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Autore: Ivola    05/09/2014    1 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
Capitoli:
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Note: Poco da dire, e sono stata anche abbastanza puntuale ^^' 
Tra una decina di giorni inizierà di nuovo la scuola e per me allora sarà la fine, quindi mi godo questi ultimi giorni di vacanza cercando di scrivere il più possibile.
Cosa c'è da precisare su questo capitolo? Innanzitutto, circa a metà, troverete un drastico cambio stilistico - fortemente voluto dalla sottoscritta. Si passa dalla terza alla seconda persona e dal passato al presente: ciò è dovuto al fatto che ho scritto quel pezzo probabilmente secoli fa e adesso, giunto il momento di inserirlo, non ho avuto il coraggio di cambiarlo, perché ci sono affezionata. Inoltre, in quel passo ritroverete una scena già vista nel capitolo ventuno - My fading voice, ma rivisitata.
Il titolo di questo capitolo è probabilmente uno dei più angst (per ora), e naturalmente si riferisce al PoV di Ben, mentre "You" si riferisce a Klaus e London.
Purtroppo (e me ne rammarico tanto ç_ç) non posso ancora rispondere alle recensioni, ma sapete già che prima o poi lo farò perché non mi piace lasciare le cose in sospeso. Comunque, continuo a ripetervi che vi adoro, non so cosa farei senza i vostri commenti sempre entusiasti ♥

As usual, vi ricordo che QUI c'è la mia pagina facebook e QUI c'è il gruppo scambio-recensioni, che vi invito caldamente a visitare!
Buona lettura! ♥

Il titolo del capitolo viene da "Dead star" dei Muse. 

Questo banner appartiene a me, ©Ivola.
















 




 
















Blur

(Tied to a Railroad)






026. Twenty-sixth Chapter – You used to be everything to me.




Klaus sentì il proiettile sfrecciargli vicino ad un orecchio e, addirittura, perforare la carne dell’aguzzino, proprio alla tempia, prima che le sue cervella gli esplodessero addosso. London urlò, credendo che il gemello avrebbe colpito il marito, ma rimase sconvolta nel guardare quell’immagine: Klaus ricoperto di sangue, suo e non, steso del tutto inerme sul pavimento. Poteva perfettamente essere morto, eppure Ben per qualche motivo aveva sparato al suo subordinato che ora giaceva poco lontano da Klaus, privo di vita.
London alzò lo sguardo su suo fratello e rimase a fissarlo con il volto terreo e… stupito. Conservava forse ancora un po’ di umanità dentro di sé? C’era ancora parte del vecchio Ben dietro quello spesso strato di vendetta? Si convinse in quello stesso istante che sì, doveva essere così. Che doveva usare quello spicchio di umanità che era rimasto a suo fratello proprio contro di lui, per dargli una possibilità di redenzione.
London smise di dimenarsi sul materasso e lo chiamò a bassa voce: 
« Ben… » Non aveva idea di quante volte avesse già pronunciato il suo nome in quei giorni, ma ne aveva strettamente bisogno. Chiamarlo, sperare che tornasse.
« Ci lascerai andare, adesso? » mormorò Klaus, dopo aver sputato un grumo di sangue sul pavimento. Si mosse piano, cercando di alzarsi, e Ben ignorò – o fece finta di ignorare – il richiamo della sorella per avvicinarsi a lui.
« Era soltanto una prova, Klaus. Avevo allentato la catena di proposito » rispose l’albino, sedendosi sui talloni per osservarlo meglio, come se fosse una cavia su cui fare esperimenti. « Volevo soltanto vedere fin dove ti saresti spinto per lei. »
Klaus rimase totalmente interdetto e si bloccò. « E sei soddisfatto? » chiese con rabbia. Pur essendo senza catene, non aveva la forza di fare nulla, se non imprecare tra i denti e fissare Benjamin pieno di frustrazione.
Lui non rispose.

 
*


La porta blindata si aprì con un rumore metallico e disturbante, ma la prigioniera preferì tenere gli occhi serrati comunque.
Tremava dalla paura e dal freddo, battendo i denti ogni tanto in un riflesso involontario, perché per qualche strano motivo non le avevano tappato la bocca. Sarebbe stato anche inutile, d’altronde, se si metteva in conto che tutte le sue urla le aveva sprecate anche quel pomeriggio sulla sedia elettrica; forse non aveva più voce.

