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Autore: _Even    03/09/2014    7 recensioni
[Coppia: Mirco]
Marco e Mika. Il loro amore raccontato pezzo per pezzo.
Una raccolta che riguarda i momenti più importanti della loro storia. Filo conduttore: i sensi che, al contrario di ciò che si pensa, sono più di cinque.
«Perché noi eravamo questo. Vivevamo di piccoli istanti e brevi momenti che parevano senza senso, tanto erano piccoli e apparentemente senza importanza. Eppure per noi ce l'avevano, un senso. Noi eravamo in quello sguardo d'intesa, in quella parola detta sottovoce ed eravamo in quell'aroma di caffè. Eravamo nel dolore più intenso, nel profumo più forte e nella caduta che ci ha colti di sorpresa. Eravamo nelle notti statiche, il gelo nelle mani e il calore sulle guance. Eravamo noi in ogni cosa, eravamo vita. Eravamo amore.
E questo non ha mai avuto senso per nessuno. Per nessuno tranne che per noi.»
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Vista [La vista è uno dei cinque sensi; precisamente, è quello mediante il quale è possibile percepire gli stimoli luminosi e, quindi, la figura, il colore, le misure e la posizione degli oggetti. Tale percezione avviene per mezzo degli occhi.]

 

Marco’s POV

 
Eravamo davvero un bel quadretto, non c’è che dire.
Sono serio: se fossi stato un tizio qualunque, uno sconosciuto che passando di lì avesse assistito alla scena, probabilmente mi sarei sbellicato dalle risate. Purtroppo per me, non andò così.
Ma andiamo con ordine.
Qualche giorno prima, la mia manager aveva ricevuto una chiamata dagli studios di X Factor, il noto talent show che, oltre a una miriade di altri artisti, aveva lanciato anche il sottoscritto. Quel giorno ci trovavamo insieme a casa mia, io e Marta, e l’isteria generale era scattata nell’immediato. Lei parlava al telefono concitata e io seguivo soltanto a grandi linee la conversazione, ma eravamo entrambi entusiasti come bambini: pareva mi avessero richiamato al programma per una collaborazione agli Home Visit. In poche parole, avrei assistito uno dei giudici nella decisione finale, per quanto riguardava i concorrenti da mandare al programma in prima serata. Ero talmente elettrizzato che lottai contro l’impulso di mettermi a saltellare come una dodicenne e, d’altronde, la stessa Marta aveva un sorriso che andava da un orecchio all’altro. Mi aveva fissato un incontro con il giudice che mi aveva voluto al suo fianco in questa scelta, per discutere su alcuni punti fondamentali.
Alla fine, Marta aveva cordialmente salutato con un “Grazie e arrivederla”, aveva chiuso la comunicazione telefonica e, con mia grande sorpresa, aveva iniziato a imprecare come una camionista in menopausa. Dopo aver sparato un’immensa sfilza di parolacce, alcune delle quali nemmeno sapevo che esistessero, si era degnata di comunicarmi il nome di colui che aveva richiesto i miei servigi.
Mika.

