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Autore: Its all good    09/09/2014    1 recensioni
Cos’è la cosa più importante quando si è giovani? L’amore. Cercarlo ovunque perché si ha paura di restare soli. Ma cos’è che succede quando l’amore si presenta? C’è chi scappa, c’è chi l’abbraccia e c’è chi si dimostra indifferente. Quando l’amore è ricambiato è una bella cosa, vero? Beh, sì. E cosa succederebbe se, per caso, la persona amata non si ricordasse più della sua metà? E se lei o lui decidesse di vivere un’altra vita? E se entrambi provassero a lasciarsi alle spalle il passato? E se l’amore si presentasse davanti ad un caso impossibile da vivere? Come si comporterebbe l’amore davanti ad una scommessa fatta nel passato ma rivelatasi soltanto nel presente? Come si comporterebbe di fronte all’odio? E di fronte ad una perdita? E davanti ad un terzo incomodo? E davanti ad una creatura non tua? Difenderebbe l’amore della sua vita mentre quest’ultimo è impegnato in un altro amore? E l’amore non predisposto? Come può questo sentimento, capace di farti sorridere, diventare il sentimento più brutto al mondo? Può diventare odio dopo averti regalato un paio di ali? Può strappartele per farti precipitare? Sì. Purtroppo, proprio questo è successo ad Harry
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Liam Payne, Louis Tomlinson, Niall Horan, Zayn Malik
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Vi preparo dicendo che questo capitolo è abbastanza lungo. :)
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La sveglia quel giorno suonò alle 6:00 che shock.
Rotolai giù dal letto e strisciai in bagno per lavarmi in fretta e furia.
Andai in cucina preparai la colazione senza svegliare papà: la sua sveglia avrebbe suonato alle 7:30.
Mi accomodai alla tavola e mangiai una fetta biscottata con marmellata alla ciliegia insieme a una tazza di caffè.
Non ero molto affamata, erano soltanto le 6:45 di mattina.
«Non mi hai svegliato». Sbadigliò papà, entrando in cucina.
Io: «Scusa ma dormivi». Prese un po’ di caffè dalla mia tazza.
Papà: «Ti pare che non ti avrei salutato il primo giorno da universitaria? Non ci vedremo per qualche mese». Ridacchiò e annuì.
Okay, aveva ragione.
Io: «Sono in ansia. Sicuramente non riuscirò a dormire i primi giorni».
Papà: «Oh, andiamo». Mordicchiò un biscotto. «Non sarai sola in camera». Annuì bevendo un altro po’ di caffè. «Pronta? Il taxi sarà qui a momenti». Mi alzai per andarmi a lavare i denti e lo sentì dire «Mi dispiace non poterti accompagnare».
Anche a me dispiaceva non averlo accanto ma mi sarebbe dispiaciuto di più andare al college con il pullman.
Un paio di giorni fa feci una semplice prova di quanto tempo avrei impegnato ad arrivare se non avessi trovato un passaggio.
Sarei dovuta uscire di casa alle 6:15 per prendere l’East Coast verso Newcastle.
Quando arrivai alla prima fermata erano le 6:42 e presi un servizio gestito da First Capital Connect.
Terza fermata alle 6:47 Hitchin.
Quarta fermata alle 6:53 per Letchworth.
Quinta fermata alle 6:56 per Baldock.
Sesta fermata alle 7:01 per Ashwell&Modern.
Settima fermata alle 7:06 per Royston.
Ottava fermata alle 7:10 per Meldreth.
Nona fermata alle 7:13 per Shepreth.
Decima fermata alle 7:16 per Foxton.
Undicesima fermata alle 7:29 a Cambridge. Finalmente.
Percorsi per circa venticinque minuti, con orologio alla mano, per arrivare all’università.
Alle 7:54 fui davanti al cancello centrale.
Il tutto mi demoralizzò fino a che non trovammo un taxi disposto ad accompagnarmi, e risparmiandomi tutte quelle fermate e la sveglia non sarebbe stata impostata sulle 5:20.
//.
«Bene, ecco la sua valigia». Disse l’autista non appena uscì dal taxi che si era fermato fuori l’università, una grande università.
Io: «Grazie. Buona giornata». Come risposta ricevetti un cenno del capo ed entrò nell’auto per lasciarmi lì con le mie due valigie, fortunatamente in versione trolley.
Mi recai nell’ufficio della presidenza per mostrare i miei documenti d’ammissione e una carta d’identità per farmi dare la giusta camera e le chiavi e l’uniforme.
Un signore molto fu molto gentile di accompagnarmi alla porta della mia futura camera portando una delle mie due valigie. Mi lasciò le chiavi e un libro di cui non avevo ancora letto il titolo.
Lo ringraziai e aprii la porta.
Una stanza al primo impatto accogliente: parenti beige, un lampadario a forma di palla, un tappeto marrone, una scrivania con una sedia color verde, un armadio a due ante, tra cui una tempestata di poster e fogliettini, un computer sulla scrivania, una finestra che affacciava sul giardino enorme e… due letti.