« Come sta la nostra ospite? » domandò una voce irriverente, la voce che avrebbe riconosciuto tra mille.
« Ben, sei tu? » sussurrò, aprendo di poco gli occhi. La stanza era buia e gelida e nessun fascio di luce arrivò ad abbagliarla, cosa che da un lato le fece scendere altri brividi lungo la schiena. Era paradossale come giusto qualche ora prima avesse creduto di poter morire bruciata quando in quel momento stava quasi congelando. Era mezza nuda, inoltre, perché i vestiti rattoppati che le avevano costretto ad indossare si erano tutti bruciacchiati.
London non lo vide perché era tutto scuro e offuscato, ma poté giurare che Ben stesse ridacchiando. Fu la peggiore delle reazioni che potesse aspettarsi, nonostante si fosse dovuta abituare gradualmente in quelle settimane alla nuova natura del gemello… ma non ci era ancora riuscita. Non poteva dimenticare o sopprimere tutti i ricordi, ed era proprio questo il motivo per cui non riusciva a odiarlo.

« Sei ancora viva, Londie? » chiese, stavolta acidamente. « Se vuoi posso rimediare subito. Ah, no, ma che dico. Mi servi ancora, per il momento. »
La prigioniera represse un singhiozzo in fondo alla gola, cercando di mantenere la mente lucida. Doveva capire che cosa fosse successo al suo amato fratello, al suo Benjamin. Doveva farlo ritornare in sé, non aveva ancora abbandonato l’intento. « Lo sai, Ben? Quando ce ne siamo andati credevo che non ti avrei rivisto mai più » disse con voce roca, provando a sorridere. « Mi eri mancato tanto. »
La risata di Ben si trasformò in un ghigno. « Cos’è quest’affetto improvviso? Ah, l’ho sempre saputo che sei una bugiarda. »
« No! » mormorò lei, spaventata. « E’ la verità, te lo giuro. »
« Se ti fossi mancato così tanto ci saremmo rivisti in circostanze migliori, non trovi? »
London scosse la testa, quando si accorse che Ben era molto vicino a lei, così riprese a tremare. Rimase orripilata dal pensiero: perché tremava di fronte a suo fratello?
« Ben… ti prego, posso… posso abbracciarti? » domandò pianissimo.
L’altro non rispose per qualche secondo buono, restando quasi spiazzato da quella richiesta improvvisa, una richiesta che non si sarebbe mai aspettato dopo tutto quello che le aveva fatto.

« Non sei più solo, adesso. Ci sono io... Londie, ricordi? Sei stato tu il primo a chiamarmi così. » London fece una breve pausa, come per prendere aria. « La solitudine è scomparsa, perché sono qui con te, ora… sono qui… » continuò lei, prendendo a tremare irrefrenabilmente, ancora spaventata e scossa dal cambiamento radicale di suo fratello. Avrebbe affondato il viso nelle mani, se solo non avesse avuto i polsi legati al muro. Non ce la faceva a guardarlo per più di qualche minuto, le faceva male, la feriva.
« Tu non sai cos’è la solitudine » ribatté freddamente il ragazzo, asciugandole una lacrima solitaria con i polpastrelli. London non si sottrasse a quel contatto di ghiaccio – sebbene ne fosse terrorizzata – perché le era mancato terribilmente, che lui ci credesse o meno.
« Mi dispiace » riuscì a sussurrare, considerando che la voce le stava venendo meno e che prendersi tutte le colpe in quel momento sembrava difficile e semplice allo stesso tempo.
« Non ha importanza. Pagherete per tutto quello che mi avete fatto » replicò il gemello, assumendo un tono più duro ed estraneo, quasi appartenesse a tutt’altra persona.
London tirò su con il naso, riprendendo con un coraggio che nemmeno credeva di avere a guardarlo negli occhi, che anche nel buio della cella erano illuminati dalla sete di vendetta. Era un peccato che occhi belli come quelli fossero pervasi da un sentimento così negativo. Occhi che un tempo sorridevano sempre, occhi che guizzavano di genuinità e parlavano senza alcun bisogno di parole.
Che cosa ti è successo…?

