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Autore: Feds_95    02/09/2014    2 recensioni
“Nell’oscurità si udivano i lamenti delle donne, i pianti dei bambini e il clamore degli uomini…
Alcuni chiedevano aiuto, altri imploravano la morte…
Ma i più pensavano di essere stati abbandonati da Dio…
…e che l’universo fosse sprofondato nel buio eterno”
[...]
Guarda giù. E sopravvivrai.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Come in sir for you are weary
And the night is cold out there
Though our lives are very humble
What we have we have to share
There is wine here to revive you
There is bread to make you strong
There’s a bed to rest till morning
Rest from pain and rest from wrong
-Les Miserables-
 

Aiutami. Ti prego.

La supplica di quel ragazzo mi giunse debole e rotta. Il movimento delle labbra impercettibile.

Nessuno nei pressi del vicolo sembrava essersi accorto di lui. Le bande salirono in sella alle loro moto per svanire in una nuvola di polvere e pezzi di asfalto. I primi clienti si apprestavano ad entrare nelle Sexy-case.

Circospetta mi avvicinai al giovane. La testa  ciondolava in avanti, mentre le braccia giacevano abbandonate lungo i fianchi. Sotto di lui si intravedeva un pozza di sangue rappreso, coperto dalla sua corporatura massiccia.

Era svenuto. Oppure morto.

In ogni caso, problemi suoi.

Mi voltai e uscii dal vicolo, andando verso il portone del mio palazzo. Avevo fame e non vedevo l’ora di farmi una tanto sudata doccia, nell’attesa del ritorno di Paxton.

Sarei volentieri andata con lui, se non avessi già progettato di donare. Ma me l’avrebbe impedito, come sempre.

<< Non è un posto per te, Mallory >> si giustificava, facendosi subito serio.

Come se non avessi mai visto una sparatoria, uno scontro tra bande o un omicidio. Di quelli ne erano stati celebrati fin troppi nella Grande Piazza, poi trasmessi in tutti i settori nei maxischermi delle piazze.

Celebrare… come se vedere dei poveracci venire sbranati da cani come bestie o costretti ad uccidersi l’un l’altro come antichi gladiatori fosse uno spettacolo.

Ma per gli Angeli era così: volevano che fossimo grati per aver dato la giusta punizione a quei “disertori”, il cui unico vero crimine era stato l’istinto di sopravvivenza. Per la maggior parte erano ladri o rapinatori inesperti che si erano lasciati catturare facilmente. Lasciandosi alle spalle famiglia, moglie e figli.

Così come scattò la criminalità come arma contro la fame, allo stesse modo scomparve la… la…

Cavolo, la nonna lo diceva sempre… Avevo letto qualcosa a riguardo anche sull’Enciclopedia…

La… la… la… soli… solidarietà!

La solidarietà e l’altruismo si potevano definire estinti. Ormai ognuno si preoccupava della propria prosperità, di sopravvivere un altro giorno. Un altro giorno.

Guarda giù. E sopravvivrai.

Con la mano sulla maniglia, appena abbassata, l’odore di chiuso e di muffa che imbrattava l’edificio era così penetrante da stordirmi i sensi. Rimasi bloccata sulla porta a pensare.

Valeva davvero la pena? Valeva davvero la pena soffrire e sudare sangue per degli avanzi? Rischiare di morire ogni giorno per poter rivivere la stessa incertezza il giorno dopo? Andare avanti sapendo che quello sarebbe potuto essere l’ultimo della nostra vita?

Poche volte in tutta la mia vita mi ero posta quegli interrogativi: ero nata e cresciuta in quel mondo, in quell’industria eliminatrice di vite, e ormai sapevo che nulla mi avrebbe strappata a quelle mura, ogni secondo sempre più alte e insormontabili.

La Federazione è vita, è amore, è morte.

Questo recitava il Primo Nuovo Comandamento, stipulato dai Santi alla fondazione della Federazione.

Significava che tutto ciò che avevamo lo dovevamo a loro, agli Angeli e ai Santi. Come se tutta la merda in cui ci trovavamo a sguazzare fosse qualcosa per cui dire “grazie”. Un privilegio…

Gioisci, popolo di Jericho, perché da oggi è in funzione il quarto depuratore salino realizzato sotto l’illuminata guida dei nostri Angeli.

