ecco qua un bello scoop!” esordì Risa, alzandosi in piedi e proiettando sulla parete una slide che schematizzava cronologicamente le biografie dei due scrittori.

“Come potete vedere” proseguì Avril, mente la collega indicava con una stecca la data 1999 sulla proiezione “Analizzando le vite della vittima e dell’autore del testo ritrovato in casa di Mary Summers, si può evincere un dato di fatto: l’anno in cui sembrano esaurirsi le notizie biografiche sull’uno, è lo stesso prima del quale si fatica a trovarne dell’altro...”

“Consultando le case editrici per cui lavoravano i rispettivi scrittori...”

“E svolgendo una ricerca approfondita dei dati anagrafici di entrambi...”

“Siamo giunte ad un‘unica, possibile conclusione: Don Harper e Alex Zarowsky sono un solo uomo”

“Ovvero, Zarowsky è il nome che Don Harper ha cominciato ad usare dal momento in cui ha cominciato a pubblicare per la Hastra, la casa editrice di Oklahoma City. Ma non si tratta di uno pseudonimo, come avevamo pensato all’inizio: Zarowsky, infatti, è registrato con questa identità anche all’indirizzo di residenza, mentre di Don Harper non si sa più nulla: ha pagamenti in sospeso dal 1999, nella sua residenza di Dallas sono stati staccati luce, gas e telefono. La piccola casa editrice per cui lavorava, la York, non esiste più, è fallita due anni fa: si occupava di teologia, occultismo e filosofia. Ho svolto anche una perizia calligrafica sulle firme dei due autori: possono certamente appartenere alla stessa persona”

Hudson ascoltava compiaciuto: gli avevano parlato bene dell’agente Spencer, era dotata di una cultura vastissima, e, a quanto pare, era esperta anche nell’analisi della scrittura. Almeno qualcuno, in quella squadra, sembrava avere la testa completamente sulle spalle.

La ragazza continuò

“Mi sono informata sui parenti di Harper ancora in vita: non era sposato e non aveva figli, i genitori sono morti in un incidente quando era ancora un bambino. Ma ha uno fratello, Jhon Harper, che vive a Dallas. Il fatto che non ne abbia mai denunciato la scomparsa è sospetta, non trovate?”

“Direi proprio che dobbiamo farci una chiacchierata...” fece Tee “Fai preparare il volo, Avril. Si va a Dallas, domattina. Io e Tobias ci occuperemo di Jhon Harper; tu rintraccia il titolare della vecchia casa editrice e fissa un appuntamento con lui. Non solo: procurati tutta la bibliografia di Harper: dobbiamo leggere quei libri”

Avril annuì

“Già fatto. Sono solo tre testi, ma sono fuori catalogo ed è difficilissimo reperirli”

“Ragione di più per contattare l’editore”

Si rivolse a Risa

“Tu rimarrai con l’agente Harris. Voglio che indaghiate sul passato di padre Tamas: voglio sapere tutto di lui. Ha ricevuto una minaccia, oggi. Devo sapere se ha dei nemici, degli scheletri nell’armadio, qualunque cosa che possa fornirci una pista. Qualcosa da aggiungere?”

La domanda era rivolta a Hudson.

No, non aveva nulla da aggiungere. Tee pareva aver ripreso tutta la sua lucidità, e teneva in mano la situazione con quel suo atteggiamento volitivo e sicuro di sé.

Ma qualcosa non andava.

La disinvoltura, la grinta...erano solo apparenti. Lo nascondeva bene, ma quel giorno Tee Murphy era emotivamente instabile. E Rendall...così strano...così ostentatamente silenzioso, che sedeva dietro di lui come un’ombra e sembrava quasi voler assorbire quel disagio, come se la sua presenza-assenza potesse fargli contenitore...

Ecco, ecco cosa non andava in quella squadra.

Tutto ruotava intorno a Tee Murphy, e Tee Murphy si era circondato di individui di grande intelligenza emotiva, ma non ancora in possesso degli strumenti necessari a mantenere quel distacco e quell’autocontrollo che un buon profiler deve avere.