Quindi, non ero sola.
Lasciai le valigie accanto all’armadio non ricoperto da poster o roba varia e mi accomodai sul mio letto. Capii subito quale fosse dal momento che quell’altro aveva un cuscino con su scritto “Ti voglio bene”.
Guardai l’orario tramite il mio cellulare: 8:50.
Avevo perso parecchio tempo in ufficio ma ora potevo fare quel che volevo.
Mi avevano concesso un giorno libero per ambientarmi e sistemare tutte le mie cose.
Presi il libro che mi avevano dato: University of Cambridge. Un fascicolo lungo duecento pagine.
Non sarei mai riuscita a leggerlo tutto ma tanto vale cominciare.
L’università di Cambridge è la seconda per anzianità delle università del Regno Unito, dopo quella di Oxford, e la quarta in Europa. Situata nell’omonima città dell’Anglia orientale, è considerata fra i migliori centri universitari britannici e mondiali: ospita quasi 20000 studenti e più di 5000 fra ricercatori e professori. Secondo la leggenda venne fondata da…
«Finalmente prima ora andata». E la porta si chiuse. Portai lo sguardo su di essa e trovai una ragazza abbastanza alta e magra, con occhiali da vista neri quasi come il colore dei suoi capelli che le arrivavano sulle spalle, che si pietrificò alla mia vista. «Come sei entrata qui?». In tutta risposta mostra le chiavi e si rilassò. «Oh, a quanto pare ho una compagna di stanza». Sorrise e venne verso di me. «Io sono Benedetta Shelley». Agitò la mano poi si buttò seduta sul letto.
Io: «E io sono Sharon Styles». Una scintilla si accese nei suoi occhi.
Benedetta: «Bel nome». Sorrise. «Puoi chiamarmi Bene, se vuoi. Niente soprannomi come Benni, mi fanno sentire un cane». Ridacchiai.
Io: «Okay, Bene». Scandii bene il suo nome.
Benedetta: «Oh, non dirmi che stai davvero leggendo quel libro». Fece una smorfia.
Io: «Sì, beh…». Si sporse, dopotutto i due letti distavano soltanto due passi, e lo prese dalle mie mani.
Benedetta: «Avevi appena cominciato. Direi che ti ho decisamente salvata dalla noia».
Io: «Beh, mi avevano detto di leggerlo e dal loro tono è sembrato più un compito da portare per forza a termine».
Benedetta: «Okay, ti dico io cosa deve interessarti e ti faccio un piccolo riassunto. Tieni». Mi restituì il fascicolo. «Apri dalla parte dell’indice e leggi in ordine le parti illustrate».
Io: «Università di Cambridge».
Benedetta: «Che stavi già leggendo ma che non hai finito». Annuì. «Dove sei arrivata?».
Io: «Che secondo la leggenda la scuola venne fondata da…?».
Benedetta: «Oh, okay. Venne fondata da alcuni studenti dopo essere fuggiti da Oxford a seguito di una lite coi locali. Non è necessario sapere altro. Vai al prossimo punto».
Io: «Fondazione».
Benedetta: «Si narra che le origini dell'università derivino da una condanna a morte perpetrata verso due studenti ad Oxford per l'omicidio di una donna, con l'assenso di re d'Inghilterra. Ciò avrebbe causato proteste da parte del corpo studentesco, portando alla sospensione delle attività didattiche». Fece una faccia strana. «In molti furono indotti a lasciare la città, divenuta ostile, per recarsi altrove, come a Reading o a Parigi. Anche Cambridge fu una delle mete prescelte nonostante non fosse riconosciuta come università. La sua intenzione era di regolamentare la vita nella piccola città. Nel 1290, credo, venne assegnato a Cambridge lo statuto di studium generale da un papa e divenne così frequente il transito di docenti di varie istituzioni europee presso l'università britannica per dare lezioni magistrali».
Io: «Mi hai praticamente riassunto ventisette pagine sulla Fondazione». Rimasi incredula dalla sua capacità di sintesi. Ridacchiò.
Benedetta: «Dai, avanti il prossimo. Ho intenzione di portarti a fare il giro del college».
Io: «Ma salterai le ore a causa mia». Protestai.
Benedetta. «Tanto ho già perso la seconda». Portò gli occhi alla sua sinistra. Non l’avevo visto ma dopo l’armadio c’era un orologio che puntava le 9:25. «Su, vai». Mi incitò con un gesto della mano.
Io: «La nascita del collegi».
Benedetta: «Di questo puoi farne a meno. Avanti il prossimo».
Io: «Matematica applicata e fisica». Scosse la testa. «Contributi al mondo scientifico». Scosse di nuovo la testa. «Istituzione femminile».
