And I promise you, kid, I give so much more than I get
I just haven't met you yet.
- Michael Bublè
Alexis POV
L'inespressiva voce femminile proveniente dagli altoparlanti mi risvegliò, e altrettanto dovetti fare io con Susie, immersa in chissà quale mondo nelle sue amate ed inseparabili cuffie. Non me ne sorpresi.
Misi da parte il mio libro e l'iPod, controllando nervosamente che la cintura fosse ben allacciata, e così, chiusi gli occhi.
Odiavo prendere l'aereo: ecco, l'idea di essere sospesa a migliaia di chilometri dal terreno saldo e sicuro non mi allettava minimamente, a dirla tutta, mi spaventava a morte.
Quelle stesse persone che mollano valigie in mezzo alla strada e corrono, corrono, a volte fino a cadere, per abbracciare le persone che amano.
Sono i luoghi dove le persone si amano e non smettono di farlo, i luoghi dove ci si ritrova; ma quella volta, nessuno era lì ad aspettarci, tanto meno la mamma.
Adesso capisco perché mi diceva sempre che una bugia può cambiarti la vita.
Aveva ragione, le bugie creano dipendenza, come la droga, dopo che hai provato una volta non riesci a smettere, entri in un circolo vizioso senza via d’uscita.
Era vero, mentivo… mentivo a tutti, ma non avevo scelta, Susie aveva solo sei anni, era così piccola che non le bastava soltanto una figura paterna, aveva bisogno certamente di una mamma.
A quattordici anni si è abbastanza grandi per assumersi le prime responsabilità, ma non di certo il peso di prendere il posto di una mamma nella vita di una bambina ancora così piccina.
Dentro di me c’era uno stato di confusione a livelli massimi, non riuscivo a capacitarmi della sparizione di mia mamma, ero così devastata, tanto da continuare a ripetere di star bene e, alla fine, me ne ero convita. Le mie bugie erano diventate la mia realtà.
A scuola, i compagni e gli insegnanti iniziarono a trattarmi diversamente, le voci si erano sparse ed io ero diventata “quella senza mamma”, tutti erano improvvisamente carini con me, ma io non lo ero altrettanto con loro.
Una cosa era certa: non volevo la loro compassione.
Neanche con mio padre ho più lo stesso rapporto di prima, da quando mamma se ne è andata; non riesco neanche a cominciare un discorso con lui, lo evito, semplicemente.
L’ho sempre ritenuto colpevole di nasconderci qualcosa e l’ho escluso dalla mia bolla, ma Susie non mi capisce.
L’80% degli adolescenti che subisce una perdita grave come la mia, cadono in depressione, ma io no, anzi. Nella mia vita prese parte un periodo di apatia e freddezza che ancora non è finito.
Luke, il mio ragazzo, dice che ne sono diventata schiava, che ormai non comando più i miei sentimenti e che nemmeno voglio provarci, io mi limito ad alzare le spalle e cambiare discorso.
“Ehm, già, tu quanti ne
hai?” Farfugliai, con la mano davanti alla bocca.
“Diciotto, e credimi
se ti dico che non ne dimostri così pochi.”
“Che vuol dire?”
“Che se avessi saputo
prima che avevi solo quattordici anni, probabilmente non ti avrei chiesto di
uscire.”
Eccoci.
Sbiancai, tirandomi di nascosto un piccolo pizzicotto, forse perché non credevo alle mie orecchie, non poteva
averlo detto veramente.
Evidentemente Luke si
accorse della mia reazione scioccata, e sorridendo in modo buffo, continuò il
discorso.
“Ma sono seriamente
contento di averlo fatto!” Lui era fatto così, avrei dovuto capirlo.
Tirai un sospiro di
sollievo e senza pensarci, aprii bocca.
“Quindi non sei
pentito di essere qui?”
“Se fossi pentito di
certo non farei questo…”
Così mi baciò, rimasi
ferma. Era il mio primo bacio, ma poi ricambiai, e accidenti! Solo Dio sa cosa
ho provato. Un’emozione così forte da chiudermi lo stomaco solamente pensandoci.
I brividi mi percorrevano per tutta la lunghezza della schiena, per non parlare
della pelle d’oca che mi aveva rivestito le braccia e le gambe. Sarei voluta
restare lì per sempre, tra le sue braccia, come se niente potesse ferirmi
perché mi sentivo indistruttibile.
Ma come tutte le belle cose, dovetti staccarmi e tornare a casa.
“Ma sono ancora cosi
piccole, Evelyn, non puoi farti dare ancora qualche anno?”