Gioisci, popolo di Jericho, perché da oggi aumentano le razioni di acqua che i nostri Santi inviano a ogni cittadino.

Ogni giorno, in tutte le fabbriche e i tutte le case, al mattino la solita voce metallica trasmetteva messaggi sui progetti e i traguardi raggiunti dalle nostre industrie, sotto il controllo della Federazione.

Più volte ho dovuto trattenere Paxton dal lanciare la sua chiave inglese contro l’alto parlante, nel vano tentativo di farla smettere di gettarci addosso merda su merda.

Lui sopportava meno di me il regime tirannico degli Angeli; suo padre era stato uno dei criminali giustiziati pubblicamente e lui e la sua famiglia dovettero assistere all’orribile scempio che i mastini dei Santi operarono sul suo corpo, smunto e martoriato dalle innumerevoli torture cui venivano sottoposti.

Aaron Davis. Quarantasette anni. Impuro. Potevi sederti sul divano e parlare con lui per ore; era un genio e rispondeva sempre in modo esatto alle domande dei quiz televisivi che guardava al Circolo. Lavorava nella mia stessa fabbrica, ma venne licenziato dopo aver perso un occhio, nell’Incendio.

Scoppiò nella scuola sei anni fa, ormai abbandonata, confinante con l’hangar in cui lavoravo: quel giorno stavo per morire anch’io. Circondata dalle vampate del fuoco, annichilita dal groviglio di tubature e dai filamenti di fumo nero che tentavano di catturarmi, mi ero rintanata in un angolo e gridavo disperata, invocando aiuto. Non avevo via d’uscita, le fiamme si erano sparse in pochi istanti, accerchiandomi. Il rivestimento d’acciaio del capannone si stava surriscaldando e potevo solo prenderlo a calci, nella vana speranza che qualcuno dall’esterno mi sentisse e capisse dove mi trovavo.

All’improvviso, quando avevo quasi perso i sensi, un paio di braccia mi sollevarono per portarmi al sicuro. Una figura annerita dalla fuliggine o, forse, vestita di scuro, mi trascinò per molti metri, buttandomi fuori da una delle uscite di sicurezza. Ricordavo solo gli occhi chiari, che brillavano alla luce delle fiamme fino a sembrare gialli.

Occhi non grigi, ma…azzurri.

Avevo sempre creduto che fosse stato Paxton a salvarmi, data la chiarezza dei suoi occhi, ma lui l’aveva negato, più volte.

Chiunque fosse stato, una parte di me pensava che fosse giusto ringraziarlo. Un’altra parte, più profonda e nascosta, lo odiava per avermi salvata e a volte sarei voluta tornare a quel momento e chiedergli di lasciarmi lì, far finire tutto e subito.

Ma quando vedevo il viso della nonna rilassarsi nel vedermi tornare a casa la sera o il sorriso che si dipingeva sul volto di Cathy quando le rimboccavo le coperte prima di andare a letto, non osavo immaginare cosa ne sarebbe stato di loro se quel giorno fossi morta bruciata.

Aiuta sempre gli altri Mallory. Ogni volta che puoi. Perché un giorno raccoglierai ciò che hai seminato.

Quelle parole mi bloccarono a metà della rampa di scale, sopra di me la porta della signora Jenner.

Le ultime parole di mia madre… Prima che si spegnasse consumata dalla febbre, che in quel periodo dilagava nei bassifondi di Jericho.

Aiuta sempre gli altri Mallory.

Delle due era lei quella altruista. Quella disposata a dare una mano a tutti, finchè le forze glielo permettevano. Era convinta che ciò che lei dava agli altri prima o poi sarebbe tornato, nel momento giusto.

Io invece pensavo solo a me stessa, e alla mia famiglia. Come mio padre.

Ripresi a salire lentamente le scale, come se improvvisamente mi fosse stato caricato sulle spalle un pesante scatolone. Sicuramente era la stanchezza; mi sarebbe bastata una zuppa, una doccia e una bella dormita.

Aiutami.

Aiuta sempre gli altri Mallory.