Benedetta: «Okay, questo ci interessa. Inizialmente, erano ammessi all'università solo alunni maschi. La prima volta in cui le donne furono ammesse a partecipare ad esami fu nel 1882, ma i tentativi di rendere le studentesse membri ufficiali dell'università fallirono fino al 1947. Cambridge non concesse diplomi di laurea alle donne fino al 1921, anche se era loro consentito seguire le lezioni e dare gli esami, con il risultato che venivano rilasciati diplomi secondari oppure sotto il nome di altre istituzioni di studio. Il Churchill College fu il primo ad ammettere studenti sia maschi che femmine, seguito rapidamente da tutti gli altri. Infine, se la memoria non mi inganna, nel 1988 tutti i collegi più tradizionali furono aperti anche alle donne. Non è facile ricordarsi tutte queste date». Sorrise. «Vai alla parte Tradizioni, miti e leggende. È la mia preferita». Annuì trovando le pagine. «Una di queste tradizioni è il cucchiaio di legno, un premio assegnato a colui che riceveva il voto più basso, che non fosse una bocciatura, nel Tripos di matematica. Uno degli avvenimenti più conosciuti è il tradizionale concerto di Natale, che si svolge annualmente la sera della vigilia e viene trasmesso in diretta nel Regno Unito dalla BBC, sia per radio che per televisione. L'evento si tiene nella cappella del King's College ad opera del coro, che è costituito da studenti del nostro collegio. Una leggenda dice che il famoso Ponte matematico costruito da Newton venne assemblato inizialmente senza viti, utilizzando solo l'ausilio di un corretto bilanciamento delle forze fisiche. Un mito riguardante la ricchezza del Trinity College spiega come sia possibile camminare per tutta la strada fra Cambridge ed Oxford su terre di proprietà del collegio stesso».
Io: «Cavolo, è così emozionante». Ridemmo insieme e ritornai all’elenco. «Oh! Parlami dello Sport».
Benedetta: «Questo è qualcosa che devi chiedere a mio fratello». Fece una smorfia. E sospirai. «Però, va beh, ci provo a spiegarti qualcosa senza termini sportivi: sono negata». Ridacchiò poi si schiarì la voce. «Lo sport più praticato e popolare è il canottaggio, data la vicinanza con il fiume Cam. Popolari sono anche le bumps, che sono particolari gare fra gli equipaggi dei diversi collegi dove una serie di imbarcazioni partono a distanza ravvicinata per rincorrersi lungo il percorso. L'obiettivo è riuscire a toccare l'avversario di fronte: chi ha successo nell'impresa può partire dalla posizione superiore il giorno successivo e così via fino a raggiungere la Head of the River. Annualmente si tiene la regata Oxford-Cambridge, che noi chiamiamo The Boat Race dove, lungo il Tamigi, gareggiano i due equipaggi migliori delle due istituzioni. Un altro sport è il Varsity Matches, tenuti sempre contro la rivale Oxford». Sorrise e sospirò. «Come sono andata?».
Io: «Promossa». Ridacchiò.
Benedetta: «OH! UNA COSA DEVO DIRTELA!». Si alzò elettrica dal letto e la seguii con lo sguardo.
Io: «Okay, spara».
Benedetta: «I collegi offrono vari eventi ufficiali durante l'anno come cene e balli per festeggiare la fine del trimestre o degli esami, o per darci la possibilità di rilassarci e prendere una pausa dallo studio. La Formal Hall, che si tiene a cadenza regolare durante il term e consiste in una cena formale nella sala grande del collegio dove ragazzi indossano smoking e ragazze un abito da sera. Dopo il periodo di esami si tiene il May Week, settimana di festa che è in realtà nel mese di giugno, poco prima che i risultati delle prove vengano pubblicati. Sono organizzati dei balli, denominati May Ball, che durano tutta la notte e nei quali vengono offerte varie forme di intrattenimento musicale, fuochi d'artificio, cibo e bevande. La domenica di quella settimana prende il nome di Suicide Sunday, ed è la data preferita per organizzare i Garden Party, buffet all'aperto nei giardini del collegio». Terminò di essere elettrizzata e ritornò a sedersi.
Io: «Non vedo l’ora di parteciparvi! Sono elettrizzata al solo pensiero». Le sorrisi raggiante.
E andammo avanti per non so quanti minuti. Mi parò del Junior Combination Room, comunemente abbreviato come JCR, e del Middle Combination Room, abbreviato come MCR.
Mi spiegò com’è che chiamano il “capo” cioè Master.
Il Senior Tutor si occupa, insieme al Dean, della disciplina e di assicurarsi che l'insegnamento proceda regolarmente; il Tutor è una figura di supporto non accademico e può fare da mediatore nei rapporti fra gli studenti e le autorità universitarie.
Il Director of Studies si occupa del supporto allo studente nel campo accademico, organizzando le lezioni e fornendo resoconti sul progresso degli studi; il Porter controlla l'accesso al collegio, verificando che solo i suoi membri possano entrare quando il college è chiuso ai visitatori.
E altri nomi che dimenticai subito.
Troppe informazioni da immagazzinare in poco tempo.
E ritornammo in camera giusto in tempo per il pranzo.
