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Autore: wilderthanthewind    07/09/2014    1 recensioni
Tra i banchi della Edgemont High School tante sono le cotte che sbocciano, i sogni che si distruggono, le passioni che si coltivano, le storie che iniziano e che finiscono.
Una storia di certo inizia.
È quella di Denise McCoy, una ragazza muta, e Ashton Irwin, il ragazzo che ritroverà tutte le sue parole.
La loro storia è scritta su pezzi di carta, ma chi non sa del resto che la carta è così fragile?
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 6


8 settembre 2013, 21.24

Caro diario,

è trascorsa un'altra giornata fatta di paure.

Il mondo, come sai, mi terrorizza sempre più.

È così... spaventoso. Non esistono altre parole per descriverlo. Ogni giorno mi addentro in qualcosa a cui cui sono totalmente estranea, è più forte della solitudine. È un disagio che mi causa un brivido lungo il corpo, come le note più basse di un pianoforte scordato che risuonano, inquietando l'atmosfera, alla più leggera pressione di quei tasti di periferia che mai nessuno tocca. Un disagio scaturito dal profondo, esattamente come quelle note basse che l'udito riesce appena a percepire, qualcosa di profondo che l'umano non riesce a riprodurre seppur dotato di gran talento. In nessun caso.

Non voglio che le altre persone si avvicinino a me. Mi fanno paura. Loro non mi appartengono. Io non appartengo a loro. Loro non sono in grado di immergersi in questo infinito pozzo di oscurità in cui vivo ormai da tempo immemore. Loro non possono raggiungermi.

Le altre persone sono normali. E io non lo sono.

Le loro voci risuonano nella mia mente, alcune rimbombando, altre squittendo. Riempiono i miei pensieri, rafforzando le mie paure, realizzando i miei incubi.

Sono angosciata: io non appartengo a questo mondo né a nessun altro. Cosa accadrà se morirò? Dove andrò a finire? Non apparterrò neanche a quel mondo. Ovunque io vada, sarò sempre un invisibile, eppure esistente, punto discordante, indegno di esistere, ma pur sempre esistente.

La morte mi lascia perplessa. A cosa dovrei credere? Cosa incontrerò sporgendomi esageratamente dalla ringhiera?

Entrerò a far parte di un nuovo mondo?

Diverrò pura cenere?

Cosa ne sarà di me e della mia anima?

Smetterò di esistere?

Poiché soffocare la mia anima e tutto ciò di cui s'è sporcata – ed è tuttora sporca – è il mio unico obiettivo. Porre fine per sempre alla mia esistenza. Annullarmi. Come se nulla fosse mai accaduto.

Questo dubbio m'attanaglia ad ogni ora del giorno e della notte. Sono confusa, la mia mente è un continuo blaterare senza senso. È come se i pensieri si trascinassero da una parte all'altra della mia testa, lamentandosi e biascicando, strisciando sulle pareti delle mie tempie che tanto dolgono.

È un'angoscia che non riesco a placare neppure al pensiero della morte, il mio pensiero più ricorrente, nel tentativo di sovrastare tutto il resto.

Caro diario, riesci a capirmi? Sei un pezzo di carta privo di vita; hai un'anima anche tu?

Se fossi umano, ti considererebbero normale?

O saresti come me?

Probabilmente saresti mio amico. Il mio unico amico. Cosa diresti dunque? Per te sarei normale? Come placheresti le mie paure? Come mi salveresti?

No, no, non potresti. Le persone fanno paura. Non esistono eccezioni. Sono un mostro anch'io, del resto.

Dunque mi preparo ad affrontare un'altra nottata, identica a tutte le altre. Mi attendono poche ore di sonno, tormentate dai miei incubi ricorrenti. Chissà chi dei miei mostri tornerà a farmi visita oggi.

