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Autore: _Frame_    06/09/2014    2 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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2. Orgoglio e Orologi a cucù

 

1929, Berlino

 

La punta della vite s’incastrò nell’incavo rettangolare del chiodino. Dita ruvide, dalle nocche consumate, fecero pressione sul manico. La vite premette sul chiodino e lo avvitò. La spirale del bariletto si abbassò, incastrandosi tra la ruota di carica e il supporto di bilancio. Il ponte a mezzaluna scattò, sistemandosi dentro il meccanismo dell’orologio. La ruota di carica fece uno schiocco secco e cominciò a girare. Gli ingranaggi dentati ruotarono spingendosi reciprocamente, il tic toc si unì al coro degli altri orologi appesi nella stanza.

“... pesante industrializzazione delle campagne per favorire l’urbanizzazione e una produzione in proprio dei metalli e delle materie prime. L’atteggiamento del nuovo regime russo ha messo...”

Germania sollevò lo sguardo dal tavolo da lavoro. La vite stretta tra le dita era ancora infilata dentro la pancia aperta dell’orologio a cucù.

La radio posta sul ripiano superiore della parete gracchiò suoni insabbiati, la lancetta del quadrante graduato a mezzaluna oscillò a destra e a sinistra per poi fermarsi sul numero sessanta. La voce dell’annunciatore tornò limpida.

“... mentre la guerra civile spagnola continua su ambo i fronti. Il governo repubblicano si fa...”

Le lancette di uno degli orologi a muro appesi di fianco alla radio raggiunsero il numero dodici. Gli ingranaggi scattarono, le porticine si aprirono. La lingua di legno saltò fuori facendo cinguettare cinque volte il passerotto rosso che apriva le ali a ogni pigolio. Le due ante si richiusero. La lancetta dei secondi continuò a scandire il tempo.

Germania scollò la vite dall’ingranaggio e la posò sul tavolo da lavoro, vicino al barattolo di vernice che gocciolava come un vaso di miele. Spinse di lato l’orologio sventrato e allungò un pezzo di legno sottile a forma di casetta.

“Fissa questo,” disse Germania.

Il suo braccio si tese verso l’altro lato del tavolo. I piccoli e sottili chiodini erano sparsi sui bordi, e circondavano il martello dal manico di vernice scrostata. Prussia mugugnò un lamento. Le spalle abbandonate sullo schienale della sedia, il capo rovesciato all’indietro, il viso nascosto dalle pagine aperte del giornale che gli teneva la faccia nel buio. Grandi lettere rosse in stampatello riempivano metà della prima pagina. TEMPO.

Prussia sollevò una mano e la scosse come se stesse scacciando via un insetto. “Lo faccio dopo.”

“No.” Il braccio di Germania si allungò di più. Le dita strinsero sul bordo della tavola di legno. “Adesso.”

Prussia inasprì il tono, soffocato dalla carta aperta sulla sua faccia. “Fallo tu, West. Mi sono già preso una martellata ieri.”

Germania sospirò, abbassando le palpebre. Richiamò vicino a sé la mano che stringeva il coperchio dell’orologio. “Dai almeno una passata agli altri con il turapori.”

“Mi sporco le dita, e se schizzo la vernice sui vestiti poi non va via.”

“E allora metti i coperchi.”

Prussia rantolò un lamento e aprì il palmo della mano sulla rivista. Le dita spiegazzarono la carta inchiostrata e la tolsero dal viso. Gli occhi assonnati erano di una luce opaca, offuscati bagliori cremisi, come una brace che si sta spegnendo.

“Che palle.”

“Datti da fare.”

Prussia appoggiò il giornale sul bordo del tavolo e si allungò sulla superficie, strusciando con la pancia in mezzo ai chiodini sparsi. Agguantò orologio e coperchio, e si mise con la schiena dritta.

Germania prese uno degli altri orologi già pronti e ticchettanti sul lato pulito del tavolo. Afferrò quello color verde bosco con le lancette corte e tozze, decorate da fini arabeschi. Il tettuccio di tegole marroni era spolverato di finta neve candida. Il barattolo della vernice turapori era già aperto. Germania tuffò il pennello fino alla base delle setole. Lo fece gocciolare sul bordo e la punta si sciolse in sottili filamenti collosi. Il pennello si mosse sul retro dell’orologio già tappato. La superficie divenne lucida e brillante.