Mi mostrò il laboratorio di chimica; la palestra colma di attrezzi; l’aula per ogni materia: italiano, matematica, scienze con qualche scheletro umano e di animale sparso per la stanza; l’aula di musica, enorme, organizzata con strumenti, casse e anche una decina di microfoni.
Mi guidò fino alla sala pranzo e fui invasa da un odore squisito.
Secondo il mio olfatto sul menù del giorno c’era polpettone.
Prendemmo uno dei tanti vassoi rossi e facemmo la fila per il pranzo.
Oltre al polpettone presi anche una mela e una bottiglina d’acqua.
Benedetta: «Okay, se ti guardano tutti è normale». Mi sorrise e mi prese sottobraccio per accomodarsi: tra i tanti tavoli rossi con numeri scritti in bianco scelse il numero dodici. Studiai tutta la sala e pensai di essere l’unica a non portare l’uniforme scolastica finché non scorsi un paio di ragazzi con vestiti “normali”. «Tranquilla, alla mensa ci è permesso non indossare l’uniforme. C’è chi prima di pranzare si cambia d’abito per poi venire qui. Come puoi vedere, alla tua destra, ci sono ragazzi in pantaloncino». Sorrise.
Io: «Tu non ti senti imbarazzata? Voglio dire, sei o no al primo anno?». Annuì mentre salutava con un gesto della mano due ragazze.
Benedetta: «Quelle seguono il nostro stesso corso di sociologia». Mi sorrise. «E comunque, sì sono al primo».
Io: «E come puoi essere così spontanea?». Mi torturai il labbro.
Benedetta: «Mio fratello è al terzo anno. In realtà dovrebbe essere al quarto ma perse un anno a causa delle troppe assenze: diciamo che gli capitò un anno sfortunato tra febbre, morbillo… e tante cose imbarazzanti». Ridacchiò. Quarto anno quindi… 20 anni. «Quindi conosco un paio di persone grazie a lui e so come funziona grazie alle sue dritte». Fece spallucce.
Io: «Oh, quindi ti ha lasciato un’eredità». Ridacchiò e mangiò un pezzo di polpettone.
Benedetta: «Tu come hai fatto ad essere ammessa? E non hai diciassette anni come me, giusto?».
Io: «No, ho diciannove anni. Mi hanno accettato solo perché provengo da una scuola italiana, sembra strano ma le parole esatte del Master sono state E’ un grande piacere avere al nostro college una ragazza diplomata ad un liceo italiano dopo aver frequentato gli studi per un anno nel Regno Unito. Chiuderemo un occhio sulla sua età solo perché sarebbe uno spreco rifiutare un’alunna con i suoi voti».
Benedetta: «Beh, sì, loro sono sempre in competizione con l’altro college e quindi avere te nel nostro… mh… farai parlare di questa scuola come la prima che accetta alunni stranieri». Fece una smorfia e poi mi sorrise.
Io: «Mah, sarà». Addentai un po’ di polpettone. «Nel pomeriggio c’è il continuo delle lezioni o…?».
Benedetta: «Siamo LIBERI di girovagare per il college». Sorrise. «Questo vuol dire assistere agli allenamenti dei ragazzi». Ridacchiò. «Ti farò conoscere mio fratello e il mio ragazzo». Arrossì.
Io: «Oh, e così hai un ragazzo». La punzecchiai. «E non sono qui?».
Benedetta: «Josh, il mio ragazzo, oggi non è qui sta terminando un progetto di scienze per domani e oggi non vorrebbe perdere l’allenamento quindi lui e il suo gruppo, a cui è stato affidato questo progetto, hanno preferito mangiare in camera. Mio fratello, George, è seduto al solito tavolo: il sette». Cercai con lo sguardo il tavolo ma non lo trovai: troppi vassoi popolavano i tavoli, quindi che coprivano i numeri. «E tu non sei fidanzata?». Ingoiò l’ultimo pezzo di polpettone e bevve un sorso d’acqua.
Io: «Lo ero». Sorrisi amaramente. «Poi però non ha funzionato e quindi sono single da dieci mesi». Fece una smorfia dispiaciuta. «E tu da quanto sei fidanzata?».
Benedetta: «Quasi tre anni». Rimasi sbalordita. «Sì, mi fidanzai all’età di 14 anni mentre lui ne aveva 16». Sorrise. «Non pensavamo che saremmo durati così tanto». Ridacchiò. «E ora non riesco a immaginare una vita senza lui». Oh, cara mia… era lo stesso anche per me. Le sorrisi dolcemente. «Lui è al terzo anno, è un anno più piccolo di mio fratello ma si conoscevano dapprima di venire al college». Un anno più piccolo quindi 19 anni, la mia età.
Ci alzammo dal tavolo dopo pranzato, posammo i vassoi e percorremmo il lungo corridoio per arrivare alla nostra camera numero 101.
Benedetta: «Credo che dovresti liberare le tue valigie». Chiuse la porta alle sue spalle.
Io: «Oh, hai ragione».