« Non fargli ancora del male, ti supplico... »
Ben si bloccò, irrigidendo la schiena. Poi, invece di continuare ad accarezzarle lentamente le guance per asciugare qualche lacrima, le diede uno schiaffo che le fece voltare il viso dall’altro lato. Un suono veloce, palmo contro guancia, che si propagò nel silenzio della cella dieci, cento, mille volte. Una volta Ben non le avrebbe mai alzato le mani addosso.
« Pensi a lui anche adesso? » gridò il ragazzo, non riuscendosi a contenere.
« Ti prego, Ben… » gemette, protendendosi con il corpo verso di lui. « Lascialo andare… »
« No! » urlò il ragazzo, ora fuori di sé. « Ho passato anni interi a soffrire come un cane a causa vostra, non vi libererò tanto facilmente proprio ora che posso ottenere ciò che voglio! »
« E tutto ciò che vuoi è veder morire l’unica persona che tu abbia mai amato? » London l’aveva fatto apposta, quasi sconsideratamente e senza riflettere, a fargli quella domanda, forse soltanto per vedere la sua reazione. Soltanto per avere… una conferma. Chi hai amato davvero?
« Stai parlando di te o di Klaus? » sibilò Ben a poche spanne dal suo volto.
London emise solo un soffio: 
« Klaus. » Lo sapeva, l’aveva sempre saputo in fondo al suo cuore che Ben aveva sempre amato Klaus, forse ancor prima che lo facesse lei. Un pensiero fulmineo le attraversò il cervello: erano gemelli. Lei e Ben erano gemelli. Nati dallo stesso grembo; cresciuti nella stessa convinzione di amarsi l’un l’altro perché non esisteva nessun altro modo per rendere vivo e tangibile quel legame nelle loro menti; destinati ad allontanarsi per un’altra persona. La stessa persona. Gemelli, fino in fondo, nella mente e nel cuore.
Il ragazzo, che quasi sembrò spaventarsi di quella risposta, le diede uno schiaffo più forte del precedente, che la fece cadere a terra insieme ad un lugubre tintinnio delle catene.
Lei non provò a fare niente, perché in effetti non c’era più nulla da fare. Sapeva quanto il fratello fosse ostinato, perché quel tratto del suo carattere era forse l’unico che condividevano. Così legati, uniti, ma diversi.
Ben le poggiò un piede sulla pancia e fece lievemente pressione, provocandole un gemito impaurito. Forse aveva già qualche costola incrinata, se solo non fosse che…

« Ben » continuò a dire lei, tremando, con il volto già pallido di natura ora quasi cadaverico. « Credo di essere incinta. »
L’altro si bloccò come se qualcuno avesse congelato il suo corpo e sgranò le iridi grigioverdi nella penombra. Spostò il piede dalla sua pancia e si sedette sui talloni accanto a lei, forse per guardarla più da vicino e cercare di capire se stesse mentendo o meno. Sembrava turbato, turbato come non l’aveva mai visto in quelle settimane di prigionia. E scettico, perplesso. « Chi altro ti sei scopata, Londie? »
London indietreggiò di qualche spanna. « Nessuno… » mormorò, capendo cosa gli stesse passando per la mente, e continuò prima che lui potesse aggiungere altro: « E’… è di Klaus, te lo giuro. »
Ben indurì lo sguardo e i suoi occhi assunsero una sfumatura più minacciosa. « E com’è possibile, se lui è sterile? »
« Non lo so… » pigolò, lasciando fuoriuscire quei singhiozzi che aveva trattenuto. « Non lo so, Ben, non lo so… » Gli si avvicinò con il corpo, fino a poggiare il mento sulla sua spalla. Era la cosa più vicina ad un abbraccio che potesse immaginare e pregò con tutta se stessa che suo fratello non lo rifiutasse.
E lui non lo fece.
Le circondò il busto con le braccia e appoggiò la mano dietro la sua nuca, facendole affondare il viso nel suo petto. London lo ringraziò nella sua mente e si abbandonò così, inspirando il suo profumo e sentendosi paradossalmente al sicuro nella sua stretta. Non sapeva perché gli aveva rivelato di essere incinta. Forse non avrebbe dovuto, ma non poteva tenergli nascoste altre cose, non dopo averlo tradito e abbandonato.

« Ti supplico, non dirlo a Klaus » sussurrò.
« Tu non ne hai avuto il coraggio, vero? » le domandò, improvvisamente calmo. « Sei solo una bugiarda egoista e vigliacca, dopotutto. Dovrai pagare il tuo silenzio. » Fece una pausa, scostandosi leggermente da lei. « E i suoi baci. »


Che cosa stai facendo, Benjamin Bridge?
Hai ancora le mani macchiate di sangue – il loro sangue – e gli occhi pieni di immagini strazianti e le orecchie ronzano di urla e le labbra secche ti impediscono di proferire parola.
La notte è ancora lunga, forse non riuscirai a superarla.
Tenti di serrare le palpebre, ma invano. Non prenderai sonno facilmente, non dopo quello che hai fatto, che hai visto, che hai ascoltato oggi.
Il vecchio, dolce, pacato Ben cerca ancora di far capolino, ma tu ti sei ripromesso di seppellirlo per sempre. E’ acqua passata. Adesso che la tua vendetta è arrivata ti senti molto meglio, no?