“Se tutto vi è chiaro, facciamo uno stacco. Lavorate al caso ininterrottamente dall’alba: avete tutti bisogno di una cena tranquilla e di riposo”

***

Era appoggiato allo stipite della finestra, lievemente inclinato, con le mani in tasca.
Guardava fuori.
Non avevano preso alloggio in centro.
Forse non c’era nemmeno un hotel in centro, per quanto si potesse definire tale il cuore di quella cittadina dell’Oklahoma.
Tee Murphy era intento ad allungare lo sguardo sul paesaggio circostante, al di là dei tetti spioventi delle case coi loro balconcini ricoperti di fiori e ancora oltre, là dove si accennava qualche macchia di verde, la campagna.
Aveva sempre trovato rilassante osservare il panorama offerto dalla natura, o da quello che ne restava.
Così come lo incantava rimanere ore a guardare la varia umanità che si avvicendava sotto il suo sguardo, al riparo dietro una finestra.
Gli capitava di farlo spesso, da ragazzino; lo trovava divertente, come un gioco che poteva anche non finire mai.
Suo padre, quando c’era, lo trovava strano
Il suo appartamento a Washington si trovava all’incrocio di due strade.
Non era una caso.
Qualche volta, la sera, gli capitava di sostare sul balcone, godendosi il momento in cui la città si moltiplicava in mille luci colorate e le persone schizzavano ovunque, dirette verso una meta che solo loro conoscevano.
E anche adesso era lì intento a volgere il suo sguardo verso qualcosa che non poteva afferrare.
Non si sentiva come quando era successo a Connor.
No, non era quella sensazione.
Era diverso.
Come sempre, come ogni cosa. Era diverso.
Forse aveva ragione Claire.
Forse, semplicemente, l’aveva presa troppo sul personale.
E questo non era mai un bene.
Aveva educatamente declinato l’invito a cena col resto della squadra col pretesto delle scartoffie da compilare.
Loro avevano capito e non avevano detto niente.
Non era da lui comportarsi così, solo aveva bisogno di tempo per riflettere, anche se non aveva ancora ben chiaro su cosa esattamente.
Non era il caso a preoccuparlo, cioè anche quello, ma non solo.
Si rendeva conto che c’era altro, qualcosa che veniva da lontano e forse nemmeno riguardava quanto accaduto a Sand Spring, qualcosa che non avrebbe mai ammesso.
Si stiracchiò un po’ le braccia, rimanere in quella posizione gli aveva fatto formicolare il braccio.
Si voltò verso il tavolino al centro della stanza dove aveva appoggiato gli incartamenti del lavoro.
Alle sue spalle vi era appeso un quadro a olio piuttosto dozzinale di una fattoria immersa nella campagna. Tipico paesaggio del luogo, gli hotel dovevano essere pieni di quel tipo di oggettistica.
In quel momento bussarono alla porta. Aprì.
“C-ciao!”
“Tobias...”
Il ragazzo si fece largo nella camera, senza aspettare che lui lo invitasse ad accomodarsi, ed andò a posare sul tavolino della televisione una bottiglia di Wiskey. Tee riconobbe l’etichetta: J & B la sua preferita.
“Hai mai bevuto in servizio?” domandò, tirando fuori da un sacchetto di plastica due bicchieri e il cavatappi (aveva pensato proprio a tutto!) “I-io...ho assunto psicofarmaci in servizio. Più...di una volta. E tu me lo hai lasciato fare...“
Era strano quella sera, Tobias.
Era strano tutte le volte che l’emotività era più forte di lui: come quando lo aveva invitato per la prima volta a entrare nella sua strana casa piena di colori, come quando si era presentato alla sua scrivania per rassegnare le dimissioni, e lui le aveva stracciate sotto i suoi occhi.
Era strano tutte le volte che si metteva in gioco: tutte le volte che abbassava le difese per permettere a lui - a lui soltanto - di entrare nel suo mondo.
“Un giorno mi hai detto che il wiskey per te è un modo per staccare la testa, ricordi?” gli porse uno dei due bicchieri “Io credo...che a volte siamo troppo deboli di fronte alle cose. Lo siamo per natura, per condizioni, o per eventi che ci sono capitati nella vita. Non è giusto doverci imporre di essere forti a tutti i costi. Bisogna anche poter accettare di essere tristi...accettare che va bene così...che...non ci si può fare niente...e poterlo dire...e dirlo forte...”
Il bicchiere era sempre sospeso a mezz’aria, e tremava lievemente nella sua mano
“...se vuoi...puoi dirlo a me...forte quanto vuoi. E se non vuoi...puoi bere questa bottiglia...Non so se serva a star meglio. Ma questa notte sarà passata, e qui ci sarò io...”
Tee non riuscì a reprimere un breve sorriso.
J & B per tuttì, pensò distrattamente, passandosi una mano sulla nuca.
Poteva aspettarsi di meglio di un buon whiskey e un amico con cui trascorrere la serata?
“Vedo che sei organizzato” esclamò accennando al bicchiere nella mano tremante del giovane. Probabilmente ha deciso questa cosa tutta d’un colpo, pensò Tee invitando Tobias ad accomodarsi sulla sedia di fronte al tavolo.
Poi prese posto anche lui afferrando la bottiglia e versando il liquido caldo nei rispettivi bicchieri.
Tacque per un po’ osservando le increspature del liquore attraverso il vetro trasparente, poi guardò di nuovo Tobias ed esclamò “ e per rispondere alla tua domanda, no, non ho mai bevuto in servizio...questa potrebbe essere la prima volta, ma non diciamolo ad Hudson, ok?”.
Dopo di che, con un breve schiocco del bicchiere contro quello dell’agente Rendall, diede una lunga sorsata.