Guarda giù. E sopravvivrai.

Ogni volta che puoi.

Aiutami.

Perché un giorno raccoglierai ciò che hai seminato.

Ti prego.

<< Dannazione! >> imprecai, e cominciai a scendere di corsa le scale, saltandole due a due per fare fin fretta.

Ma proprio a me quel tizio doveva chiedere aiuto? Non poteva aspettare… che ne so…la signora Davis o il signor Woodrow? No, aspettiamo Mallory che di problemi ne ha pochi.
 
Aprii velocemente il portone e saltai le scalette del portico, atterrando a pochi centimetri della testa del barbone.

<< Ma che cazzo ragazzina! >> gridò rigirandosi nel cartone.

Quando arrivai nel vicolo, lui era ancora lì, steso a terra. Accertandomi di non essere osservata da nessuno mi avvicinai.

Gli spacciatori erano intenti a vendere, altri a farsi. Uomini di ogni tipo entravano e uscivano dalle Sexy-case, soddisfatti e col portafogli più leggero.

Una ragazza, in tacchi a spillo e biancheria intima, si sedette sulle scale e accese una sigaretta. Probabilmente uno spinello di Scag. I lunghi capelli rossi le ricadevano lungo la schiena e la pelle bianca si confondeva con vestaglia, quasi trasparente. I motociclisti gridavano al vederla, mentre lei elegantemente soffiava fuori fumo.

Se non fossi stata assunta da Harper sarei lì insieme a lei, a vendere ogni centimetro del mio corpo per qualche dollaro. A rendere felici tutti, tranne che me stessa.

Anche l’ultima coppia di spacciatori si allontanò andando verso il Canale. La strada principale era deserta, per il momento, o quei pochi che transitavano erano troppo occupati a guardare la giovane prostituta.

Mi chinai vicino al giovane, per valutarne le condizioni. Mentre tornavo non avevo notato tracce di sangue a terra, perciò era stato ferito da un’altra parte ed era arrivato qui seguendo le strade secondarie.

Aveva una corporatura massiccia, troppo per un semplice operaio. E a giudicare dai suoi vestiti, non era neanche un’Agente. Indossava una maglia beige, dei pantaloni scuri e un paio di scarponi. Ed il fatto che fossero ancora addosso significava che non era uno spacciatore, altrimenti a quest’ora non avrebbe avuto più neanche la pelle.

<< Cazzo >> dissi, vedendo com’era ridotto.

Aveva tre tagli profondi sul braccio, come di artigli. Un altro altrettanto profondo sul sopracciglio destro, mentre la ferita al petto ancora sanguinava. La maglietta era completamente sporca, per non parlare del sangue raggrumato.

Non potevo lasciarlo lì, in quelle condizioni. Dovevo spostarlo e portarlo in un posto dove avrei potuto curarlo e fare in modo che si riprendesse.

Casa mia era fuori discussione: non avrei mai messo nei guai la nonna e Cathy portando quel tizio che sarebbe potuto benissimo essere un ladro o uno stupratore. Così come casa di Paxton: non era il caso di portarlo dai suoi fratellini e da sua madre, sempre più persa nel mare dell’alcool.

Mi serviva un luogo in cui nasconderlo, dove nessuno sarebbe mai andato a cercarlo: lo scantinato.

Nessuno si recava più lì da anni e ormai era solo un piccolo magazzino umido e polveroso. Il luogo perfetto per occultare un semi cadavere. Così lo persi per le spalle e cominciai a trascinarlo a fatica verso il retro del palazzo. Doveva pesare come minimo novanta chili, solo di muscoli, mentre io arrivavo appena ai cinquanta, vestita.

I suoi piedi urtarono un piccolo bidone che si rovesciò a terra, attirando una decina di topi.

<< Hey, cos’era quel rumore? >> disse una voce maschile dalla strada.

<< Proveniva dal vicolo >> aggiunse un’altra, maschile anch’essa.

<< Andiamo a controllare >>

Il mio cuore perse un battito e il respiro si fermò. Sentivo i passi dei due uomini avvicinarsi, ma ascoltando attentamente ne percepii degli altri, come minimo erano tre.