… No?
Un mattone si è depositato nel tuo stomaco e probabilmente non si dissolverà mai. Forse è la tua coscienza.
Ma a chi importa della coscienza quando ti hanno strappato via il cuore tempo fa?
Si sa: è il cuore che comanda. Però ora che non ce l’hai più è l’odio che ti spinge ad andare avanti, ad arrancare nel vuoto alla ricerca di una meta.
Passano secondi, minuti e ore senza che tu te ne accorga, mentre scivoli in un tormentato dormiveglia.
I cattivi non dormono mai sonni tranquilli, è risaputo. Quindi accontentati, Benjamin – sempre che questo sia ancora il tuo nome –, perché sei stato tu a scegliere di giocare la parte dell’antagonista.
Anche la vendetta ha il suo prezzo, dopotutto.


Non sai perché ti trovi qui, circondato dal buio di una stanza che non ricordi di aver mai visto. Non distingui molte cose, eccetto una finestra aperta alla tua sinistra ornata da sottili tende di seta e qualcosa che assomiglia a un letto matrimoniale.
C’è qualcuno con te, proprio su quel letto, ma riesci a distinguere solo le loro voci, bisbigliate appena nella notte.

« Hai freddo? » domanda piano una voce maschile, apprensiva.
« Un po’ » risponde l’altra e quel suono soave è accompagnato dal fruscio del lenzuolo.
L’uomo si alza e si accinge a chiudere la finestra accanto alla quale sei appostato. Per un attimo ti coglie il terrore di poter essere visto, ma quello ti passa accanto senza fare caso a te, come se tu fossi invisibile ai suoi occhi nonostante non ci siano nascondigli o ombre a coprirti. Forse è un sogno, un sogno da cui vorresti e non vorresti svegliarti al tempo stesso.
I deboli raggi lunari gli illuminano il volto e, mentre la tua vista si abitua alla penombra, capisci che colui che hai davanti non è un uomo, bensì ancora un ragazzo tra i venti e i trent’anni.
E’ nudo, e si affretta a chiudere le imposte rabbrividendo. E’ alto, anche più di te, con le spalle larghe e il fisico asciutto; i capelli scuri gli ricadono scompostamente alla base del collo e un filo di barba gli increspa il mento squadrato.
Klaus.
Lo riconosci con orrore e ti appiattisci contro la parete, sperando di non dover vedere altro.
Sei intelligente, dopotutto, Ben, quindi colleghi immediatamente che l’altra figura nel letto non può che essere tua sorella, London Bridge.
… No. London Wreisht.

« Meglio » mormora lei, facendo cenno a Klaus di tornarle accanto.
Il ragazzo si stende nuovamente sul letto, coprendosi con le coperte morbide.
Tenti di tapparti le orecchie con i palmi delle mani, ma è inutile. Non stanno parlando adesso e c’è qualcosa di infinitamente peggiore delle parole. Gli sguardi.
Si stanno osservando negli occhi placidamente, senza nessun cenno di odio o rancore.
Stesi l’uno accanto all’altra, si sfiorano appena e Klaus le porta una ciocca di capelli bianchi dietro l’orecchio.
London non dice niente e si limita a chiudere gli occhi. Vedi bene che in realtà si sta beando di quel contatto. In realtà ricordi anche tu, ancora, come le carezze ruvide di Klaus riuscissero a lasciarti un’inaspettata quanto strana e appagante sensazione di benessere.
E’ frustrante stare lì in silenzio a guardarli, ma i tuoi muscoli non accennano a muoversi neanche di un centimetro. Sono bloccati. Sei ancorato in questa stanza senza vie di fuga.

« Baciami » sussurra London, così piano che a stento riesci a sentirla.
E quando lui la bacia, sorridendo lievemente, capisci che quel qualcosa che si è spezzato in te tempo addietro non potrà mai essere riparato.
Capisci che non è di London che ti importa; non è per lei che il tuo cuore raggrinzito si è sgretolato, non è per lei che adesso le lacrime ti bagnano le guance.
Le vuoi bene, certo. Le vuoi bene ancora.
Ma Klaus la ama. E tu ami lui, incondizionatamente, irrimediabilmente.