Sì, decisamente era contento che Tobias fosse lì con lui, whiskey o non whiskey.
Non era nella sua natura, crogiolarsi troppo a lungo in quello stato d’animo.
Dopotutto non era il solo responsabile di quello che era successo a Malcom.
Posò il bicchiere con cautela

“ti ringrazio sai” cominciò a dire “prima di adesso nessuno aveva cercato di..uhm consolarmi con una bottiglia di whiskey. Hai avuto proprio una bella idea” fece una breve pausa “sono sicuro che...”

Si bloccò all’istante vedendo Tobias vuotare il bicchiere di un fiato e diventare più o meno del colore di un pomodoro maturo.
Istintivamente si alzò con un balzo, senza sapere bene nemmeno lui cosa fare in quel caso.

Il collega tossì più volte, strizzò gli occhi che erano diventati tutti lucidi, e rise:

“Scusa!” esclamò “Non ho mai bevuto prima...tranne lo spumante a capodanno!”

Tee sollevò le sopracciglia: effettivamente, già diverse volte Tobias aveva declinato l’invito ad un brindisi e si era accontentato di una delle sue tisane, che - diceva - lo rilassavano. Avrebbe dovuto pensarci.

“E come mai hai deciso di darti al tuo primo wiskey proprio in servizio, e in un postaccio come questo? Avresti potuto almeno approfittare di un’occasione più importante!”

Tobias sorrise, versando il secondo giro nel bicchiere di Tee.

“Perché volevo farti ridere” disse, con una naturalezza disarmante.
Tee lo fissò per un momento interdetto e poi scoppiò in una sonora risata.
Almeno era riuscito nel suo intento: questo era sicuro!
Quando si fu ripreso, sempre col sorriso sulle labbra esclamò

“Oh Tobias…” ebbe un altro eccesso di risa “...sei davvero incredibile!” e nel dirlo battè forte con la mano sul tavolo, un gesto che aveva visto fare tante volte ai banconi dei pub di origine irlandese...un gesto che ormai gli veniva abituale.

“Incredibile...” fece eco Tobias “...ma esistono cose incredibili? La sola cosa davvero incredibile è pensare che si possano trovare cose incredibili. Gli uomini, quando li analizzi troppo, sono banali. Anche nelle crudeltà. Il nostro S.I...è solo una delle tante schegge impazzite che ci camminano intorno. La pazzia è la cosa più banale che esista...”

Buttò giù un altro bicchiere, pieno fino all’orlo, stavolta con maggior disinvoltura.

“Mi dispiace” disse, d’un tratto “Mi dispiace per Malcom. No, scusa. Non sono le parole giuste. Mi dispiace per l’eco che questo fatto ha avuto in te, e mi dispiace anche per quello che ha avuto in me, perché in realtà a me non interessa, davvero, per me è solo uno sconosciuto come un altro, ma quando sento che tu soffri per il dolore del mondo, io non riesco a non sentirlo gridare...”

“Il dolore del mondo...?”

“Sì. Il dolore del mondo, che, quando non è mio, mi passerebbe accanto inosservato se non avesse una risonanza dentro di te. Tu non sei un poliziotto come gli altri, che riesce a stare distante, ad adattarsi al fatto di svolgere un lavoro. Tu sei presente al dolore del mondo. No, anzi. Tu esisti per il dolore del mondo. E’ come se tutto il dolore del mondo facesse eco in te, e tu lo lasciassi risuonare finché non defluisce, risuonando sempre più piano...“

Tobias buttò giù il terzo bicchiere.