Oh, mio Dio.
Mika. Uno degli artisti più celebri degli ultimi anni, nonché uno dei miei idoli, nonché modello a cui mi ero ispirato negli anni prima e dopo il successo di X Factor.
Ripetei quel nome nella mia mente un paio di volte.
Mika. Notizia più bella non poteva esistere.
In quel momento avevo avuto ancor più voglia di saltare come una dodicenne impazzita.
Mika, santo cielo, lui fra tutti quanti! Aveva scelto proprio me, Marco Mengoni, fra mille artisti italiani, non potevo crederci! Mi sembrava un sogno. Mentre io scoppiavo di felicità al punto che neanche mi rendevo conto di cosa mi accadesse intorno, Marta stava maledicendo me e lui.
Non che fosse scontenta per l’occasione che mi era stata data, certo che no. Ma si chiedeva, perché proprio Mika? Non poteva essere Morgan, disse, che era stato il mio giudice nella terza edizione? Non poteva essere Elio, disse, che era un grande professionista? Non poteva essere Simona?
A quel punto la interruppi, chiedendole cosa avesse contro Mika.
Lei mi rispose, in modo molto maturo, che semplicemente le stava antipatico a pelle. Atteggiamento incredibilmente professionale.
Nonostante questo, sosteneva che un’apparizione come supporto di un giudice (a prescindere da chi egli fosse) al talent show che mi aveva lanciato nel mondo della musica fosse una grande strategia di marketing, pertanto accettò di buon grado. Io, che di marketing non me ne intendevo (e ringraziavo Dio che Marta si occupasse di queste cose), sapevo soltanto che avrei preferito mangiare vetro piuttosto che rinunciare a un’opportunità come quella.
Ero su di giri come un bambino all’Acqua Park.
E così, il fatidico giorno arrivò e io non avrei potuto essere più felice.
Già. Peccato che, lungo il tragitto in auto dal mio appartamento agli studios, Marta avesse deciso di divertirsi a imprecare contro quello che lei riteneva uno “spilungone fighetto con la puzza sotto il naso”, ossia Mika. La qual cosa, ovviamente, detta in modo decisamente più colorito e meno sobrio, finì per intaccare la mia aura di positività.
Detto in poche parole, prima di entrare nell’auto stavo una favola e dopo esserci entrato stavo uno schifo. Mi mise addosso una tale ansia, una tale agitazione e un tale tutto quanto che, arrivati agli studios, ero messo così male da desiderare sul serio un bel pezzo di vetro da sgranocchiare.
Una volta entrati nell’edificio principale, però, anche Marta ammutolì. Non scambiammo una parola quando entrammo, né quando percorremmo i corridoi scortati da uno stagista e venimmo lasciati di fronte all’ingresso di una sala conferenze. Fissammo la porta, in legno chiaro e intarsiata in acciaio, che ci avrebbe condotti alla stanza in cui io e Mika ci saremmo incontrati (sotto la supervisione di Marta e di altri collaboratori, ovvio) per parlare di alcune cose riguardanti il giorno degli Home Visit.
Immobili, io e lei, di fronte a quella porta. I nostri sguardi caddero sulla maniglia, senza che nessuno di noi due si decidesse ad afferrarla e abbassarla per entrare.
Stavo per incontrare un idolo, un grande cantante, una grandissima persona ed ero nervoso come una scolaretta. Pensavo di sapere cosa aspettarmi e invece scoprii di non averne la più pallida idea. Mi avrebbe parlato in italiano o in inglese? Gli avrei fatto buona impressione? Saremmo riusciti a collaborare alla pari o il divario tra di noi avrebbe influito sulla nostra resa? Gli sarei piaciuto? Mi avrebbe detestato?
Avevo voglia di ingoiare una granata.
Mi voltai verso Marta, agitato, e in risposta mi lanciò un’occhiata che emanava sicurezza e che mi spinse a essere, o perlomeno fingere di esserlo, deciso.
Così serrai gli occhi e spalancai la porta in un unico colpo secco, come quando si strappa via un cerotto.
Inutile dire che lo spaventai a morte.
Era seduto a una scrivania che si trovava al centro della stanza e stava maneggiando alcune scartoffie: quando entrai con tanta irruenza saltò praticamente in aria e non riuscì a trattenere un sussulto e strinse i fogli di carta così forte da stropicciarli, parandoli di fronte a sé come uno scudo.