Non vuoi vedere oltre; non hai la forza fisica e psicologica di versare altre inutili lacrime.
Adesso sei forte, Ben, sei riuscito a vendicarti. Presto entrambi moriranno e sai che tutto questo è frutto della tua immaginazione.
E’ solo un sogno, solo un sogno… Ma non riesci a svegliarti. Sei inchiodato con i piedi per terra e serrare gli occhi ti riesce impossibile.
Soggiogato dalla tua testa, non puoi – o non vuoi – smettere di fissarli rabbiosamente. Dai un pugno al muro, ma non per questo loro se ne accorgono.
Non si sono mai accorti di te, del resto, perché dovrebbero farlo ora, in un momento di intimità del genere?
Vedi Klaus allontanarsi di poco da lei.

« Cosa c’è? » gli domanda London, cogliendo la sua esitazione. Il ragazzo si alza su un gomito e la guarda in silenzio.
Ti ritrovi a pensare, tuo malgrado, che vorresti tanto essere al posto di tua sorella, in questo momento. Essere guardato, bramato così è probabilmente il tuo desiderio più profondo e nascosto. Scacci subito questo pensiero, digrignando i denti.

« London » bisbiglia, con un tono che non hai mai sentito rivolgergli a nessun altro. Sentir pronunciare il suo nome da lui è un’altra pugnalata al petto e ti costringi a ricacciare indietro le lacrime che premono sempre più per cadere.
Lei lo osserva, in attesa, con un cipiglio vagamente confuso. 
« Cosa? »
« Io… » tentenna, come cercando il coraggio per continuare negli occhi della moglie. « Ti amo » dice infine, semplicemente.
Una stilettata al cuore – ma quale cuore? –, l’ennesima. Urli, così tanto che ti bruci la gola. Ma loro non ti sentono.
Non si curano minimamente neanche della tua esistenza.
Lo sapevi, Ben. Lo sapevi sin dall’inizio. Sapevi che sarebbe finita così.
Ti accucci con le ginocchia al petto, la schiena contro la parete, tentando di escludere Klaus e London dalla tua testa. Ma non ci riesci, ovviamente. Loro sono parte della tua vita, parte di te stesso.
Qualche lacrima scende caparbia sul tuo volto pallido, infrangendo la tua aura di autocontrollo.

« Sono stato un bugiardo per tutto questo tempo » continua Klaus, riprendendo ad accarezzarle i capelli.
Non è mai stato bravo con le parole, lo sai bene. Lo sai maledettamente bene.
London non risponde, piuttosto, lo guarda con un leggero sorriso ad incresparle le labbra. Conosci bene anche lei. Non gli risponderà mai, e non perché non lo ami, ma semplicemente perché è troppo orgogliosa per ammetterlo.
E forse Klaus lo sa perfettamente, perché si lascia baciare – sembra felice, non credi? – e sovrastare dal corpo sinuoso della ragazza, che sale a cavalcioni su di lui, ridacchiando.

« Lo so, idiota » dice. « Credo di averlo sempre saputo. »
A questo punto affondi il viso nelle ginocchia e ti lasci cullare dall’oblio, quasi privo di forze o di coscienza, mentre tutto intorno a te si fa sempre più buio… e sfocato.

Ti alzi di scatto a sedere, ansimando, sentendoti i capelli appiccicati di sudore e il respiro affannato, così tanto che credi di non riuscire più a respirare per parecchi minuti.
Sapevi che era un sogno, perché reagisci così?
Cerchi di ignorare quella voce nella tua testa, la quale – lo sa meglio di te – afferma che quelle cose che hai appena visto sono accadute davvero.

« Ha detto di amarla » sussurri al buio, il vuoto nello stomaco che si ingrandisce sempre più. Quante volte gliel’hai chiesto? La ami, Klaus? Sei innamorato di London? Quante volte ti aveva mentito o non aveva risposto?
… ti eri forse illuso, Benjamin?
La voce nel tuo cervello diventa più autoritaria.
E’ Emil. Fa di nuovo capolino nei tuoi pensieri e ti divora la mente, urlando parole dapprima incomprensibili, poi sempre più petulanti e orribilmente meravigliose.
Ti prendi la testa tra le mani e gridi a tua volta, ma sai bene che Emil è più forte e alla fine vincerà.
Vince sempre, d’altronde.
Strilla istericamente, squarciandoti il cranio e il petto e l’anima. Ti ordina di distruggere ciò che ti distrugge.
Klaus, urla Emil con rabbia. Klaus e London.

« No… » bisbigli impaurito, temendo la sua reazione come non mai. Li ucciderà, lo sai bene. Li ucciderà entrambi.
Delle piccole goccioline di sudore freddo ti imperlano la fronte e le tempie, mentre senti il corpo abbandonarti ad altri istinti, alla parte più perversa di te. La parte che sa esattamente in che modo
distruggerli.
Emil prende di nuovo posto nel tuo corpo, esiliandoti nei recessi del tuo stesso cervello.