“Stupidi orologi,” gracchiò Prussia. La sua voce coprì quella della radio.

Prussia appoggiò la punta di un chiodino sul dorso dell’orologio e agguantò il martello. La fronte si aggrottò, i denti stridettero di rabbia.

“Diventerò pazzo a forza di sentire tutto questo tic toc, tic toc, tic toc.” Calò il martello, la punta di ferro sbatté contro il legno facendo risuonare l’eco degli ingranaggi. Colpo mancato. “Oppure diventerò pazzo per l’umiliazione.”

Strinse le dita attorno al manico del martello fino a che la pelle non gemette. La lunga testa di ferro disegnò un arco in aria, schiacciò l’indice che teneva il bordo. Gli occhi di Prussia si spalancarono. Lui soffocò un grido in gola e si morse il labbro. Strizzò le palpebre e lasciò andare martello e chiodo. Si portò la punta del dito tra le labbra, tenendo gli occhi spremuti. La voce si inasprì.

“Merda che male.”

Germania fece un sospiro sconsolato. Tornò a tuffare il pennello nel barattolo di alluminio e sgocciolò la punta sul bordo.

“... banche tedesche e austriache destinate al fallimento. Il debito della nazione è salito fino a centosessantatre miliardi di marchi in oro. L’inflazione ha...”

Prussia riaprì un occhio. La scintilla scarlatta si ravvivò, fendette l’aria come una luce laser, trafiggendo i fori della radio sopra il quadrante a mezzaluna. Prussia fece una smorfia con le labbra, tenendosi il dito in bocca.

“E spegni quella merda di radio.”

Il pennello imbevuto di colla fissante spalmò il liquido sulla superficie dell’orologio.

“Potresti fare tu almeno quello, visto che è da stamattina che non combini niente,” rispose Germania. Gli occhi fissi sul suo lavoro.

Prussia ruotò gli occhi al soffitto ed emise un profondo sbuffo. Si alzò dalla sedia e si avvicinò al muro. Le dita si strinsero attorno alla manopola di destra, la lancetta nel quadrante luminoso si abbassò fino allo zero. La mezzaluna segnata dai numeretti delle stazioni radio si spense, la voce tornò zitta. Prussia passò alle spalle di Germania e gli diede un piccolo colpo sulla spalla.

“E smettila di startene piegato lì tutto il giorno, ti verrà la gobba.”

Germania trattenne un impeto di rabbia nel petto. Prussia tornò ad abbandonarsi sulla sedia e gettò il capo all’indietro. Le dita si intrecciarono sulla nuca.

“Assemblare stupidi giocattolini non ci riporterà di certo in sesto,” disse Prussia.

“E nemmeno starsene con le mani in mano lo farà.”

Germania non alzava lo sguardo. Gli occhi freddi, di ghiaccio, seguivano i movimenti del polso che guidavano il pennello.

Prussia si chinò in avanti e sbatté un gomito sul tavolo. I chiodini traballarono.

“Se non altro io sto almeno tentando di salvare mia dignitosa immagine senza ridurmi a vestire i panni del piccolo orologiaio.”

Germania inarcò le sopracciglia e tinse di nuovo il pennello nella vernice. Separò le labbra per rispondere ma un cinguettio parlò per lui. Germania alzò gli occhi sul muro. Le portiere degli orologi erano chiuse, gli uccellini erano addormentati in mezzo agli ingranaggi. Un frullio di ali gli fece di nuovo abbassare lo sguardo. Una piccola macchia gialla si posò sul tavolo. Gilbird chiuse le ali, zampettò vicino a Prussia facendo rotolare via una manciata di chiodi. Tornò a pigolare, sbattendo un paio di volte le ali. L’espressione di Prussia si ammorbidì. Lui si sporse in avanti con una piccola esclamazione di sorpresa e mise le braccia conserte sul bordo del tavolo.

“Il mio piccoletto.” Sollevò l’indice e posò la punta sulla testolina di Gilbird. Sfregò le piume giallo limone e il canarino chiuse gli occhietti. “No, papino non è arrabbiato, è solo dannatamente frustrato perché deve starsene tutto il giorno in mezzo a uccellini di legno che non sono fighi quanto te.”