Benedetta: «Beh, questa parte è la mia… come se non l’avessi capita». Ridacchiò a causa del suo rendere l’armadio “una parte di me” con fotografie e poster. «Quella è tua». Aprì le ante. «Dai, apri le valigie che ti aiuto».
E così aprii le valigie e pian piano posammo le magliette: avevo portato di tutto, come al solito.
Perfino la maglietta di Harry comprata a Parigi.
Posammo qualche vestitino che papà mi aveva costretto a portare dicendo “sei una ragazza e una ragazza ogni tanto indossa vestitini, se non sempre. E poi al college non vorrai sembrare il solito maschiaccio?” beh, non mi sarebbe dispiaciuto.
Io: «Chi ha fatto la proposta a chi?». Mi guardò confusa. «Te e mh… il tuo ragazzo di cui non ricordo il nome». Ridacchiò.
Benedetta: «Josh. La proposta la fece lui e fu molto semplice. Insomma, io avevo soltanto 14 anni e lui 16». Posò il mio unico pantalone bianco. «Eravamo nel giardino di casa mia e lui era qui per George, ovviamente. Avevano passato la giornata a giocare alla playstation. Tre anni fa avevo un cagnolino che beh, è morto due anni dopo quella serata. Era arrivata l’ora di portarla fuori per un bisognino e fuori era abbastanza buio e non mi andava di portarlo fuori da solo e Josh si offrii per accompagnarmi mentre George cercava tra la sua marea di giochi il prossimo da provare. Portai Stella, il mio cane, in una specie di parco dove sciolsi il guinzaglio per lasciarla libera e beh…». Arrossì. «E’ difficile da spiegare. Ci siamo seduti sulla panchina e lì, beh… è scoppiato il bacio e mi ha chiesto di essere la sua ragazza». Posai un altro pantalone e la guardai.
Io: «Oh, è una cosa così tenera, Bene». Mi guardò con lo sguardo addolcito.
Benedetta: «Sì, però basta parlare di me, mi mette in imbarazzo. Parliamo di te». Fece un sorriso malizioso. «Qui ci sono dei ragazzi davvero carini, gentili e dolci. C’è chi è un idiota, come tutti i ragazzi, però quando impari a conoscerli sono tutti bravi ragazzi». Parlava come se frequentasse questo college da venti anni, il che mi piaceva.
Io: «Quindi mi stai dicendo che troverò presto un ragazzo». Rise.
Benedetta: «Capisci al volo quello che dico, mi piaci». Mi diede un colpo scherzoso sulla spalla e si alzò. Si avvicinò alla scrivania e accese il computer, attese un paio di minuti poi entrò in internet. «Partiremo dal terzo anno in poi vista la tua età. Tra la lista di ragazzi impossibili abbiamo: Bradley, quarto anno». Aprii la pagina del profilo scolastico del ragazzo. Carnagione scusa, occhi verdi, capelli neri e un fisico da far paura. «Oliver, terzo anno». Carnagione più chiara di Bradley ma non era bianco latte, occhi nocciola e capelli marroni. «Samuel, ultimo anno». Lui era più chiaro degli altri due. Occhi chiari, quasi grigi, e capelli neri scuro. Metteva ansia, sembrava uno zombie. Ma uno zombie affascinante. «Alexander, ultimo anno». Carnagione abbastanza abbronzata, capelli neri e occhi azzurri e un sorriso stupendo. «E infine Harry». Sussultai. «Quarto anno». Un ragazzo dalla carnagione chiara, labbra grosse, occhi nocciola e capelli biondi. Niente a che fare con Harry Styles ma ciò non toglie che non sia un ragazzo degno di attenzioni.
Io: «Cavolo, e ci credo che siano irraggiungibili». Ridacchiò.
Benedetta: «Se ti si avvicinano non cadere nella loro trappola. Soltanto di loro non puoi fidarti, vogliono solo “giocare”». E si spiegò benissimo.
Io: «Oh, i soliti ragazzi che sanno di essere bellissimi e che se la tirano». Annuì. «Beh, allora dovresti mostrarmi quelli con cui potrei avere una possibilità». Ridacchiò.
Benedetta: «Tranquilla, quelli li scoprirai da sola». Spense il computer e si alzò. «E ora andiamo all’allenamento». Si avvicinò alla porta poi mi guardò. «Mh…». Scosse la testa in disappunto. «Così vestita: camicia bianca, jeans chiaro e scarpette… dai troppo l’aria di essere la nuova arrivata».
Io: «Ma io sono la nuova arrivata».
Benedetta: «Ma non devi darlo a vedere». Si allontanò dalla porta e si avvicinò all’armadio. «Ho visto un vestito carino che mi è piaciuto quando abbiamo posato i tuoi abiti. Quello blu, puoi metterlo con le converse basse che hai portato». Aggrottai le sopracciglia. Avevo portato più di un paio di converse. «Quelle verdi fosforescenti».