« Sei uno stupido, Benjamin » sputa lui, scostandosi bruscamente il lenzuolo da dosso.
Il tuo corpo guidato da Emil esce dalla stanza in cui è alloggiato e si incammina per i corridoi male illuminati, attraversando zone che non avevi neanche mai visto.
Poi, raggiunge la porta blindata che cercava e la apre di scatto. E’ la cella di London.

« Come sta la nostra ospite? »
L’interno è buio, ma si distingue bene un corpo di donna legato con delle catene al muro per evitare un qualsiasi tipo di fuga.
Sentendo Emil aprire la porta, London si ridesta dal suo dormiveglia e lo fissa terrorizzata. 
« Ben, sei tu? »


Ben le diede un calcio di scatto, facendole lanciare un grido di dolore e di sorpresa; poi salì a cavalcioni su di lei, impugnando con espressione folle quello che aveva l’aria di essere un bisturi, tirato fuori da una tasca. « Ti piace baciarlo, non è così? »
« Ben… no… Ben… » lo supplicò la sorella, fissando lo strumento nelle sue mani. Per un istante aveva creduto… aveva creduto che il suo Benjamin… fosse tornato.
« Sta’ zitta » scattò lui, ancorando le gambe intorno ai suoi fianchi e schiacciandola con il suo peso. London gemette qualcosa tra le labbra, in panico. « Vorrei tanto che tu adesso potessi guardarti, sorellina. Strisciante, sotto di me, inutile. Devi soffrire esattamente come ho sofferto io » le disse con tono carezzevole.
London tentò di divincolarsi, anche se il suo corpo era scosso dai singhiozzi. Era tutto perduto, suo fratello non sarebbe mai più stato lo stesso, era diventato totalmente insano. Come se fosse un’altra persona. Come se il vecchio Ben non fosse mai esistito.
Con delicatezza eppure decisione lui le fece un primo taglio sul labbro, che prese a sanguinare copiosamente. London emise un suono strozzato e cominciò a sentire in bocca il sapore della ruggine. Amaro, salato, dolce sulla sua lingua. Forse era quello, il gusto della follia.

« Perdonami, ti prego! » gridò, dopo aver sputato del sangue. « E’ tutta colpa mia! »
Ben si fermò per un secondo, saggiando con l’udito il suono di quelle parole disperate, umiliate, supplichevoli. « E’ facile ammetterlo adesso, vero? »
London seppe – e in quel momento una parte del suo cuore si frantumò in mille schegge di vetro – che quello era ancora soltanto l’inizio. Sapeva che Ben voleva vendetta, sapeva che li avrebbe distrutti, per poi autodistruggersi a sua volta.
Sapeva perfettamente che tutto quello la stava terrorizzando a morte.
Forse sapeva persino che stava terrorizzando a morte anche lui.

 
*

 
Quando il ragazzo si svegliò, ancora con mani e piedi legati strettamente da due corde ruvide e pesanti, accasciato sul pavimento, non comprese immediatamente dove si trovasse. Come tutte le volte che si svegliava, naturalmente.
Il viso ormai sciupato che toccava le mattonelle fredde, la schiena martoriata che chiedeva riposo – inutilmente – e il respiro affannato come dopo una lunga corsa. Provò a girare la testa, ma una fitta lo costrinse a rinunciare al proprio intento.
Klaus non credeva di aver mai provato tanto dolore fisico in vita sua, neanche quando era stato frustato da suo padre; quasi avrebbe preferito morire, se solo ne avesse avuto l’occasione. Ma Ben non l’avrebbe mai lasciato andare, non ora che stava avendo la sua vendetta, non ora che poteva sentirsi realizzato nel vedere soccombere la causa di tutti i suoi problemi.
Klaus fece un sorriso amaro. Una volta aveva persino creduto che il giovane Bridge fosse innamorato di lui, per qualche stupido e assurdo motivo. Eppure ora stava manifestando tutto il suo odio e il suo rancore; forse non sarebbe più riuscito ad amare nessuno in vita sua. Forse si sarebbe ammazzato, dopo averli visti morire entrambi, soffocati dalle sue stesse torture.
Klaus stava aspettando la morte. Eccome se la stava aspettando. Non desiderava altro che andarsene da quello schifo di mondo, un mondo che non l’aveva mai voluto e che aveva tentato di rigettarlo in tutti i modi possibili.
Klaus, devi sposarti contro la tua volontà; Klaus, devi partecipare agli Hunger Games; Klaus, sei sterile; Klaus, uccideremo l’unica persona che tu abbia mai amato.
Un brivido gli scosse le spalle, quando sentì rumori metallici provenire dalla porta blindata di fronte a lui, minacciosa. Il suo peggiore incubo, che si apriva e lo inghiottiva ogni volta come una voragine.
Eppure la prima persona che vide entrare non fu Benjamin – il quale ad ogni modo seguì a ruota insieme ad un Pacificatore –, ma un corpo indistinto che si accasciava sul pavimento. Non riusciva a girarsi, per cui si limitò a ringhiare contro i nuovi arrivati.