Come dicevo, saremmo stati esilaranti visti da fuori. Ma purtroppo ero stato io a spaventarlo, a rischio di sembrare un maleducato o, peggio, un povero pazzo, così entrai senza dire una parola e mi sedetti di fronte a lui, senza mai guardarlo dritto in faccia. Fu soltanto quando Marta prese posto accanto a me che notai che nella sala non c’era nessun altro all’infuori di noi e lui.
Presi quasi nell’immediato a torturarmi l’unghia del pollice con i denti, mentre la mia gamba tremava sotto il tavolo senza che io riuscissi a fermarla. Marta dal canto suo, dondolava avanti e indietro come fosse stata una psicotica, e poi c’era lui, che riordinava fogli che mi parevano già perfettamente impilati.
Nessuno parlava, nessuno faceva niente di concreto né di interessante.
Sembravamo una piccola comunità di recupero per svitati nevrotici.
E io, povero ebete col cervello in rigor mortis, tenni gli occhi bassi, puntati in un primo momento sulla scrivania di vetro. Poi, però, li spostai per caso sulle mani di Mika.
Guardandole, mi accorsi che erano grandi, ma grandi davvero. Indubbiamente eleganti, come quelle di un pianista o di un direttore d’orchestra. Come facesse anche solo con il corpo a emanare il concetto di musica, non lo sapevo. Tutto ciò che riuscivo a pensare, mentre lo guardavo prendere e spostare quelle pagine da un punto all’altro del tavolo, era che lo invidiavo non poco per questo.
Improvvisamente, Marta mi colpì da sotto il tavolo, lanciandomi uno sguardo ammonitore. Rinsavii all’istante: il modo in cui lo stavo fissando doveva essere piuttosto inquietante, per non dire totalmente privo di professionalità. Tenere gli occhi incollati sulla gente famosa era più un comportamento da teenager in calore che da collega alla pari. Ma quanto riuscivo a essere idiota?
Resomi conto della mia figuraccia e del tutto incapace di scusarmi con lui senza fare la figura dell’inetto, vagai con lo sguardo per il resto della stanza, fingendo indifferenza.
Questo finché i miei occhi caddero sul volto di Mika. Più precisamente, mi soffermai sulla mascella, perfettamente cesellata, e sul collo elegante, sul quale spiccavano due nei vicini tra loro, paralleli l’uno all’altro, in modo preciso. Una leggera barba iniziava a spuntargli sul mento e sulle guance. Dannazione a lui. Se avesse potuto prestarmi un po’ della sua perfezione, avrei volentieri…
Riabbassai nuovamente lo sguardo, intimidito dai miei stessi pensieri. Non era una novità che io tendessi a paragonarmi a ogni uomo incontrassi, sentendomi sempre e immancabilmente inferiore, ma da qui a utilizzare termini come “perfetto” ne passava di acqua sotto i ponti.
Potevo ammettere con una certa tranquillità che Mika fosse un bell’uomo, di certo più bello di quanto io sarei stato mai, ma “perfezione” era qualcosa da attribuire a ben altro, a qualcosa che ti lascia senza fiato e senza parole.
Fu questo che pensai, prima che quasi involontariamente i miei occhi venissero spinti a osservargli la bocca. Sapevo che ogni qualvolta la apriva, la gente impazziva: il pubblico si emozionava per le sue canzoni, oppure rideva per le cose buffe che diceva, ma in ogni caso restava incantato a osservare quelle labbra piccole e sottili dall’inconfondibile forma a cuore. Mi ritrovai ancora una volta a invidiarlo senza ritegno.
I miei occhi, pertanto, si concentrarono sul suo naso che, constatai, era molto “francese” (per quanto, una volta che l’ebbi pensato, ritenni questa mia opinione infinitamente ridicola). Era risaputa la particolare predisposizione di Mika ad arricciarlo quando era divertito o, più semplicemente, rideva. Sapevo per certo che quel naso arricciato, oltre alle immancabili fossette, erano due delle cose che facevano impazzire i fan, più di qualsiasi altra qualità fisica avesse.
Poteva anche levarsi la maglietta durante i live e le ragazzine sarebbero esplose in un tripudio di urla, occhi lucidi e braccia protese verso la sua figura slanciata; ma se voleva davvero conquistare il cuore di ogni singola persona tra il pubblico, gli bastava sorridere e tutti l’avrebbero amato.

