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Autore: FrancyBorsari99    03/09/2014    3 recensioni
Mi chiamo Harriett Danion.
Mi sono data io questo nome, dal momento che nessuno si è mai preso il disturbo di sceglierne uno per me.
Non ho veri e propri genitori, ma non sono orfana.
Sono nata con la consapevolezza delle mie origini, e non sono mai stata bambina.
In termini umani, avrei sedici o diciassette anni. In termini... Beh... Miei, ho tre anni, quindi sono piuttosto giovane, ma il vantaggio di sbucare dalla terra come da sabbie mobili al contrario è che sai già tutto quello che c'è da sapere.
Immagino vi stiate chiedendo quale orribile mostro possa nascere già sedicenne di tutto punto, senza genitori, senza un nome, senza un'infanzia come base per il futuro.
È complicato.
Io sono figlia dell'Odio.
Più precisamente, di quello di Gea.
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Devo dire che l'attentato di Leo Valdez mi ha lasciata con la mia dose di domande, in particolare non mi spiego perché anche Piper non abbia reagito così.

Ho visto cosa è successo ad Esperanza, e davvero, Gea si meritava tutto quello che i sette le hanno fatto, ma non immaginavo che le somigliassi così tanto da suscitare la furia omicida dell'ultimo semidio soggetto a istinti killer in tutto il campo.

Mi guardo nello specchio. Sono semplicemente io, e come ho già detto non ho nulla di speciale che mi contraddistingua dagli altri semidei del campo.

Tiro un breve sospiro. Mi dispiace essere così odiata, anche se lui ha tentato di scusarsi con un paio di battute.

Non deve essere bello farsi disprezzare dalle altre persone per qualcuno che non sono io, ma se sei figlio dell'odio, allora la cosa ti fa stare peggio. Ti senti destinato a ricevere astio.

Probabilmente è per questo che agli estremi gradisco la compagnia delle persone, ma non le amo mai. Perché una parte di me non si sente obbligata a volere bene a qualcuno a cui suscito istintiva repulsione.

Perciò, me ne resto sdraiata sul letto a fissare distrattamente il soffitto come un foglio bianco su cui i miei occhi scrivono velocemente una lista di punti, il cui titolo è: cose da fare.

Attualmente sono davvero tante, e non vedo l'ora di cominciare.

Toc-toc.

Non mi alzo, dico semplicemente avanti. Il meccanico di prima, Pyro, Torcia Umana, Fiamma Ambulante o come volete chiamarlo, mette la testa dentro e, un po' titubante, chiede se può parlarmi.

Mi drizzo a sedere, puntellandomi sui gomiti, e annuisco.

Leo scivola dentro e si chiude la porta alle spalle.

– Ehm... io volevo di nuovo scusarmi per quello che è successo prima. –

– E io di nuovo ti dico che non ti devi preoccupare, anzi, dispiace a me per quello che mia madre ti ha portato via. Non avrebbe dovuto farlo. – lo interrompo subito.

Lui mi fissa per qualche secondo, interdetto, poi alza un sopracciglio.

– Sicura? Non ti ho fatto del male, vero? –

– Tranquillo. E in ogni caso, non mi sarebbe successo nulla. Non puoi bruciare la terra. –

Un lampo di offesa attraversa i suoi occhi,ma viene subito rimpiazzato da uno scintillio furbo, e per un attimo mi fanno paura.

– Cos'è, mi stai sfidando?

Mi metto a ridere a quella domanda.

– No, nient'affatto. Ricordati che sono un titano, non sperare di averla vinta con un paio di fiammiferi. –

lui fa roteare le pupille, sbuffando sonoramente. – E che vuoi che sia? Ho messo a tacere tua madre, posso benissimo fare lo stesso con te, con questi due fiammiferi. – replica, esibendo le mani avvolte in lingue di fuoco che gli lambiscono delicatamente la pelle senza scottarla. Stavolta scoppiamo a ridere entrambi.

– Ora sei tu che mi stai sfidando! –

– Sì, può darsi. – tira fuori un'espressione da monello, stringendo appena le palpebre e stendendo le labbra in un sorriso furbo e calcolatore, come se escogitasse l'angolazione migliore da cui infilarmi una manciata di ragni nella maglietta.

– Starò in guardia. – dico, alzandomi in piedi e allungando la mano.

– Harriett.

– Gea Junior.

– Se mi chiami così ti faccio affondare nelle sabbie mobili.

– Harriett è un bellissimo nome! – si affretta a correggersi, stringendo vigorosamente la mia mano. Non è massiccio come i suoi fratelli, ma deve avere anche lui la sua dose di muscoli, perché le mie dita gemono un attimo tra le sue.

– Leo Valdez. Un pochino scontato credo. Come facevi a saperlo?

– Bazzecole. – faccio un gesto con la mano come a scacciare un insetto. – ho i ricordi di mia madre, so abbastanza bene chi sei e cosa hai fatto. –

Lui fischia, senza far cessare la stretta che comincia a protrarsi un po' troppo a lungo.

– Quindi hai già assistito alle meravigliose avventure del Bad Boy Supreme! –

Non posso fare a meno di ridere di nuovo. – Quella parte è stata fantastica. Davvero geniale. – commento.

Mi fissa negli occhi per qualche secondo, in cui il suo sorriso svanisce un po', finché non mi schiarisco la gola e non si rende conto che ha ancora la mia mano nella sua.

La ritrae velocemente e farfuglia qualcosa di incomprensibile, preso dall'imbarazzo.