« Buongiorno, Klaus. Fatto buon riposo? » chiese Ben con tono dannatamente retorico e delicato, armeggiando con qualche strumento che non aveva il coraggio di immaginare.
« Meraviglioso » biascicò con una nera ironia, le labbra screpolate contro il pavimento.
« Splendido, perché oggi ti aspetta una giornata altrettanto meravigliosa » continuò l’altro, sedendosi sui talloni accanto a lui e girandogli la testa a forza per i capelli per vedere quale gradito ospite avesse portato con sé.
Klaus gemette di dolore nel voltarsi e all’inizio non capì – dopotutto l’ultimo momento di lucidità assoluta che avesse avuto era stato molte settimane prima. Solo ascoltando la sua voce si rese conto di chi fosse steso, o meglio stesa, a pochi centimetri da lui.

« Ben, che stai dicendo? » mormorò la ragazza, raggomitolata su se stessa. Non era neanche legata, ma era troppo debole persino per muovere qualche muscolo. L’aguzzino aveva previsto anche questo.
« London… » fremette Klaus, nel riconoscerla. Dovevano essere passati molti, troppi giorni dall’ultima volta che l’aveva vista, quando avevano azionato ancora una volta la sedia elettrica davanti ai suoi stessi occhi.
Qualcosa scattò dentro di lui, qualcosa capace di fargli ignorare il dolore e la sofferenza, provò ad avvicinarsi a lei a denti stretti e con occhi colmi di panico, ma Ben si interpose tra di loro.
La prese per il mento e la guardò dritto negli occhi – occhi uguali, occhi gemelli. 
« Sta’ zitta, Londie » le intimò e la sorella sembrò arrendersi alla sua volontà. Forse aveva capito che non poteva contrastarlo.
Klaus la osservò disperatamente, notando la sua pelle bruciata e ustionata e i tagli sul volto, specialmente sulle labbra. Sembravano freschi di qualche giorno. Un moto di rabbia lo attraversò da capo a piedi. 
« Quando cazzo ti decidi a liberarla? »
« Quando non mi servirà più » ribatté l’altro seccamente, voltandosi di scatto verso di lui. « E la distanza di quel giorno dipende da te, caro Klaus. »
« Vaffanculo, bastardo. »
« Tutti questi termini scurrili… Non cambi mai, vero? » domandò Ben con una risata vuota e gelida.
« Perché, qualcuno cambia? » replicò Klaus seccamente.*
« Direi di sì. » E forse Ben aveva ragione. Forse aveva ragione perché proprio lui, il più insospettabile dei Bridge, si era trasformato in un mostro senza pietà.
Senza aggiungere altro tirò un coltellino maneggevole da una tasca e Klaus si preparò al peggio, sibilandogli contro parole indistinte. Ma Ben non lo utilizzò per ferirlo, bensì per liberarlo dalle corde che gli avevano dilaniato polsi e caviglie per ore e giorni interi.
Un momento di stupore doloroso gli annebbiò i pensieri, quando poi comprese che in realtà l’aguzzino non lo stava liberando sul serio. Probabilmente aveva in mente qualcosa.
Klaus lo fissò con sguardo di fuoco e, vedendo che anche Ben si limitava a osservarlo di sottecchi senza proferire parola, strisciò in direzione della moglie ugualmente debole e semisvenuta. Le sfiorò un braccio con mano tremante e poterla toccare dopo tutto quel tempo gli sembrò un miracolo.
London gli rivolse un sorriso stanco e triste al contempo, un sorriso così amaro che gli distrusse ogni speranza con la velocità di un battito d’ali.