Io: «Spiccherò come una luce agli occhi di tutti: “Ehi, guardatemi sono qui”». Rise.
Benedetta: «E’ vero che questo è un college di cui si parla molto per lo studio ma non dimenticarti che qui ci sono anche delle ragazze, tra cui cheerleader. E capisci cosa voglio dire. Non devi passare inosservata, avanti». Mi spinse verso l’armadio e tirai fuori il vestitino. Mi spogliai e posai i vestiti sul mio letto.
Una volta vestita, Bene mi sciolse e i capelli e ci infilò le mani dentro per farli venire mossi, non so come abbia fatto.
Mi tirò per il braccio e mi portò fuori camera chiudendo la porta a chiave. Col suo passo svelto ci trovammo fuori in due minuti e mi tirò, ancora, verso il campo di calcio dove si presume stiano facendo un allenamento. Sentì delle urla provenire da quello che in lontananza sembrarono degli spalti.
«E’ già iniziata?». Le chiesi mentre cercai di tenere il suo passo, fui costretta a guardare dove mettevo i piedi per non sporcare le converse col terreno ed erba, dove stavamo camminando.
Benedetta: «No, sono solo le cheerleader che si allenano. I ragazzi fra poco inizieranno a fare una partita tra di loro. Siamo in tempo».
E in cinque minuti siamo sedute sugli spalti grigi e sul campo da corsa, che gira intorno a quello da calcio, ci sono le cheerleader che provano le loro coreografie in gonnellina e top bianchi e blu.
Hanno una voce fastidiosa e per di più non smettono di urlare come delle papere.
Mi guardai in giro ma vedi soltanto verde e qualche albero in lontananza, dietro di noi c’era il college.
Un fischio attirò la mia attenzione al campo dove c’erano ventidue giocatori più sette riserve per entrambe le squadre.
Io: «Tuo fratello e il tuo ragazzo giocano nella stessa squadra?».
Benedetta: «Sì, la loro squadra è quella che ha il completino bianco e blu. Mentre gli altri con quelle maglie fosforescenti arancioni…».
Io: «Casacche, si chiamano casacche». Ridacchiò.
Benedetta: «Beh, quello che è. Sono comunque del nostro college». Sì, l’avevo capito. «Però non so che numero hanno dietro la maglia il mio ragazzo e mio fratello». Fece una smorfia.
Io: «Che ruolo giocano?». Fece spallucce. «Mh… dove sono posizionati di solito?».
Benedetta: «Non so, una posizione vale l’altra». Disse divertita.
La partita iniziò e il primo tempo volò tranquillamente, senza troppe occasioni di goal per entrambe le squadre.
Il secondo tempo fu più ragionevole ed entrambe le squadre si accanirono l’una contro l’altra.
«Ma è fallo!». Quasi urlai, involontariamente, quando un calciatore di quelli con la casacca arancione fece una brutta entrata, non involontaria, sul numero 9 dell’altra quadra. «Oh, ma l’arbitro non vede un cavolo!».
Benedetta: «Sharon, siediti». Sibilò a denti stretti e mi tirò per il braccio e solo allora mi resi conto di essermi alzata e di essere stata sottoposta agli sguardi di quasi tutti i calciatori e delle cheerleader. Prima figuraccia fatta al college.
Io: «E’ stata una brutta entrata, quel giocatore rischiava grosso». Misi le braccia conserte e sbuffai.
Benedetta: «Quel giocatore è mio fratello». Ridacchiò.
Io: «Oh… ho appena fatto una figuraccia con lui prima ancora di conoscerlo». Ridemmo.
Tre azioni dopo fu il numero 10 a causare un fallo alla squadra con le casacche, che perdevano 1 a 0.
A finale il match si concluse con quel risultato e Benedetta si alzò come una molla per scendere dagli spalti senza preoccuparsi di fare attenzione; io ci misi più tempo: non volevo rischiare di cadere e fare un’altra figuraccia.
Vidi Benedetta abbracciare un ragazzo con i capelli neri, carnagione scura e con un orecchino all’orecchio sinistro.
«…e sei stato bravissimo». Terminò Benedetta quando arrivai da lei. «Oh, eccoti finalmente». Ridacchiò. «Lui è il mio ragazzo: Josh. E lei è la mia nuova amica di camera: Sharon».
Josh: «Josh Cuthbert». Mi porse la mano e potei notare i suoi azzurri.
Io: «Sharon Styles». E ci salutammo molto gentilmente.
«Cavolo, che male alla gamba». Mormorò un ragazzo riccio che si appoggiò alla spalla di Josh e sorrise a Benedetta. Poi guardò me e si sforzò di non ridere. Oh no, lui. «Uh, la ragazza del FALLO». Ridacchiò. Il fratello di Bene.
Benedetta: «Sì, e mia compagna di camera». Gli diede una spinta scherzosa.
«George Shelley». Mi sorrise.
Io: «Sharon Styles». Cercai di non arrossire. Era davvero molto carino.