“Alexis sei tornata!”
mia madre mi aveva vista. Ero nascosta dietro la porta ad origliare;
non ero solita a farlo, ma quella volta qualcosa nelle loro voci
proprio non andava.
“Suppongo di sì, sono
qua, cioè… insomma ci siamo capiti” mia padre mi guardò stranito mentre mia
madre sorrise come se avesse letto nella mia mente cosa stessi pensando.
“Vedi Greg,
io e tua figlia dobbiamo fare un bel discorsetto, da donna a donna,
vero Alexis?”
Annuii; le mamme spesso sanno le cose prima di
chiunque altro.
“Bene, allora io vado a prendere Susie al compleanno di Ashton, a dopo amore.” dette un bacio a
stampo a mia madre e uno sulla guancia a me, dunque uscì di casa.
“Allora Alex, com’è andata
la tua uscita con Meredith?”
“Ecco, ti volevo dire,
insomma, che... sonouscitaconLuke” dissi la fine della frase tutta di un fiato.
Mamma scoppiò a ridere come se lo sapesse già, o forse lo sapeva davvero?
“Amore le puoi dire
queste cose alla mamma, i messaggi sul tuo telefono parlano chiaro!”
“Come fai a saperlo?
Hai letto i miei messaggi?” Era impossibile essere arrabbiati con
lei, quindi il tono che in quel momento venne fuori era letteralmente
finto, ma infastidito.
“No Alexis, me
l’hai detto tu!”
“Ah bene, ho i miei
dubbi in ogni caso… ah e, mamma, vorrei dirti un’altra cosa”
“Dimmi”
“Io e Luke ci siamo,
insomma, baciati.”
“E ci sarai!” dissi
spontaneamente, fino ad abbracciarla.
All’aeroporto la gente si muoveva a blocchi creando un clima
così dispersivo da far girare la testa. Rischiai di inciampare più volte in
qualche valigia tirata a seguito, cercando una via d’uscita da quel caos
totale. Finalmente una di quelle porte automatiche si aprì davanti ai miei
occhi, lasciandomi inebriare da quell’aria fresca, unita all’odore di gas dei
taxi, dei pullman. Diversi uomini in giacca e cravatta tendevano la mano che
sorreggeva un cartello bianco con i rispettivi nomi delle agenzie e dei
clienti.
Io e Susie ci appoggiammo ad un muretto, così da aspettare la chiamata del
nostro vicino che ci avvertisse del suo arrivo.
Bingo.
Dopo pochi minuti per l’appunto lo schermo del mio vecchio iPhone, un catorcio,
posso giurare, iniziò ad illuminarsi mostrando la scritta “Sconosciuto”.
Sbloccai immediatamente il telefono e risposi.
“Si?” Una voce roca rispose dall’altra parte della cornetta.
“Sono davanti all’entrata del gate della US Airlines,
muovetevi.” Riattaccò.
Fortunatamente eravamo vicine e in men che mai arrivammo
davanti ad una Ferrari leopardata; il ragazzo all’interno indossava un paio di
Rayban neri, ed improvvisamente tirò giù il finestrino.
“Ciao, sono Justin.” Allungai la mano per presentarmi a mia
volta, ma chiuse nuovamente il finestrino. Io e Susie ci guardammo perplesse,
chiedendoci se fosse uno scherzo. Se lo era, beh, era proprio di cattivo gusto.
Abbassò nuovamente il finestrino: “Avete intenzione di rimanere lì impalate, o
caricate i bagagli e ci muoviamo ad andare a casa?”
Il maleducato di turno non poteva che capitare a noi,
pensai, conseguentemente lasciai perdere e caricai anche la valigia di Susie,
montando su quella macchina al dir poco appariscente.
Dopo 10 minuti di pieno silenzio, Justin si degnò di aprire
bocca, ma era evidente che avrebbe fatto meglio a tenerla chiusa.
“Sapete, sono venuto a prendervi soltanto perché mio padre è
il padrone dell’intera cooperativa, non fatevi strane idee”.
Solo Dio sa quanto odio quell’ultima frase, non so realmente
perché, ma solo a sentirla sclero: se mi sono fatta un’idea che secondo una
persona è strana è perché questa mi ha dato motivo di farlo. Continuai a
pensare tra me e me, fino a quando la macchina non si fermò davanti ad un’enorme
casa con un giardino talmente grande da poter sembrare un parco naturale senza
alcun tipo di problema.
“Bene, questa è casa mia e quella accanto è la vostra” Abbozzò
Justin.
Mi voltai leggermente per vedere dove saremmo finite io e Susie
per il resto dell’estate; la casa che mi si mostrò era sicuramente molto più
piccola di quella del moccioso maleducato e figlio di papà seduto davanti a
noi, ma superava di gran lunga le mie aspettative.