 

 

Erano trascorse ormai alcune settimane dall'inizio della scuola. Gli studenti erano ormai abituati al nuovo ritmo che essa imponeva, avendo imparato ad accantonare i ricordi di un'estate leggera. Come al solito, alcuni avevano accettato la nuova routine, altri un po' meno. Decisamente molto meno. Quel lasso di tempo potrebbe sembrare così breve, eppure nella Edgemont High School c'era già così tanto da raccontare: tra i primi test svolti e le nuove amicizie strette, i più spavaldi sarebbero già stati in grado di decretare l'andamento del proprio anno scolastico. “Quest'anno sarà grandioso! Ho già conosciuto un sacco di gente e mi divertirò come non mai”, “Quest'anno voglio impegnarmi e raggiungere i voti più alti, e so già che ci riuscirò” si vociferava tra i corridoi dell'istituto, e i pronostici erano tra i più vari. Nonostante le costanti lamentele di ragazzi pigri e svogliati, l'entusiasmo ad animare le mura dell'edificio recentemente restaurato era abbondante. Per quanto lo potessero negare, in realtà la scuola aveva qualcosa di piacevole, ed erano consapevoli del fatto che una volta completati gli studi obbligatori ne avrebbero sentito la mancanza. Del resto, in quale altra occasione si potrebbe frequentare un luogo del genere? Lamentarsi ogni mattina del sonno, dello stress e dei professori noiosi con i propri amici, essere in continua ricerca del proprio amore, escogitare i più assurdi scherzi nella mensa scolastica, temere i bulli, aspirare ai gruppi dei popolari, fantasticare sui propri idoli. Questioni così frivole eppure così importanti agli occhi degli adolescenti che in nessun altro contesto potrebbero essere vissute, perlomeno non in quel modo.

Ad ogni caso, Ashton Irwin non era interessato a ciò che lui definiva “futili e noiosi discorsi filosofici” in cui talvolta i compagni cercavano di coinvolgerlo per riempire quei tempi morti tra una lezione e l'altra. Per essere più precisi, non era interessato ai particolari discorsi filosofici dei compagni. Preferiva di gran lunga sviluppare i propri punti di vista in solitudine, esattamente come aveva deciso per la cosa di Denise. Trovava, e non per una questione di narcisismo, che le riflessioni fossero qualcosa di fin troppo prezioso da essere condivise con casuali conoscenti. Per quanto essi si mostrassero profondi a tal punto da affrontare tali argomenti, Ashton aveva sempre rifiutato di parteciparvi senza pensarci più di un istante – e non se n'era mai pentito. Probabilmente in molti pensavano che fosse un ragazzo vuoto e senza opinioni, ma gli bastava sapere che non era la verità per vivere in pace e tranquillità.

Ogni sera, nella penombra della propria stanzetta, rifletteva sulla propria giornata; sul passato, sul presente e sul futuro. Immaginava di realizzare i propri sogni, immaginava cosa sarebbe accaduto se avesse scelto un'altra via, rifletteva per ore su argomenti più o meno importanti.

Quella sera si pose quello che all'apparenza si definirebbe il quesito più banale di tutti i tempi: cosa avrebbe fatto da grande. Una di quelle domande che si fanno di continuo ai bambini, la maggior parte delle volte sovrappensiero. Eppure il ragazzo credeva che non ci fosse nulla di banale in quella domanda. Da quella domanda dipendeva tutta la propria vita, e ciò che ne sarebbe derivato, come tutte le persone che avrebbe incontrato o i luoghi che avrebbe visitato.

La realtà era che Ashton Irwin aveva ormai diciott'anni ma non era ancora sicuro della carriera che avrebbe voluto intraprendere, affatto. Un solo anno e avrebbe dovuto iscriversi al college: il tempo stringeva e tutto ciò che continuava a fare era rimuginare sul mestiere che più l'attraeva.

Quando, quattro anni prima, era tempo di iscriversi alla scuola superiore e dunque scegliere le discipline facoltative, aveva preparato dei bigliettini e su ciascuno di essi aveva scritto il nome di una materia, dunque li aveva piegati e mescolati, e con gli occhi chiusi ne aveva pescati tre: studi sociali, educazione civica e arte del dialogo. Non aveva particolari passioni, o meglio, non aveva particolari passioni utili, e la capacità di scegliere con sicurezza non rientrava esattamente tra le sue qualità.