– Ehm... hai le dita da pianista.

Aggrotto la fronte, lasciando cadere il mio sguardo sulle dita affusolate e magre.

– Niente male.

– Be', sono magre e lunghe, e nella tua stanza c'è una tastiera. Deduzione semplice. – borbotta con un sorriso impacciato.

Mi sento avvampare. Accidenti, ha ragione.

– Suoneresti qualcosa?

– Suonerò qualcosa.

 

Mi siedo sulla sedia, stiro la schiena, faccio schioccare le nocche e accendo il piano, impostando la durata del suono e l'intensità.

Comincio mettendo insieme note e accordi un po' a caso, a umore, tanto per riscaldarmi, tanto per riprendere il mio tocco che scivola veloce sui tasti spingendoli appena a ottenere un suono delicato e dal timbro dolce, i miei occhi ormai non seguono ciò che fanno le dita, sono più impegnati a non fissare nulla di preciso se non il vuoto, perché per quanto strano nel vuoto c'è un'eufonia silenziosa e bilanciata che mi imposta sulla giusta intonazione, facendo risuonare per la stanza quello che improvvisamente non può essere più un accostamento casuale di note a loro stanti, ma una storia allacciata, intrecciata, annodata, elegante, fuggente, imprevedibile, armoniosamente eterogenea, fatta di parole che poche orecchie sanno cogliere, dominate da un ritmo lunatico che sembra fatto di respiri, nessuno è mai uguale all'altro e così va la musica, un attimo è dolce e tranquilla, un attimo dopo galoppa con affanno, e senti il bisogno di seguirla, come una fantasia che spicca il volo, e le dita sulla tastiera la rincorrono fuori da tempo, spazio, limiti, perchè bisogna solo incondizionatamente essere, qualcosa di incondizionatamente qualcos'altro, e si vive con la musica che alla condizione di farsi esistere, promette di esistere, poi, lentamente, il ritmo sfuma, per non tornare più alla sua andatura veloce e cadenzata, si placa come l'ultimo sospiro impassibile, senza timore e senza fretta, e quella musica con calma irreale spirare in un sussurro rilassato, lieve ma denso, e pieno, un suono corposo appena udibile, ma che c'è e che rende la morte di questa storia dolce e struggente come un vissero per sempre felici e contenti.

Le mie mani scivolano giù, atterrando pesantemente sulle gambe.

Sollevo appena lo sguardo, dove Leo è in piedi, la mano stretta allo schienale della sedia, le iridi scure puntate su di me, e oh miei dei, ha gli occhi lucidi, le guance rigate, una lacrima delicatamente appoggiata alle labbra, e altre lacrime incastrate coraggiosamente alle ciglia come la rugiada resta intrappolata alla ragnatela, le palpebre rosse e gonfie, l'espressione seria e oh miei dei ha pianto, ha pianto davvero, e non capisco perché lo abbia fatto, la paura e l'imbarazzo mi assalgono, mi stringono, mi soffocano...

– Allora, – dice, inghiottendo una specie di singulto e sforzando un sorriso. – la felicità esiste davvero.

Improvvisamente mi rendo conto.

Leo ha colto la storia.

Allungo una mano, spinta da chissà quale forza, e con il palmo gli asciugo via l'ultima lacrima che scende lungo lo zigomo.

– Tu sai ascoltare.

– Tutti lo fanno.

– No: gli altri sentono e basta.

Mi fissa diretto, poi riesce a sorridere davvero, si passa la manica sul viso e ride leggermente.

– Credo che tu abbia compiuto un qualche prodigio. Spero di sentirti suonare di nuovo, Gea Junior. –

senza darmi il tempo di replicare, non senza il mio sommo stupore, non senza la mia confusione più totale, non senza una mia faccia da pesce lesso, mi lascia un bacio sulla guancia e se ne va, facendo roteare nella mano una chiave inglese estratta dalla cintura degli attrezzi.

Mi volto di nuovo, fisso la tastiera e lei quasi sembra fissare me. Ammicco nella sua direzione e appoggio le dita, e sto per cominciare un nuova storia, quando il pavimento, e più in basso di due piani la terra, comincia a tremare violentemente, e le mie cose sulle mensole cadono, e tutto cade, e cado anche io in tempo per sentire la voce, la sua voce che dalle profondità bisbiglia:

aspettami.

Da lì in poi è solo paura e boati tremendi.

ANGOLO AUTRICE grazie a tutti per le recensioni, mi fa davvero felice che questa storia stia piacendo, ecco spiegato il motivo del nome del capitolo. anche qui, mi piacerebbe sapere che ne pensate, anche se questo è il più corto è stato difficile scriverlo. avrete notato che il ritmo della narrazione ad un certo punto,nel raccontare cosa prova Harriett mentre suona il piano, aumenta molto in una frase continua, periodi brevi intervallati solo da virgole, rendendo il tutto quasi precipitoso. non so, ma a me piace perchè -sempre dal mio punto di vista- rende reale anche nel lettore la sensazione di una valanga di pensieri ed emozioni che ti travolgono... spero che si capisca e che non sia tutto troppo confusionario... come sempre, spero di leggere i vostri commenti, e vi prego non ammazzatemi, ripeto che non ho idea di cosa ne salterà fuori... i guai per Harriett devono ancora iniziare!!!! E A TE, CARO LETTORE, GRAZIE DI AVER LETTO FINO IN FONDOOOOOO UN BACIO A TUTTI!!!!
  
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