George: «Se non fosse stato per te l’arbitro non ci avrebbe dato la punizione». Ridacchiò. «Dovresti venire più spesso agli allenamenti e alle partite».
Benedetta: «Oh, sì, ci saremo». Mi fece l’occhiolino. «Anche se non capisco nulla di calcio. Prima mi ha chiesto che posizione tenevate, commentava a bassa voce la partita e imprecava contro l’arbitro. È pazza». Ridemmo tutti e quattro.
Io: «Sei attaccante seconda punta, vero?». Mi voltai verso George che annuì. «E tu sei difensore». Guardai Josh che annuì a sua volta.
Josh: «Forse dovresti imparare un po’ da Sharon, tesoro». Le lasciò un bacio sulla fronte.
Benedetta: «Andate a farvi la doccia, siete sudati da far schifo». Ridacchiò.
George: «Venite da noi più tardi, ci siamo organizzati per una mini-festa tra di noi e tu». Mi guardò. «potrai conoscere più gente del college di cui ora fai parte». Mi sorrise. «A dopo donzelle». Ci sorpassò senza aspettare Josh che stava salutando, ancora Bene, con un bacio leggero sulle labbra poi ci lasciò per seguire George e il resto della squadra negli spogliatoi.
Io: «Che genere di mini-festa parlava tuo fratello? Devo preoccuparmi?». Scosse la testa. «E con quel “più gente” si riferiva a tutto il college o questo è un invito limitato?».
Benedetta: «Non ne ho idea. Sono qui da ottobre ma non hanno mai organizzato una festa in camera di qualcuno ma credo siano poche persone, non dimentichiamoci la grandezza delle stanze». Mi sorrise. «Andiamo, dopo che Josh mi ha abbracciata… credo di aver bisogno di una doccia anche io e in più dobbiamo prepararci per la festa». Mise il suo braccio destro sotto al mio e ci incamminammo verso il college. «Andremo un po’ prima che voglio stare un po’ con Josh».
//.
«Sei sicura di poter entrare? Non si sente niente». Mi mordicchiai il labbro davanti alla porta della camera di George. «Siamo arrivate molto prima, Bene». La guardai. Davvero carina nei suoi vestiti: un pantalone nero, una maglia a bretelline con su una camicia grigia e converse bianche.
Io optai per un semplice jeans chiaro, maglia blu con sopra scritto “I’m in love with you and all your little things”, un regalo da parte dei ragazzi di qualche anno fa, e converse anche io bianche.
Benedetta: «Siamo venute proprio per questo». Alzò un sopracciglio.
Io: «No, tu sei venuta qui per questo: per stare con Josh». Sospirai frustrata. «Cosa farò io mentre gli altri arriveranno? Non posso di certo stare tra te e Josh, non voglio rischiare di essere baciata da uno di voi due». Cercò di non ridere.
Stavamo bisbigliando davanti la loro porta per non farci scoprire, oddio.
Benedetta: «Guarda che mio fratello non è poi così male come compagnia».
Io: «Ma non ci conosciamo nemmeno!». Ridacchiai in silenzio.
Benedetta: «E’ un’ottima occasione per farlo».
Io: «Mh… credo che mi ricorderà per sempre come ragazza “fallo”». Questa volta rise così forte che la porta della camera si aprì qualche secondo dopo rivelando un Josh e un George senza maglia. Arrossì di botto. «Okay». Mormorai e fulminai Benedetta con uno sguardo mentre lei entrò senza cerimonie.
George: «Entri o aspetti lì?». Mi guardò divertito. «Ragazza Fallo?». Dovetti resistere per non ridergli in faccia e lo sorpassai entrando in camera. Salutai Josh con un cenno di mano, lo lasciai a Bene. «Puoi sederti, eh». Mi sorrise.
Da questa serata definirò se George mi starà simpatico oppure se si guadagnerà un posto nel mio libro nero.
Mi accomodai sulla sedia accanto alla scrivania e cercai di guardarlo negli occhi e non di portare il mio sguardo al suo petto ancora scoperto.
Come facevano a condividere la stessa camera se George è più grande?
Ah, già, perse un anno.
Benedetta: «Suvvia, non vorreste guardarvi tutto il tempo?». La guardai seduta sul letto accanto a Josh e stava indicando me e George.
Io: «No, avevano intenzione di prendere esempio da voi e sbaciucchiarci». Mi pentii della battuta così penosa e spostai subito lo sguardo poi li sentii ridere tutti e tre e cercai di ridere anche io per non sembrare in imbarazzo.
Josh: «Simpatica la tua compagna di stanza». Ridacchiò prendendo Bene per mano. «Che ne dici se andiamo a farci un giro fuori?».
Io: «Da soli?». Mi guardarono. «Cioè, soltanto voi due?». Mi guardarono di nuovo. «Non che la cosa mi desse fastidio». Alzai le mani in difesa.
Josh: «Sì, se tu e George volete aggiungervi…». Guardai Bene in modo supplichevole. NON LASCIARMI SOLA IN CAMERA CON TUO FRATELLO CHE PER DI PIÙ NON CONOSCO.