Certo, come se non fosse già abbastanza amato da tutti.
Con la coda dell’occhio, scorsi Marta che si voltava verso di me e sapevo che stava per colpirmi di nuovo. Me lo meritavo, ovviamente, perché ero tornato a fissarlo e questo era stato davvero sciocco da parte mia.
Ma prima che potessi distogliere lo sguardo, o farmi colpire da Marta, o rendermi minimamente conto di ciò che stava accadendo, i miei stupidi occhi proseguirono da soli la loro folle corsa e incontrarono quelli di Mika.
Solo che, nello stesso momento, quelli di Mika incontrarono i miei.
E ci ritrovammo a guardarci negli occhi.
I suoi erano perfetti.
Sì, quando lo pensai, ritenni che fosse il termine più appropriato, forse l’unico adatto a definirli. Perfetti.
Esternamente splendidi: le ciglia scure facevano da cornici alle iridi color nocciola, in parte screziate di verde, dal contorno scuro come terra bruciata; le pupille parevano brillare di luce propria; la forma tondeggiante li faceva apparire ancora più grandi di quanto non fossero già.
Ma quegli occhi, io, non mi limitai di certo a guardarli. No.
Erano così limpidi, così sinceri e puri, che arrivai a leggervi dentro.
La cosa più assurda è che vi lessi, incredibile a dirsi, ansia. Mi riuscì difficile crederlo visto che, tra i due, ero io a dover essere quello nervoso ed emozionato. Invece sembrava quasi che fosse lui, e non io, a essere di fronte a una star internazionale pluripremiata. Potei scorgere, però, anche un minimo accenno di curiosità, la stessa che anch’io nutrivo nei suoi confronti: non a caso, poco prima avevo preso a studiarlo in ogni suo dettaglio. Ci leggevo, in quegli occhi, le stesse domande che mi ero fatto anch’io su di lui. Pazzesco, per non dire comico.
Istintivamente sorrisi.
Ma accadde una cosa molto buffa.
Lui sorrise a sua volta, nello stesso istante.
Nel vedere questo, il mio sorriso si ampliò e anche il suo, simultaneamente, e mi veniva da ridere, perché sembravamo due idioti allo specchio. Eppure stava accadendo di più, ci stavamo intendendo alla perfezione senza spiccicare parola: tutta quella situazione era assurda e ci sentivamo entrambi dei perfetti imbecilli, ma capii di non doverlo temere e lui capì di non dover temere me. Ci saremmo aiutati a vicenda a superare quell’iniziale tensione e a rendere quella situazione il più normale possibile.
In quel momento ebbi la certezza che sarebbe andato tutto benone.
Nel frattempo mi accorsi vagamente che Marta mi aveva colpito da sotto il tavolo e che ci stava osservando, per capire che cosa ci fosse preso. Mi dispiacque per lei, perché sapevo che non ci sarebbe mai arrivata.
Era semplicemente scattata l’intesa, a prima vista, tra me e lui.
Non distolsi lo sguardo. Avrei dovuto, chiaramente, perché erano passati diversi secondi e nessuna persona sana di mente avrebbe aspettato così tanto prima di interrompere uno contatto visivo. Ma ci trovavamo così bene, occhi negli occhi, che ci sembrò il peggiore dei crimini smettere.
E così non smettemmo.