« Andrà tutto bene » le sussurrò con voce roca, carezzandole una guancia con la punta delle dita, forse per paura di ferirla ancora di più dopo tutto quell’orrore. « Te l’ho promesso… »
London scosse la testa e fu allora che Ben la spostò bruscamente con un calcio, dopodiché la attirò a sé da dietro, puntandole lo stesso coltellino di prima alla gola. « Ti sbagli » gridò, premendo la lama sulla giugulare bianca della gemella. « Finirà male, Klaus. Finirà male e lo sai bene. »
« Ben… » ribatté l’altro, stavolta con tono implorante, notando che la moglie non si dimenava neanche né tentava di liberarsi. « Avanti, lasciala. »
« Supplicami » disse, con un luccichio sinistro negli occhi ora più grigi che mai.
Klaus ringhiò nella sua direzione. Perché, perché non la liberava e basta?
Un rivolo di sangue vermiglio colorò la gola della ragazza, che gemette per la ferita, ma non c’era nessuna traccia di paura nei suoi occhi. Anche lei, forse, non vedeva l’ora di farla finita. Troppo dolore: fisico, psicologico, distruttivo, tutto insieme.

« Ho detto: supplicami. »
Il moro guardò in faccia entrambi i gemelli tentando di cogliere qualcosa di più nei loro volti, ma tutto ciò che vide furono follia da parte di Ben e spossatezza da parte di London.
Klaus non aveva mai supplicato nessuno e mai l’avrebbe fatto, ma se si fosse dovuto abbassare a quei livelli per salvarla… non si sarebbe tirato indietro, non dopo che aveva imparato ad amarla, non dopo che avrebbero potuto vivere una vita normale insieme, non dopo che erano stati catturati per uno stupido errore.

« Ti supplico, lasciala andare » disse fievolmente, allungando una mano verso di loro, senza naturalmente raggiungerli. « Falla tornare a casa da Klaudia… »
Ben premette ancora un altro po’ la lama sulla pelle. « Devi alzare la voce, qui non ti sentiamo bene. »
« Ti supplico, Ben, cazzo! Cos’altro vuoi sentirmi dire? E’ tua sorella gemella, e tu vuoi ucciderla per qualche fottuto motivo? Smettila con questa storia e uccidimi, se è questo che vuoi! Uccidimi! » gridò Klaus con le poche forze che gli erano rimaste, 
« Oh, Klaus » ribatté l’albino, scuotendo la testa come se quella fosse stata una stupida battuta. « Io non mi limiterò alla misera soddisfazione di ucciderti, forse non l’hai ancora capito. »
London bisbigliò qualcosa, ma Ben la zittì dandole un altro strattone violento. L’altro lo fissò negli occhi.
« Eppure una volta eri innamorato di me… lo so… » mormorò Klaus, con un tono così affranto che poteva sembrare reduce da un pianto d’agonia. Ma Klaus stava piangendo dentro di sé, stava già morendo pezzo a pezzo.
L’aguzzino strabuzzò lo sguardo, incapacitato, le iridi di ghiaccio che esprimevano qualcosa di molto simile a rabbia e dolore maledettamente combinati. Klaus vide ancora qualcosa del vecchio Ben in quegli occhi, qualcosa che improvvisamente lo fece apparire una vittima ai suoi occhi, esattamente come tutti loro.
Ben gettò London di lato, scaraventandosi contro di lui. 
« Questo non dovevi dirlo, figlio di puttana! »
Gli sferrò un calcio nell’addome, e un secondo, un terzo, un quarto, facendolo rantolare dal dolore. Probabilmente aveva già qualche costola incrinata o spezzata, ma a Ben non importava. L’avrebbe ammazzato perché aveva avuto il coraggio e la sfrontatezza di mettergli la verità davanti agli occhi, servita su un piatto d’argento.
London provò a fermarlo, aggrappandoglisi ad una caviglia, ma il gemello era accecato dalla furia e si liberò facilmente di lei.

« Al patibolo! » urlò, completamente dimentico della compostezza di qualche istante prima. « Al patibolo entrambi! Fucilateli! »
Klaus sputò del sangue, dopodiché fissò il viso sconvolto del suo – ormai – nemico. Vide London essere trascinata via dal Pacificatore, vide Ben prendersi la testa tra le mani e urlare dalla collera, vide il buio della stanza inghiottirlo nuovamente, senza neanche dargli il tempo di collegare gli ultimi avvenimenti.
E così si sarebbe conclusa la sua misera esistenza, così avrebbe visto sua moglie morire accanto a lui e, ancora, così avrebbe visto l’unica persona di cui si era mai fidato distruggersi in preda a una pazzia che, lo sapevano bene tutti e tre, era solo causa del male che si erano inferti a vicenda. 


















*Semi-citazione di Mondo Senza Fine, Ken Follet, da un dialogo dei fratelli Merthin e Ralph.





   
 
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