Gilbird sollevò un’ala e passò la punta del becco tra le piume, come se le stesse mordicchiando. Cinguettò e spalancò l’apertura. Le zampette spinsero sul tavolo e il canarino svolazzò sulla spalla di Prussia. Si appallottolò come un gomitolo, richiudendo le ali sul dorso. Prussia sollevò di poco gli angoli delle labbra, socchiuse le palpebre, e il viso venne appannato da una luce malinconica. Tese l’indice verso la sua spalla e carezzò le piume di Gilbird dalla testolina fino al collo.

“Che situazione.” Gilbird sollevò il becco per farsi grattare sotto il mento. “È la prima volta in cui spero davvero che il vecchio Fritz non stia a guardarmi e veda come sono ridotto.”

Germania rimase in silenzio. Gli occhi si offuscarono, la luce spenta seguiva le lente spennellate che tiravano a lucido il legno. Prussia aggrottò la fronte, l’indice si fermò tra le piume di Gilbird.

“Di’ qualcosa, almeno.”

“Che cosa dovrei dire?” Germania lasciò il pennello sul bordo del barattolo di latta. Grosse gocce dense come miele colavano fino alla superficie del tavolo.

Germania si prese la fronte con una mano e si appoggiò di peso sul gomito. Gli occhi stanchi ruotarono verso il fratello.

“Cosa dovrei fare più di così? Dovrei lasciar stare i patti e smettere di pagare le tasse? Tornare a Versailles e stracciare il contratto per...”

“Sarebbe sempre meno umiliante di tutto quello che stiamo subendo ora.”

“Quello che stiamo subendo...” Germania disegnò piccoli cerchi con i polpastrelli sulle palpebre abbassate. Stropicciò la pelle e tornò a placare il tono. “Quello che stiamo subendo è la giusta conseguenza della guerra. I vincenti riscuotono e i perdenti pagano.”

Prussia fece schioccare la lingua. Annodò le braccia al petto e si scurì in volto. Gilbird avvicinò il beccuccio alla sua testa e iniziò a giocherellare con una ciocca argentata.

“Noi non meritavamo di perdere. Siamo sempre stati più forti degli altri e lo siamo anche ora.”

Germania riaprì gli occhi. Le sottili pupille rimasero in direzione di Prussia. “E allora dai tu una spiegazione a quello che è successo.”

Prussia irrigidì, le pieghe del viso raggelarono. Voltò il capo di lato e avvicinò la guancia al becco di Gilbird. Socchiuse le palpebre, abbassò la voce. “Noi non abbiamo perso perché eravamo deboli.” Prese un respiro e piegò un angolo della bocca verso l’alto. “È solo perché eravamo troppo forti e non siamo riusciti a contenere la magnificenza.” Carezzò il petto di Gilbird e allargò il sorriso. “Vero, piccoletto?”

Gilbird gonfiò il pancino, allargò le ali, ed emise un pigolio. Chiuse gli occhi e si fece carezzare il dorso, dove nasceva l’attaccatura delle ali.

“Io non ti riconosco più, West.”

Germania ebbe un sussulto. La schiena s’irrigidì, un brivido ghiacciato percorse tutta la spina dorsale e gli morse la nuca. Gli occhi dei due si incrociarono e rimasero a fissarsi. Ghiaccio contro fuoco.

“Come riesci a farti piacere questa dannata situazione? Sul serio ti sta bene ridurti in questo stato, a sciuparti giorno dopo giorno solo per riempire le tasche di quelli che meno meritavano di vincere e...” Gli occhi di Prussia si abbassarono sul tavolo. L’orologio scoperchiato giaceva come un cadavere sventrato. “E anche se non fosse per gli orologi o per i soldi, ci sono quei confini che ci tengono chiusi come animali, e quei territori che ci hanno portato via.”

Prussia poggiò entrambi i gomiti sul tavolo. Piegò le spalle in avanti e strinse i pugni. Un’ombra nera calò sul viso stropicciato dalla rabbia. Prussia serrò i denti e fece ribollire la furia nel petto.

“Io non resisto più, mi sento soffocare come un topo in trappola,” disse.