Quella sera, come tutte le sere, Ashton Irwin era disteso sul proprio letto a torso nudo, guardando il soffitto, con una mano sul ventre e l'altra penzoloni giù dal letto. Poteva considerarlo una sorta di rituale serale; del resto, ogni studente aveva una routine e questo faceva parte della sua. Saltare quella parte l'avrebbe scombussolato e non poteva permetterselo.

Pensò che sarebbe stato davvero forte diventare uno psicologo. Analizzare le persone, capirle, salvarle.

 

«Jess! Jessica! Jessica, no! Jessica, cazzo!» le urla stridule gli morirono in gola; la vista era appannata dalle lacrime, sul petto sentiva il mondo cadergli addosso, le gambe gli cedettero.

«Jess» mormorò raggomitolato in se stesso, cercando di strozzare un singhiozzo.

 

No. Ripensandoci, non c'era nulla di bello nella psicologia. Avrebbe potuto formare una band! Gli era sempre piaciuto suonare la batteria, e qualche conoscente gli aveva detto che in lui c'era del talento. Sarebbe potuto diventare interprete? No, meglio di no, aveva una pessima pronuncia in spagnolo. Avrebbe potuto sfruttare le conoscenze di quelle materie facoltative, piuttosto.

Dopo non molto tempo si ritrovò con i propri pensieri arrotolati, attorcigliati e saldi alla misteriosa figura della ragazza muta. Gli capitava spesso ultimamente. “Troppi viaggi mentali, Ash” cercò di ammonire se stesso nel vano tentativo di scacciare Denise dalla propria mente, arrendendosi subito dopo ai propri pensieri. Non aveva torto, del resto, la propria coscienza; cos'era accaduto di così sconvolgente da rubargli quella quiete che caratterizzava il suo rito serale? Non spiccicando parola riusciva a strappargli dal cuore ogni traccia di tranquillità, ogni pensiero e talvolta qualche battito. Dopotutto anche Denise era consapevole di attirare l'attenzione di tutti pur non muovendo un dito, ed entrambi avrebbero preferito di gran lunga che non andasse così.

Ashton la stava involontariamente fissando, spaventandola, dunque le aveva chiesto scusa su un misero pezzo di carta che dopo varie fatiche Denise aveva letto. Cos'era a sconvolgerlo? L'indecifrabile espressione che caratterizzava il suo volto?

Ad ogni caso, sapeva che così come allora, in futuro non sarebbe riuscito a dimenticarla, neanche per un istante. In un certo senso si era rassegnato. Era ancora convinto che una volta immerso in questa storia, non ne sarebbe uscito se non una volta conclusa. Dunque, rifletté sulla mossa successiva da compiere.

Nonostante Denise fosse venuta a conoscenza del messaggio che Ashton aveva in serbo per lei, quest'ultimo non aveva raggiunto uno dei principali obiettivi che si era prefissato nel momento in cui aveva notato la ragazza per la prima volta: stabilire una comunicazione. Al momento non gli interessava altro, era ormai diventata una questione di vita o di morte. Uno sfizio personale, supponeva; non ne era sicuro in realtà, ma certo era che si sarebbe rivelata una grande soddisfazione riuscire a udire la voce di una ragazza muta.

Non era stupito tuttavia di non aver ricevuto risposta: non si trasforma quella che si può definire poco più di una sconosciuta da un giorno all'altro, naturalmente. Ma sebbene la propria missione richiedesse un'enorme ed indefinita quantità di tempo, non si sarebbe arreso; anzi, la motivazione in lui cresceva sempre di più.

Si sollevò senza l'ausilio delle braccia, facendo forza sugli addominali, e si mise seduto a gambe incrociate sul letto. Dunque raggiunse a piedi scalzi la scrivania e prese una penna e un blocco appunti la cui carta somigliasse a quella del taccuino di Samuel: voleva che Denise la riconoscesse, “magari sarà più propensa a leggere il mio messaggio”, pensò. Posizionò accuratamente la mano sul foglio, distendendo il palmo e aprendo per bene le dita; con l'altra impugnò la penna. Apparentemente pronto, sul punto di iniziare a scrivere si fermò e alzò lo sguardo. Restò immobile alcuni minuti, a cercare le parole adatte, talvolta inumidendosi le labbra con la lingua. Dopo un po' chinò nuovamente il capo sul foglio.

 

 

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