<< Merda >> sputai, stringendo le labbra e cercando con tutte le mie forze di trascinare più velocemente il ragazzo, almeno oltre l’angolo del palazzo, in modo da poter essere nascosti per un po’.

I muscoli delle gambe e delle braccia erano tesi, pronti a scattare in caso di bisogno: se le cose si fossero messe male, sarei corsa via. Non mi importava.

I passi dei tre uomini erano sempre più vicini. Mancava poco all’angolo. Ancora un piccolo sforzo e ce l’avremmo fatta.

Poco prima che entrassero nel vicolo riuscii a trascinare i piedi del ragazzo oltre l’angolo, appoggiandolo al muro con la schiena. Mosse leggermente la testa, emettendo un piccolo lamento: era solo svenuto. Forse stava cercando di riprendere conoscenza.

Sporgendomi un  poco presi ad osservare gli uomini. Erano tre Agenti, inconfondibili nelle loro tute bianche e stivali alti neri, con le armi in mano, pronti a sparare se necessario. Cominciarono a guardare tra i cassonetti, li gettavano a terra e i topi scappavano. Un gatto randagio soffiò ad uno degli Agenti, che gli sparò senza una parola, con naturalezza.

Sobbalzai.

<< Era solo questo stupido gatto di merda >> sentenziò << Andiamo >>

Continuando a guardarsi alle spalle e fra i cassonetti, se ne andarono e attraversarono la strada, probabilmente per controllare gli altri vicoli.

A quanto sembrava non si erano accorti della macchia di sangue, coperta dalla spazzatura caduta dal secchio. Fortunatamente per me, altrimenti nulla li avrebbe fermati dall’entrare nel palazzo e metterlo sotto sopra. Come con quello di Margareth.

<< Cazzo >> sospirai, passandomi una mano fra i capelli, che il sudore aveva fatto attaccare alla fronte.<< C’è mancato poco, amico >>.

Il ragazzo aveva la testa inclinata da una parte, svenuto di nuovo. Le braccia abbandonate lungo i fianchi con i palmi in su.

Mi chinai su un ginocchio tra le sue gambe, per osservarlo meglio.

Aveva i capelli così scuri da sembrare neri, tagliati corti. Presentava dei lineamenti duri e precisi, eppure in armonia tra loro, così il suo viso non risultava né troppo spigoloso né troppo morbido. Il collo muscoloso era lasciato libero dallo scollo della maglia, strappata e sporca. Un rivolo di sangue colava dal taglio al sopracciglio, toccando anche qualche livido sul viso.

Non erano segni di uno scontro tra bande. Se lo fosse stato, sicuramente l’avrei trovato senza un occhio, un orecchio o un dito.

Il petto di alzava e abbassava a ritmo lento e quasi impercettibile.

Ma chi me l’aveva fatto fare di mettermi in questo casino?

<< Ormai ti ho portato qui. Tanto vale nasconderti per bene >> mi giustificai, come se potesse davvero sentirmi.

Usando le ultime forze che avevo lo ripresi da sotto le spalle e lo trascinai verso l’entrata dello scantinato. Le scalette erano coperte di erbacce e denti di leone, che nessuno si era preso il disturbo di rimuovere, e la porta era talmente ammuffita e crepata che temetti di sgretolarla quando le diedi un calco per aprirla.

Una nuvola di polvere si alzò, tanto fitta da sembrare nebbia, e lo squittio di alcuni topi riecheggiò nella stanza. Nell’oscurità distinguevo le forme di alcuni oggetti che avevamo portato qui io e Paxton anni fa, in caso di necessità, per esempio la branda sotto la piccola finestra al livello del terreno ,che lasciava filtrare qualche squarcio di luce lunare. Non entravo lì da almeno tre anni, ma non era cambiato nulla.

<< Cavolo se sei pesante >> ansimai, quando restai a sollevare quel tizio con solo un braccio, mentre col l’altro cercavo a tastoni l’interruttore della luce.

Ero un’addetta alla manutenzione, perciò ero abbastanza abituata a spostare pesi, aprire valvole dure come marmo, ma quel tipo pesava davvero un’esagerazione.

Eppure, ad occhio e croce, gli avrei dato più o meno una ventina d’anni.