Germania si passò una mano tra i capelli e si stropicciò i lineamenti del viso. La pelle divenne bianca e fredda, la voce spenta, debole.

“Credi che io stia meglio di te?” rispose. “Anche se ipoteticamente volessi riprendermi i territori, non abbiamo fondi, non abbiamo esercito e nemmeno materie prime. Gli Alleati non sono stupidi, ce le hanno tolte proprio per evitare una nostra ribellione.”

La vernice dell’orologio divenne più opaca. Germania passò il polpastrello sul legno e la pelle rimase asciutta. Voltò la casetta intagliata e riprese il pennello. Le setole gocciolanti leccarono le rifiniture ai lati, passando tra i riccioli e le spirali.

“Questa sarebbe solo una soluzione che ci porterebbe al logoramento come l’ultima volta,” continuò Germania. “Un’altra guerra in queste condizioni sarebbe inutile e insensata, ci devasterebbe ancora di più. Hai visto anche tu cosa sta succedendo al resto d’Europa.”

“Quelle sono solo stupide battaglie civili da quattro soldi.” Prussia accavallò le gambe, gonfiò il petto con una smorfia. “Comunque, anche il nostro è solo un governo fantoccio. Ribaltare come un guanto la repubblica sarebbe la scelta più azzeccata degli ultimi dieci anni.”

Gilbird pigolò e scosse il corpicino, gonfiandosi le piume. Lo sguardo di Prussia tornò ad abbassarsi sul tavolo, gli occhi si posarono sul giornale aperto. L’inchiostro nero e rosso era leggermente sbavato ai bordi, e luccicava sotto la luce della stanza.

“Però continuo ad avere l’impressione che tutti stiano andando avanti lasciando noi congelati qui,” disse Prussia. “Persino il piccolo Italia si sta dando da fare più di noi.”

La mano di Germania fermò il pennello. Gli occhi fissarono il vuoto, si persero nelle palpebre spalancate. Smise di respirare.

 

Italia distendeva il sorriso sulle labbra, il sole dietro di lui si rifletteva sull’elmetto troppo grande che gli nascondeva gli occhi. Italia si metteva rigido sull’attenti, piegava il braccio e batteva il fianco della mano sbagliata sull’elmo in un impacciato saluto militare. Germania allungava il braccio, stringeva le dita fasciate dal guanto nero attorno al visore dell’elmetto di Italia e glielo sollevava dal viso. Due scintille nocciola splendettero nella penombra. Il suo sorriso si allargava e le guance si tingevano di rosso. La bocca si mosse, parole mute uscirono dalle sue labbra.

 

Una goccia colò dalle setole del pennello e Germania scosse il capo. L’immagine di Italia si sciolse, lasciando spazio al quadrante dell’orologio a cucù. La lancetta tornò a muoversi, il ticchettio rimbombò come una sequenza di martellate.

Le dita di Germania lasciarono scivolare il manico del pennello verso il basso. “Italia.”

“Mhm? Che hai detto?”

Germania strinse la presa. Sollevò la mano libera e sfregò le unghie su una tempia. “Nulla.”

Le gambe della sedia di Prussia sfregarono il pavimento. Prussia raddrizzò la schiena e fece scricchiolare le braccia e le spalle. Gilbird svolazzò sulla sua testa, appollaiandosi sul nido di capelli.

Lo sguardo di Germania saettò verso di lui. “Dove vai?”

“Fuori.” Prussia gli diede le spalle e camminò verso la porta. “Approfitto del fatto di avere uno spazio solo mio, quando posso permettermelo.” Strinse la maniglia e poggiò la spalla sulla porta. “Preferirei evitare di sentirmi troppo stretto, almeno ogni tanto.”

Spalancò la porta e la richiuse alle sue spalle.

Silenzio. Il tempo scorreva scandito dal rumore delle lancette che si spostavano sulle linee numerate. Germania posò il pennello e lasciò stare la baita di legno laccato. Il giornale aperto copriva metà della tavolata, gli angoli sciupati ciondolavano dai bordi. Germania si alzò dalla sedia e fece pochi passi verso la rivista spiegazzata. Il cuore martellò fino alla gola, il battito tuonava nel cranio più dell’insistente ticchettio degli orologi.