A incontro finito, avevamo chiarito i punti fondamentali della nostra linea.
Dalle concorrenti non volevamo semplicemente uno sfoggio di bravura perché di brave, disse lui, ce ne sono a migliaia. Lui voleva qualcuna che fosse interessante, che potesse arrivare al cuore del pubblico e, perché no, anche allo stomaco. Quello lo dissi io, però, perché ero dell’opinione che la musica dovesse prenderti per le viscere, e lui si trovò perfettamente d’accordo nonostante il modo grezzo con cui espressi quella mia teoria.
Come location aveva proposto un casale (che, scoprii in seguito, più che un casale era una reggia in miniatura) a Dublino, in Irlanda. Io andavo pazzo per l’Irlanda, ma cercai comunque di mostrare nonchalance, come Marta mi aveva suggerito di fare, dicendo che, sì, Dublino sarebbe stata una scelta niente affatto male. Ma non riuscii a nascondere del tutto il mio folle entusiasmo e sembrai un esagitato di prima categoria.
Forse non avevo fatto la figura migliore della mia vita, ma non mi importava granché perché io e Mika stavamo andando alla grande. Per tutto il tempo non staccammo mai gli occhi l’uno dall’altro e questo, pazzesco solo a pensarci, ci mise stranamente a nostro agio.
Io, che soltanto quella mattina avevo lo stomaco aggrovigliato per la paura, adesso mi stavo trovando talmente bene che il tempo passò senza che me ne accorgessi, grazie a quello sguardo rassicurante, vivace e brillante che per fortuna era ancora saldamente ancorato al mio.
Poco prima di uscire dalla sala conferenze, Mika mi disse di chiamarlo Michael, perché era così che gli amici lo chiamavano. Il che stava a significare che già mi considerava un amico o che, più semplicemente, mi aveva preso in simpatia. Non avrei potuto chiedere di meglio.
La porta si richiuse, l’incontro finì e, dagli occhi vivaci e brillanti di Mika (o meglio, Michael), piombai in quelli color ghiaccio di Marta.
In quel momento non ne avevano solo il colore, ma anche lo stesso calore. Erano gelidi.
Parte del tepore e della tranquillità che avevo acquisito poco prima andarono dissolvendosi mentre l’ombra tutt’altro velata della disapprovazione di Marta si profilava di fronte a me. Non sapevo cosa avessi fatto esattamente per irritarla, sapevo solo che era irritata, eccome. Si voltò e mi precedette, camminando a passo di marcia.
Mi ritrovai a fissare la sua vaporosa chioma bionda che si scuoteva a ogni passo, mentre cercavo inutilmente di raggiungerla per capire cosa le avessi fatto. Non era come se lei non avesse affatto parlato durante l’incontro, anzi, avevo sentito chiaramente la sua voce intervenire in più di un’occasione.
Ma, a pensarci bene, non avevo posato lo sguardo su di lei neppure per un istante nel corso del colloquio. Oh, e con tutta probabilità nemmeno Michael lo aveva fatto.
Capii da solo, alla fine, e non mi stupii che fosse furiosa: lei era la mia manager, l’esperta in questo campo nonché la persona che aveva reso possibile questa collaborazione e noi, per tutta risposta, l’avevamo ignorata totalmente, come fosse stata invisibile. Che bel modo di esprimere gratitudine.
Cercai di raggiungerla, per chiederle scusa, così accelerai il passo e quando fui abbastanza vicino le posai la mano su una spalla. Si girò, i suoi riccioli frustarono l’aria, mi rivolse lo stesso sguardo glaciale di prima. Tentai di iniziare a parlare, per potermi scusare a nome di entrambi e spiegarle tutto.
Marta, però, preferì rovinare tutto con un velenoso: «Non ti facevo così, sai? Pensavo che tu, alle scemenze come le cose “a prima vista”, non ci credessi.»
Prima che potessi chiederle cosa intendesse esattamente, però, lei si voltò di nuovo e tornò a fare finta che io non esistessi come, mi doleva ammettere, noi avevamo fatto con lei.
Sapevo che lo scopo di quella battutaccia assolutamente fuori luogo era unicamente quello di ferirmi. Eppure, mentre mi trascinavo lungo il corridoio a qualche passo di distanza dalla mia manager, ebbi il forte impulso di tornare di là e cercare di nuovo il conforto che avevo tratto dagli occhi di Michael.
E per un attimo, ci pensai sul serio.
Mi fermai, mi voltai e individuai nuovamente la sala conferenze. Quella rassicurante porta in legno chiaro e intarsiata di acciaio. Lui era lì e i suoi occhi dal potere calmante erano lì con lui.
La fissai per non so quanto tempo e, dopo, feci quello che dovevo fare.
Mi riscossi, tornai a seguire Marta e, nel silenzio più totale, tornammo a casa.
 

 

 

 

 

La soffitta dell’autrice:
Oddio, voglio infilare la testa in un sacchetto di plastica e morire.
Ma salve! Eccomi qui con, ebbene sì, una long. Più che una long, è una raccolta di OS su loro due (ma quanto li amo?) ciascuna basata su uno dei sensi che, in teoria, sarebbero cinque, ma in realtà sono molti di più. Quindi verranno raccontati soltanto alcuni episodi della loro storia, come questo. Ho associato la vista al concetto di primo incontro e di intesa a prima vista, come avrete potuto notare. E niente, spero che vi piaccia.
Torno a flagellarmi, scusate. Alla prossima!
Ringrazio la mia beta, nonché suggeritrice di titoli, comeunangeloallinferno94. Te se ama, bella ♥

Baci,

  
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