Click

Due vecchie lampadine che pendevano dal soffitto si accesero con fatica allo scattare dell’interruttore e proiettarono sul muro le ombre di sedie, tavoli o scope, ingigantendole. Come se invece che a dei semplici oggetti fossero di giganteschi macchinari.

Sempre con un calcio, e cercando di non respirare la polvere, chiusi la porta alle mie spalle e trascinai il ragazzo fino al lato della branda, cosicché ce l’avrei messo con più facilità.

<< E’ un piacere rivederla Signora >>

Una voce metallica e raschiata alle mie spalle mi fece scattare dallo spavento. Lasciai andare la presa sulle spalle del giovane, che cadde a terra, sbattendo la testa ed emettendo un lamento, sicuramente di dolore.

<< Ma che diavolo! >> gridai, voltandomi di scatto, pronta ad affrontare chiunque si trovasse alle mie spalle.

<< Uno non voleva spaventar-r-r-rla, Signora >> disse emergendo dal buio e avvicinandosi lentamente. I suoi arti grigio opaco stridevano ad ogni movimento, perché arrugginiti e poco oleati.

Uno era un robot che io e Paxton avevamo costruito anni fa, seguendo le istruzioni di un manuale che avevo trovato nella spazzatura. Con pezzi vecchi e dismessi eravamo riusciti ad assemblare un perfetto robot, che però non si muoveva. L’unica cosa che era in grado di fare era parlare, anche se alle volte restava bloccato e ripeteva sempre le stesse lettere; il filtro vocale era consumato e impolverato, di conseguenza la voce usciva raschiata e ruvida.

<< Uno? >> domandai incredula << Ma come diavolo fai a funzionare? >>

<< Me-me-merito del Signore. >> spiegò. Il viso inespressivo, tipico dei robot, aveva al posto della guancia destra un pezzo di lamiera rosso, che brillava alla luce delle lampade.

<< Ogni tanto viene a trovarmi e mi ha aggiustato >>

<< Parli di Paxton? >>

<< Siiiiiiiiiiiii >> al suono di quel nome, per un attimo, i suoi occhi scuri si illuminarono. Ma doveva essere il riflesso della luce.

<< Ah…non lo sapevo >> sussurrai.

Ero felice che Uno funzionasse, soprattutto se per merito di Paxton, ma non sapevo perché mi aveva tenuto nascosto il fatto che si rifugiasse ancora qui. Questo era il nostro nascondiglio, di quand’eravamo bambini, di quando avevamo paura, di quando volevamo essere quello che  eravamo: bambini. Dove giocavamo dopo un’intera giornata di lavoro, dove gli avevo insegnato a leggere e a scrivere.

Ecco perché non avevo trovato la branda impolverata e qualche sedia vicina alla stufetta a legna, posta ai piedi del lettuccio. Probabilmente era stato qui più di quanto immaginassi.

<< Bè…dato che funzioni vieni qui a darmi una mano >> gli ordinai, ammiccando verso il giovane steso a terra che ogni tanto emetteva versi di dolore, quasi sul punto di riprendere conoscenza << Dobbiamo metterlo sul letto e medicarlo >>

<< Uno è lieto di poter servire >>

Ripeté la formula che ogni robot deve onorare e senza sforzo prese il ragazzo per le spalle e lo issò sulla branda, poggiandogli delicatamente la testa su un cuscino. Era così alto che quando gli sollevai i piedi sporgevano per mezzo palmo dalla fine del letto.

Aveva smesso di lamentarsi, ma era ancora vivo. Forse stare su qualcosa di morbido e caldo lo fece sentire meglio del cemento freddo e ruvido del vicolo. Anche se qui sotto si gelava.

<< Accendi la stufa, mentre io gli controllo le ferite >>

Uno si diresse verso il vecchio cilindro di metallo scuro, gettandoci dentro pezzi di sedie e un fiammifero. Il fuoco si alimentò piano piano, controllato dal robot.

Io, cercando di toccarlo il meno possibile, alzai piano la maglia del giovane, incollata alla pelle dal sangue. Fui costretta a tagliarla con un coltello per poterla togliere.