Una foto in bianco e nero di Italia occupava un quarto di pagina. Italia sorrideva a occhi chiusi, e aveva un braccio alzato in segno di saluto. L’uniforme militare era chiusa fino al collo, la stoffa troppo larga gli ciondolava dai polsi, i gradi sulle spalline erano grossi e gli davano un aspetto goffo e impacciato. La fascia che gli passava sul petto si univa alla cinta che gli stringeva in vita. Le medaglie sul taschino e sul colletto erano una macchia grigia per i toni bianchi e neri della fotografia. Alle sue spalle, nell’angolo in basso del riquadro, un profilo di Romano. Lui non sorrideva. Guardava verso la colonna dell’articolo, i suoi occhi bruciavano come se avesse voluto dar fuoco alla carta. Una leggera smorfia gli piegava le labbra e gli arricciava il naso.

Germania toccò la pagina di giornale e ne prese il bordo. Un gesto debole e delicato, come un uomo che prende in braccio un neonato. Strinse le dita e il braccio tremò.

 

“Esercito italiano di ritorno dal fronte. Fiume ritorna a essere parte del Paese.”

 

♦♦♦

 

Le mani di Italia premevano sulla finestra. Attorno alle dita si era formato un leggero alone di condensa ingrandito dal fiato tiepido che soffiava sul vetro. Non c’erano nuvole. Il sole della sera allungava le ombre dei palazzi sulle strade di Roma, e scaldava l’aria. Italia appoggiò la fronte sulla finestra e puntò lo sguardo sul disco giallo che si stava abbassando. Fece un piccolo sorriso. L’aria sognante assorbiva i raggi dorati che si riflettevano sulle iridi castane.

La porta della sala si spalancò, Italia vide il riflesso sul vetro dell’anta che si apriva. Si voltò di scatto e allargò il sorriso.

“Bentornato, fratellone.”

Romano slacciò un bottone dorato sulla cima della divisa scura. Infilò due dita nel colletto e allargò la stoffa, inclinando il capo di lato. La porta si richiuse dietro di lui. Romano tenne lo sguardo basso e si scompigliò i capelli, il ciuffo arricciato rimbalzò sulla spalla. Italia fece un passo in avanti, e i raggi del sole coronarono la sua sagoma.

“Com’è andata?”

Le labbra di Romano si piegarono sotto l’ombra del viso. Un sottile ghigno di soddisfazione. Romano guardò il fratello e si sbottonò un’altra chiusura della giacca.

“Questione fiumana definitivamente risolta. Da oggi è ufficialmente di nuovo sotto il governo italiano.”

Il viso di Italia brillò più del sole alle sue spalle. Il ragazzo fece un salto sul posto e alzò le braccia al soffitto. “Evviva!”

Corse con due falcate verso Romano e si gettò al suo collo. Le braccia di Italia gli circondarono le spalle, le dita stritolarono la stoffa della giacca, e le due guance premettero l’una sull’altra. Entrambi barcollarono all’indietro.

“Ce l’abbiamo fatta!” esclamò Italia.

Romano allargò le braccia e fece un passo all’indietro. Inclinò la testa di lato, scollandosi da quella di Italia. Il ghigno divenne una smorfia di disgusto.

“Va bene, va bene, ma ora lasciami, mi stai soffocando.”

Italia si slacciò dal fratello e fece un altro piccolo salto. Le mani si giunsero davanti al petto.

“Non riesco nemmeno a crederci che stiamo andando così bene.”

“Be’...” Romano tirò un lembo della giacca e finì di sbottonarla. La sfilò, rimanendo solo in camicia, e la mise sullo schienale della sedia di fianco al tavolo. “Ora che ci siamo messi in pari con gli affari interni, è ora di prenderci qualche rivincita.” Si appoggiò di schiena sul tavolo e saltò sul bordo. Le gambe dondolavano, i piedi ciondolavano sfiorando il pavimento. “È il momento di far vedere a quegli altri bastardi con chi hanno a che fare. Altro che territori vitali e tutte quelle cazzate lì.”

Italia giunse le mani dietro la schiena e piroettò verso Romano. Annuì con un sorriso, e la luce del sole gli fece splendere il volto. “Sta andando meglio del previsto.”