Due piani, mura color rosa chiaro, cinque finestre che davano sull’ampio
giardino, riuscivo persino ad intravedere un terrazzo sul retro, e forse,
qualche altra finestra. Da quello che mi aveva accennato l’agenzia immobiliare,
la casa al piano di sotto doveva essere composta da una cucina, un piano bar, ottimale
per le feste, la sala pranzo e il salotto; passando al primo piano ci sarebbero
state due stanze e una sala giochi, che avrei immediatamente trasformato in uno
studio.
Sicuramente una famiglia numerosa ci aveva precedute, e solo il pensiero della
famigliola felice mi fece riaffiorare i ricordi, così scossi la testa per ritornare
sulla terra.
Come d’incanto mi scontrai con due occhi color miele e il
mio stomaco trasalì. Suppongo fossero di Justin, che si era tolto gli occhiali
ed inconsciamente non ci avevo fatto caso.
Due occhi così profondi che se fossero stati blu avrebbero sicuramente fatto
invidia all’oceano, ma quel color miele gli donava, ci avrei messo la mano sul
fuoco, li rendeva misteriosi, un po’ come l’anima della persona a cui
appartenevano.
Dopotutto, per l’appunto, gli occhi sono lo specchio
dell’anima e quelli di Justin la dicevano lunga su di lui, erano occhi spenti e
freddi, che cercavano di nascondere i sentimenti invano e io lo sapevo bene, forse
perché erano proprio come i miei.
Le conseguenze di una sofferenza così grande portano via la vivacità
dell’anima, quindi la luminosità degli occhi; ma erano così belli, i suoi occhi,
che sarei stata ore a guardarli. Raccontavano una storia, la storia della sua
vita, della vita di Justin.
Lui rimase lì impalato, proprio come me, a fissarmi, il ghigno che aveva sulla
faccia scomparì, rilassando il volto.
Una voce femminile ci fece tornare dal mondo delle favole.
Una ragazza sui vent’anni cotonata e simile ad una barbie
era arrivata davanti a casa di Justin e continuava a chiamarlo cercando di fare
una voce più sexy possibile, ma che secondo me assomigliava di più ad una
lagna.
“Ora puoi anche scendere eh!” mi disse Justin scocciato
Un attimo prima era completamente intento a fissarmi, e subito dopo se ne esce così? E’ proprio
vero che gli uomini vengono da un altro pianeta.
La portiera era già aperta, Susie era scesa e mi aveva
preceduta con i bagagli.
“Stavi pensando a mamma quando ti sei incantata vero?”
“Sì.” Risposi.
Avevo mentito di nuovo, ma non volevo dare spiegazioni. Di
certo non mi sarei messa a fare una descrizione dettagliata degli occhi di
Justin, oltretutto perché avrei rivelato quanto stessi male a mia sorella, ma
anche a me stessa; ed ecco che, nonappena intravediamo l'auto avviarsi verso casa, mi vibrò insistente il cellulare.
Cosa vorrà ancora quel maleducato? Avevo sicuramente dimenticato
qualcosa in macchina, e chi lo avrebbe sentito più, poi.
Un giorno senza di te, e mi manchi di già. x
-Luke
Ma che andavo pensando, quella persona non poteva essere un tale sgarbato; no, infatti sicuramente mi sbagliavo.
Entrammo in casa e mi sentii ghiacciare le vene, la casa era
completamente vuota e anche se faceva un caldo assurdo, sentivo quasi il
bisogno di coprirmi dal freddo. C’era bisogno del mio zampino!
Io e Susie ci guardammo con complicità.
“Chiamiamo un taxi, andiamo ad un noleggio auto e poi all’Ikea?”
“Aggiungerei una fermata al McDonald’s” disse Susie.
In riposta le battei il cinque scoppiando a ridere.
Sarebbe stata una lunga estate.
Rieccoci qui!
Ebbene sì, siamo al primo capitolo solo dopo un giorno, ma
io e xbierestra non abbiamo potuto fare a meno di scrivere; innanzitutto
volevamo ringraziare chiunque abbia recensito il prologo, leggere suggerimenti
e apprezzamenti è ciò che amiamo di più.
Arrivando al dunque, cos’abbiamo qui? Finalmente le due
sorelle sono arrivate in California, e, ancora finalmente, ecco la prima
presentazione di Justin.
Niente accenni su Michael, per ora, ma anche lui arriverà presto, abbiate
pazienza.
Alla prossima? Speriamo!
Susie e Alexis