Uno squarcio profondo gli percorreva tutto l’addome, da parte a parte,  mentre sul braccio destro aveva tra gravi tagli, come se glieli avesse fatti un animale. Per non parlare dei lividi e delle chiazze violacee che macchiavano la sua pelle sporca.

Sul petto aveva anche un tatuaggio. I contadini non hanno tatuaggi, o per lo meno non starni come quello.

Erano due cerchi, uno dentro l’altro. Al centro c’erano degli strani simboli, mezzelune e lettere, mentre attorno, tra i due cerchi, erano incise quelle che credetti fossero parole, anche se scritte in una lingua che io non ero capace di leggere.

Molto strano.

<< Avete bisogno che faccia qualcos’altro Signora? >> disse Uno distogliendomi dai miei pensieri << Il fuoco arde e tra poco sentirà più caldo >>

<< Non avresti per caso delle garze o qualcosa con cui fasciargli e lavargli le ferite? >>

<< Ci sono delle vecchie camicie del Signore, nell’angolo. >>  rispose << Gliele porto >>

<< Grazie Uno >> dissi flebilmente.

Il rumore del robot che rovistava tra i vari oggetti ammassati da una parte sovrastò lo scoppiettio del fuoco e poco dopo Uno emerse, in una mano delle camicie strappate e nell’altra una bacinella d’acqua.

<< Dove hai trovato quell’acqua? >> Era già raro trovarla per noi umani, figuriamoci per un robot che non usciva mai da quello scantinato.

<< E’ acqua piovana, Signora >> spiegò << Mi dispiace, ma non ho di meglio. >>

Appoggiò la bacinella vicino alle mie ginocchia e cominciò a strappare dei pezzi di camicia, che avremmo usato come garze, mentre io con l’altra cominciavo a pulire la ferita più profonda. Uno si occupò dei tagli alle braccia.

Ci volle più di un’ora per togliere il sangue e lo sporco e per fasciarlo, ma alla fine potemmo ritenerci soddisfatti: il tizio era ancora vivo e Paxton c’avrebbe rimesso solo qualche vecchia camicia troppo piccola. Lo coprimmo con una coperta e gli sistemammo un pezzo di stoffa bagnato sulla fronte, per abbassargli un po’ la temperatura.

Chissà per quanto tempo era rimasto lì fuori, ferito e al freddo. Sicuramente abbastanza a lungo perché si ammalasse.

Ormai dovevano essere quasi le dieci, se non più tardi. Dovevo tornare o la nonna si sarebbe preoccupata.

<< Io devo andare. >> dissi alzandomi da terra e pulendomi i pantaloni.

Il robot era rimasto seduto sulla branda accanto al ragazzo e non aveva smesso un attimo di guardarlo. Solo quando gli parlai alzò gli occhi verso di me.

<< Ma certo Signora >> rispose << Vuole che faccia qualcosa mentre lei è via? >>

<< No, grazie >> sbadigliai.

Mi diressi verso le scale che portavano al piano superiore, ovvero all’entrata del palazzo, con passo stanco e pesante, come se salire ogni gradino fosse come farne tre.

<< Anzi si >> mi bloccai a metà << Se questa notte dovesse peggiorare , dagli queste, ma non più di una ogni tre ore, altrimenti va in choc. E cambiagli i bendaggi, se vedi che comincia a perdere troppo sangue, chiaro? >>

Gli lanciai due delle tre pasticche rosse che avevo preso appena uscita dal lavoro per Cathy, per farle abbassare la febbre. Uno tese semplicemente il braccio e le afferrò:<< Uno è lieto di poter servire >>

<< Se dovesse arrivare qualcuno, nascondilo e fai finta di essere spento >> continuai << Se dovessero trovarlo, saremmo nella merda, ma almeno non se la prenderebbero con te >> Prima che potesse rispondere chiusi la porta e infilai il catenaccio col lucchetto abbandonato a terra.

In quel momento l’unica cosa che volevo era andare a casa, farmi una doccia e mettermi a letto. Sperando che quel ragazzo di sotto fosse solo un brutto sogno.

Aiuta sempre gli altri Mallory. Ogni volta che puoi. Perché un giorno raccoglierai ciò che hai seminato.
  
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