“Già. Possiamo quasi considerarlo il nostro nuovo periodo d’oro.” Romano aprì i palmi dietro la schiena e piegò il collo all’indietro. Il ciuffo arricciato scivolò dietro la spalla. “Nonno ne sarebbe contento.”

Il sorriso di Italia sbiadì lentamente. Chinò di poco il capo in avanti e camminò verso la vetrata, passando attraverso l’ombra di Romano. La palla di fuoco si era già abbassata. Le chiome degli alberi sui bordi delle strade si stavano scurendo, e alcune case avevano già le finestre che brillavano.

“Credi che lui lo sappia?”

Romano fece una risata acida che gli scosse le spalle. “Dal cielo si vede tutto.”

“No, no, non il nonno.” Italia scosse la testa. Poggiò una mano sul vetro e voltò il busto verso Romano. Il viso rimase per metà in penombra. “Germania.”

Le gambe di Romano smisero di dondolare. Le mani aggrapparono il bordo del tavolo, le unghie scalfirono il legno lucidato. Romano fece stridere i denti, la schiena tremò come aggredita da brividi.

“Perché dovrebbe importarmi?”

Aveva inasprito il timbro. Italia sussultò.

Romano voltò il capo all’indietro e lo trapassò con un’occhiataccia. Il suo viso era nero.

“Perché dovrebbe importare a noi?”

“Pe-perché...” Italia distolse lo sguardo. Sollevò un piede e prese a strofinarsi la caviglia. Le dita si intrecciarono, la pelle iniziava a sudare. “È da quando...” Si strinse le spalle, le unghie graffiarono la pelle delle mani. “Da quando è successo che noi non ci siamo nemmeno visti. Vorrei solo sapere come sta e chiedergli se è ancora arrabbiato.”

Romano fece un’altra risata amara. Schioccò la lingua e tornò a puntare il naso al soffitto.

“Be’, bene di certo non sta, visto tutto quello che deve pagare per quel casino che ha combinato. Testa di Patata ha avuto quel che si meritava.” Il tono divertito tornò più serio e profondo. Le dita tamburellarono sul tavolo. “E se fosse ancora incazzato non m’importerebbe nulla. Dovremmo essere noi, quelli ad avercela con lui.”

“Non dire così,” piagnucolò Italia. Si appoggiò alla finestra e lo sguardo s’intristì. “Se lui vedesse quello che stiamo facendo per il nostro paese, forse capirebbe che siamo diventati forti e potremmo fare la pace.”

“Se la tenga.” Un piede di Romano sbatté contro la gamba del tavolo. Il ragazzo alzò il tono e ingobbì la schiena. “Se siamo finiti nella merda è solo colpa di quel crucco bastardo. Noi non abbiamo colpe, abbiamo semplicemente fatto bene ad andarcene da lui prima che la cosa ci seppellisse completamente.”

Italia smise di sfregarsi la caviglia. Guardò a terra e socchiuse le palpebre.

“Sì, è quello che ha detto anche il fratellone Spagna, ma...” Prese un piccolo respiro. La stanza rimase in silenzio. “Ho infranto la promessa, ed è solo per questo che continuo a sentirmi un codardo.”

Romano prese un sospiro. Tornò a voltarsi e i due sguardi si incrociarono. Quello di Romano non era più livido. Gli occhi scuri brillavano nella penombra, gli ultimi raggi di sole gli illuminavano i capelli.

“Noi non siamo codardi.” Inarcò le sopracciglia e fece una smorfia di disprezzo. “E se Testa di Patata volesse tenerci il broncio a vita, che si accomodi. Non ci stiamo perdendo niente.”

“Io sì.”

Romano lo fulminò. Piegò un angolo delle labbra fino a che la fronte non fu una ragnatela di pieghe. Italia si morse il labbro inferiore e guardò il fratello tenendo la fronte bassa. Un cagnolino bastonato messo davanti al padrone.

“Se... se solo ci fosse una maniera per poter tornare alleati, allora...”

“Veneziano!”

Romano saltò giù dal tavolo pestando i piedi a terra. Ingrossò le spalle e fece un passo pesante verso Italia. Il viso bruciava sotto la luce rossa del sole.

“Ti sei forse fottuto il cervello? Vuoi per caso un’altra guerra?”