Sentiva di non essere molto lucido. Ma andava bene. Andava bene così.

“Una volta, ti ricordi, mi hai mostrato la medaglietta che porti al collo: San Giuda, patrono delle cause perse. ‘Per ricordarmi che le nostre non lo sono’ hai detto. Ma non è così. A te importavano proprio le cause perse. Ogni causa persa, ogni sofferenza abbandonata per strada: tu gli dai un posto, ed è sempre il posto giusto, perché tu non sei solo presente al dolore del mondo, ma era anche capace di gestirlo senza farti sopraffare“

La testa girava intorno alle pareti della stanza. Le pareti della stanza si chiudevano su di lui.

“Sei strano...” cantilenò, stendendosi sul letto, con le braccia allargate e gli occhi annebbiati “Sei strano...! Perché sei venuto qui? Perché hai deciso di lavorare nell’FBI...? Tu non hai la faccia da FBI. Potevi fare mille cose: il medico, il missionario, l’insegnante, il difensore della gente che soffre...Perché proprio l’FBI?”

Perché proprio l‘FBI.

Quella era una bella domanda.
In realtà, se ci pensava bene, non c'era nient'altro che avrebbe voluto fare o desiderato di fare.
Certo, quando aveva otto anni aveva sognato di fare il pompiere, ma una volta cresciuto...
“Sai” cominciò Tee “quand'ero all'accademia ci facevano spesso questa domanda, i superiori...e la risposta invariabile era...” si prese un attimo di pausa e poi con un finto tono baldanzoso esclamò “per servire e proteggere...! Già...”
Bevve un sorso, poi proseguì

“in realtà, dopo tutto questo tempo non so più...” si interruppe , come per sforzarsi di ricordare qualcosa, inutilmente “..buffo sai, ora che me lo chiedi, dopo tanti anni in indagini e casi, non ti saprei dare una risposta ....”
Osservo per in momento Tobias che combatteva contro i fumi dell'alcol

“forse sono io che non sarei più in grado di fare altro, tu sei giovane...” gli diede ancora un'occhiata, non ben sicuro che lo stesse seguendo “forse, dopotutto non lo faccio per qualche nobile scopo, ma solo per me” terminò con un lungo sospiro.

“Non, non per te...“

La voce di Tobias era lenta, distante

“...tu ti prendi cura...tu hai cura di...” chiuse gli occhi, ci si appoggiò sopra le mani a coppa, come per proteggersi dalla luce “...Ti ricordi quella notte? Tu mi hai guardato e hai visto la parte di dolore del mondo che c‘era in me...e non te ne sei più andato. Ma sei strano. Sei strano...”

Anche quella notte era così annebbiato, ma non era stato per colpa del wiskey.

Quella notte, era stata l’angoscia che si portava dentro da tutta la vita a avvolgergli il cervello. E lui, invece di indagare, invece di fargli domande, gli aveva confidato la propria, e allora aveva saputo che Tee Murphy - il supervisore che sapeva prendere tutti per il lato giusto, e che sapeva trovare il lato giusto di tutte le situazioni - da un certo momento in poi della propria vita, aveva portato con sé la morte come un bagaglio. Un bagaglio da cui aveva scelto di non separarsi, e che gli aveva aperto gli occhi sul dolore del mondo.

“...Tu soffri per ciò di cui non puoi prenderti cura, ed io mi ubriaco insieme a te perché non ti ho fatto il profilo, e senza farti il profilo non riesco a starti vicino...“

Tobias aveva gli occhi offuscati: sfumato come una dissolvenza, guardava Tee sorridere.

“...io sono bravo a fare i profili. Perché tutti siamo pazzi. E la pazzia è banale. Ma tu forse non sei pazzo. Per quello sei strano. E non vuoi che ti faccia il profilo e quindi io...” sollevò una mano e la mosse su e giù, in un gesto di noncuranza “...non lo so. Ho bevuto troppo, Tee. Ti voglio bene.”

Si girò su un lato e nascose la faccia tra l’infossatura dei due cucini.

E tutto ad un tratto Tee pensò che forse gli avevano assegnato una camera doppia immaginando che potesse cercare compagnia, e lui si ritrovava lì come un rimbambito a guardare il suo collega crollare al terzo bicchiere.