“N-no, io non...” Italia scosse la testa. La voce tremava, squillante come un sonaglio. Strinse i pugnetti sui fianchi e fece un passo barcollante in avanti. “Io vorrei solo ritornare di fianco a lui anche solo per... per... chiedergli scusa. Nemmeno io voglio un’altra guerra.”

Romano inarcò un sopracciglio e trattenne il fiato nel petto. Lo sguardo di Italia vacillava, le palpebre e le labbra tremavano.

“Perché dovremmo per forza far succedere tutto di nuovo?” disse Italia. “Essere alleati non vuol dire fare le guerre.”

Romano sbuffò. Annodò le braccia al petto e gettò la testa di lato. Il naso tornò ad arricciarsi in una smorfia. “La fai troppo semplice. Le nazioni non sono fatte per tenersi per mano senza combinare niente, Veneziano. Tu sei...” Si strinse le spalle e inasprì la voce. “Sei troppo ingenuo. È per questo che ti sei fidato di lui, quella volta, e alla fine ci stava trascinando nella merda insieme a lui.”

“Ma ora...” La voce di Italia vacillò. “Ora siamo più forti, lo ha detto anche tu.”

“E non lo siamo grazie a lui.” Romano fece un passo in avanti. L’eco tuonò sulle pareti della sala. “Non è grazie a lui che stiamo tornando come un tempo. L’unico suo merito è solo quello di –“

“Chiedo scusa.”

Gli sguardi dei due fratelli puntarono la porta. L’anta era socchiusa, un’ombra si allungava lungo il pavimento. Il segretario allungò la mano nella stanza ancora prima di entrarci. Le dita stringevano un foglio di carta gialla piegato in due.

“Disturbo?”

Romano sbuffò e tornò a incrociare le braccia sul petto. “Spero sia maledettamente importante.”

“Telegramma urgente.”

Romano sollevò un sopracciglio. “Telegramma?”

Si avvicinò e prese il telegramma dalle mani dell’uomo senza guardarlo in faccia. Gli diede le spalle e infilò le dita nello spazio tra i due fogli, sventrando la carta. Il segretario fece un passo all’indietro e uscì dalla stanza. La porta si richiuse.

“Di chi è?” chiese Italia.

Romano non rispose. Tenne il foglio aperto davanti al viso, gli occhi correvano sulle poche righe stampate, le palpebre si infossavano a ogni parola letta. Il viso sbiancò.

“Romano?”

Il bianco della pelle avvampò di rosso. Romano soffocò un gemito tra i denti e appallottolò la carta. Strappò un angolo con le dita sudaticce e si ficcò il foglio stropicciato nella tasca.

“Quell’idiota di un bastardo.”

Si avvicinò al tavolo. Diede un calcio alla sedia e la spostò di lato. Riagguantò la giacca e infilò solo una manica. Romano camminava già verso la porta.

“Aspetta, dove vai?” gli chiese Italia.

“Affari miei.”

Romano finì di vestirsi. Il colletto della giacca rimase ribaltato in avanti, il risvolto di una delle maniche era mezzo piegato verso l’interno.

“Vedi, è di queste cose che stavo parlando prima,” disse tra i denti.

Si appese alla maniglia e spinse la porta. Italia lo trattenne per la giacca con un gesto insicuro.

“A-aspetta, è ancora per il fratellone Spagna?”

“Lascia stare.”

“È per la guerra civile?”

“Ti ho detto di lasciar stare, Veneziano!”

Romano lo spinse via, scollandosi la sua mano di dosso con uno schiaffo. Italia guaì come un animale bastonato. Romano spalancò la porta e si aggiustò il colletto della giacca. Il suo tono s’indurì.

“Sto via per un paio di giorni.”

Italia si giunse le mani sul ventre. Abbassò lo sguardo e annuì debolmente con aria abbattuta.

“E, Veneziano,” Romano si girò di scatto, il braccio teso, l’indice puntato su suo fratello, e gli occhi freddi coperti dall’ombra, “non inventarti qualche cazzata delle tue, chiaro? Altrimenti giuro che ti strangolo.”

Italia piagnucolò. Si strinse le spalle e separò piano le labbra. “Sì.”

Piegò il collo in avanti fino a toccarsi il petto con il mento. Le palpebre bruciavano, ma lui non pianse. Era ancora troppo presto per farlo.

   
 
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