Forse era così, forse era “strano” come sosteneva Tobias, posto che le parole di un ubriaco fossero attendibili.
Ad ogni modo su una cosa si sbagliava.
Quella notte l'aveva aiutato perchè...ma ci doveva essere una spiegazione per tutto, in fondo?
“Hai ragione, sono strano. Ora dormi” sussurrò piano, poi si alzò, prese una coperta dall'armadio e gliela posò sulle spalle.

****

Tobias sedeva sul sedile del Jet, massaggiandosi le tempie.

Avril si accomodò accanto a lui.

“Anche stanotte non hai dormito” constatò. Nella squadra, tutti conoscevano la difficoltà dell’agente Rendall ad adattarsi alle stanze d’albergo, se non erano fatte come diceva lui. Di solito, si attivava per avere una camera con la carta da parati ai muri: gli bastava per riposare tranquillo. Ma se le pareti erano spoglie, specie se imbiancate di fresco, passava regolarmente le notti insonni.

“Ho dormito” la rassicurò lui “Ho solo mal di testa”

La sbronza della sera prima pesava sulla sua fronte come il piombo. Ed era pensieroso. Perché Tee non era ancora arrivato? Quando si era svegliato nella sua stanza, quel mattino, non lo aveva trovato: aveva creduto che avesse preceduto tutti, come faceva quasi sempre. Invece non c’era.

“Ha il telefono spento” Hudson era innervosito: avrebbero dovuto partire già da mezz’ora “Dove diavolo si è cacciato? Non è responsabile che un supervisore non sia reperibile...!”

“Vedo che lei non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi che possa essergli capitato qualcosa” fece Avril, seccamente. Il suo intento era solo quello di provocare, ma le sue parole fecero impallidire Tobias.

“Chiamo l’agente Harris!” esclamò, saltando in piedi e cercando in fretta il numero. Aveva visibilmente cambiato espressione “e dai...rispondi...rispondi...”

Mervin sbuffò in modo sonoro.

“E’ sempre così nevrotico?”

Si sentiva davvero a disagio di fronte alle stranezze di quella improbabile squadra.

“Solo quando non c’è Tee...” spiegò Avril.

“Quando non c’è Tee...” fece eco Hudson, atono, sprofondando, rassegnato, sul sedile “C’è almeno un agente, qui dentro, dotato di autonomia in assenza di supervisore?”

Avril stava per ribattere, quando la voce di Tobias la fermò.

“Agente Harris! Sono Rendall! Lei per caso...” intaccò “...l’agente Murphy è lì? Dobbiamo partire per Dallas. Lo ha visto?”

Gli occhi dei colleghi erano rivolti a lui, mente attendeva la risposta.

“Ah...Sì...”

Annuì e il suo viso si rilassò.

“Ho capito. Stamattina...” una lunga pausa “Lei non pensa? Io credo proprio di sì, invece...”

Attaccò.

“Allora?”

“Allora vado”

Avril sollevò un sopracciglio. Hudson li incurvò entrambi.

“Vai dove, Rendall?”

“A prendere Tee” disse il giovane agente con tranquillità “C’è stata la sepoltura di Malcom Denver, stamattina. Lo ha saputo poco fa...”

“E lui...” Mervin stentava a credere a quello che aveva appena sentito “E LUI SE NE VA AL FUNERALE DELLE VITTIME DURANTE IL SERVIZIO?”

Ma Tobias stava già scendendo la scaletta e non rispose.

*****

L’officiante aveva terminato la breve cerimonia funebre che aveva accompagnato la sepoltura di Malcom.

Ad assistere al rito non c’era nessuno all’infuori di Tee, dell’uomo che stava finendo di leggere qualcosa dal suo libricino e dell’addetto del cimitero.

L’agente Murphy non si aspettava che sopraggiungesse nessun altro e forse era meglio così.

Non avrebbe saputo come dire ai genitori di quel ragazzo che il loro figlio si era suicidato mentre era sotto la sua custodia.

Già sarebbe stato abbastanza duro dir loro che era morto…

Non che fosse un novellino in questo genere di cose. Di brutte notizie ne aveva date e tante anche, forse persino peggiori di questa, ma restava il fatto che si sentiva responsabile.

E nessuno sarebbe riuscito a fargli credere il contrario.

Con un breve cenno del capo l’uomo che poco prima stava parlando lo lasciò ai suoi pensieri.

Se non altro almeno quello era un posto tranquillo.

“Starai bene qui” mormorò con un filo di voce.

In quel momento sentì sopraggiungere qualcuno.

Tee sorrise. Era Tobias.

Doveva aspettarselo.

Aspettò una sua parola, una domanda, ma lui non disse niente e si avvicinò alla fossa dove era stata da poco calata la bara. Solo allora Tee si accorse che aveva la custodia del violino con sè.

Tirò fuori con lentezza il suo strumento e cominciò a suonare.

Una melodia limpida, delicata, triste.

Bellissima.

Chiuse gli occhi per assaporare quelle note.

E a quel punto arrivarono.

Non aveva pianto al funerale di Connor.

Lo shock e il dolore per la sua perdita si erano tramutati subito nei dettagli per la cerimonia, negli amici che venivano a portargli conforto e poi di nuovo nel lavoro. Questo l’aveva tenuto in piedi, più o meno.

Pensava che se fosse riuscito a dimenticare, non avrebbe più fatto così male.

E invece adesso piangeva e non c’era niente che potesse impedirglielo.
Ma non aveva voglia di andarsene, anche se sapeva che presto avrebbe dovuto farlo.

C’erano indagini da svolgere, luoghi dove andare, gente da interrogare...il suo lavoro.

Quello che l’aveva tenuto lontano da casa.

Il pretesto che aveva usato quando le cose avevano cominciato a mettersi davvero male.

Appena la melodia cessò, trasse un profondo sospiro.

“Avevo un fratello, forse te ne ho già parlato...” lasciò in sospeso quella breve affermazione “Malcom mi ricordava un po’ lui”.

Scrollò le spalle “credevo, insomma, di aver superato la cosa” si passò una mano sulla nuca velocemente, un po’ imbarazzato “e invece eccomi qui, sulla tomba di un ragazzo morto perché...non sono stato abbastanza bravo”.

Alzò una mano per fermare qualsiasi protesta di Tobias “no, non dire niente, è così”.

“Sai, non...non credevo che mi sarei trovato di nuovo in una situazione simile. A dover seppellire un ragazzo così giovane...” si fermò indeciso se continuare o meno.

Cominciava a sollevarsi una leggere brezzolina.

Tacque a lungo, ma Tobias non chiese nulla.

“Vuoi sapere cosa c’entra Connor con tutto questo?” domandò ad un tratto, velocemente, voltandosi verso di lui “vuoi ascoltarlo?” e nella sua voce e nel suo sguardo c’era una muta richiesta che voleva solo essere esaudita.

E prima ancora di rendersene conto stava già parlando “Vivevamo vicino a Pasadena, almeno per un po’...non ci fermavamo mai in un posto preciso troppo a lungo, cioè lui non riusciva a tenere un lavoro troppo a lungo...mio padre” per un momento si guardò le mani, poi riprese “ogni tanto se ne andava. Scompariva per giorni, così, senza una parola. Allora Connor veniva a svegliarmi tutto impaurito...io gli dicevo che non era successo niente, che sarebbe andato tutto bene e...sai una cosa?” fece una breve pausa “lui mi guardava con gli occhi spalancati e mi diceva bugiardo... bugiardo”.

Si concesse un sorriso amaro e si accese una sigaretta “proprio così...e quando Connor ha cominciato a stare male sul serio, non sono stato capace di aiutarlo. Ero troppo preso dal mio lavoro e non volevo vedere. Non ho voluto vedere niente finché non è stato troppo tardi. E lui è morto ”.

Era la prima volta che lo diceva ad alta voce. Fece un profondo sospiro “e adesso è accaduto di nuovo. Non riuscirò mai a perdonarmi per quello che è successo a questo povero ragazzo, così come non riuscirò mai a perdonarmi per Connor. Questa è la verità. Tu ieri sera hai detto un sacco di belle cose Tobias, ma non me le merito. Se le meritassi davvero ora non ci troveremmo qui”.

A quel punto fece per andarsene. Cominciò a discendere la piccola collinetta che portava al vialetto, quando sentì la voce di Tobias alle spalle.

“Purtroppo non siamo abbastanza per tutti” disse, percorrendo in pochi rapidi passi la discesa sdrucciolevole “E non siamo nel destino di tutti. Io credo che tu sia abbastanza per parecchia gente. Purtroppo non è nostra facoltà decidere per quale, e spesso finiamo per non esserlo per quelli che si amano. Magari, proprio perché sia amano, chissà. In ogni caso, se non altro sei abbastanza per me...”

Gli appoggiò una mano sulla spalla, sorrise.

“Hudson è arrabbiatissimo, sai?”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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