George: «No, io resto qui ad aspettare gli altri che portano la roba». Indossò finalmente la maglia. «Tu non sei costretta a restare qui con me». Mi guardò.
Io: «Preferisco restare qui che fare la candela». Feci spallucce.
George: «Grazie per considerarmi la tua ruota di scorta». Ridacchiò mentre gli sorrisi.
Benedetta: «Okay, noi allora andiamo». Si avvicinarono alla porta. «Trattamela bene». Guardò il fratello prima di uscire.
Mi guardai intorno per la prima volta visto che era l’unica cosa che potei fare in quel momento.
Poster di calciatori da calcio, calciatori da basket e qualche foto attaccati alla parete; un paio di trofei erano poggiati sulle mensole; anche qui un armadio a due ante con entrambe le parti piene di fotografie; due letti separati da un comodino proprio come noi e…
Una chitarra accanto al letto, alla sinistra del comodino.
Io: «Chi la suona?». La puntai.
George seguì il mio dito e sorrise. «Io».
Io: «Uh…». Sorrisi. Non avevo potuto portare la mia chitarra qui al college. «Suoni qualcosa?». Gli chiesi imbarazzata. Mi mancava il suono di quelle corde strimpellate anche se non toccavo la mia chitarra da meno di un giorno. Alzò un sopracciglio e si avvicinò per prenderla.
La tirò dal fodero, una chitarra acustica, e si accomodò sul suo letto, suppongo, di fronte a me.
George: «Ti va bene qualsiasi canzone?».
Io: «Certo, quello che preferisci». Mi sorrise e ci pensò su.
George: «Puoi venirmi dietro con il canto se riconosci la musica». Si trattenne dal ridere. Credeva che fossi stonata o che non fossi stata capace di riconoscere una canzone?
Iniziò a strimpellare qualche accordo e inizialmente mi sembrò una musica sconosciuta e mi limitai ad ascoltarlo poi iniziò a prendere forma e mi ricordò una canzone che ho sempre amato.
Give me love.
E cantai quando entrò nel coro, la voce uscii debole.
Non ho mai superato la mia timidezza per quanto riguarda il canto.
Mi guardò prima sbalordito, forse non si aspettava che conoscessi quella canzone, poi contento e iniziò a cantare con me facendo il controvoce.
Give me love like never before
‘Cos lately I’ve been craving more.
And it’s been a while but I still feel the same.
Maybe I should let you go.
And you know I’ll find my corner
Maybe tonight I’ll call you
After my blood, is drowning in alcohol
I just wanna told you
Give a little time to me
We’ll burn this out
We’ll play hide and seek
To turn this around
And all I want is the taste
That your lips allow
My my, my my give me love.
E mi sentii libera come non mai.
Non avevo più cantato così.
E che soltanto grazie a questo sconosciuto avevo riscoperto il piacere di cantare sul serio, di cantare spensierata e non di cantare per costringerti a non pensare.
Capii che George mi sarebbe stato simpatico da questa sera in poi.
Io: «Wow…». Sospirai. «E’ stato…». Mormorai.
George: «Bellissimo». Completò la mia frase e mi sorrise. «Nessuno qui conosce Ed Sheeran». Se sapessi che lo conosco davvero… «Che ne dici di scriverti al gruppo musicale?». Sgranai gli occhi.
Io: «Cosa?».
George: «Sì, wow!». Si alzò dalla sedia e posò la chitarra sul letto. Era elettrizzato. «Ci esibiamo anche la vigilia di Natale e veniamo trasmessi dalla BBC. Ti prenderanno, hai una voce bellissima». Arrossì e con me anche lui.
Io: «Oh… grazie». Abbassai lo sguardo e si schiarì la voce.
George: «Hai passato il livello di Ragazza Fallo». Ridacchiò. «Ma ciò non toglie che tu non debba venire a vedere gli allenamenti o le partite perché devi». Fece spallucce. «Però servirebbe una voce come la tua al nostro gruppo. Siamo perlopiù musicisti e pochi cantanti. Non lo dico perché ci serve chi canti, certo anche quello c’entra, ma anche perché saresti sprecata se non ci provassi». Non mi lasciò il tempo di rispondere che mi conficcò la chitarra tra le mani. «Sai anche suonarla?». Chiese speranzoso ed eccitato.
Io: «Mh… sì, perché?». Gli si illuminò il viso.
George: «Sei perfetta!». Ridacchiai e guardò l’orologio sul suo cellulare e contemporaneamente bussarono alla porta. «Cavolo, mi sarebbe piaciuto ascoltarti». Si avvicinò per aprirla ed entrarono una decina di persone, comprese Benedetta e Josh. C’era chi aveva le patatine, chi cocacola, popcorn, chi aveva portato una playstation con diversi joystick. Mi alzai e raggiunsi Josh e Benedetta insieme a George. «Senti, abbiamo trovato un cantante per il nostro gruppo musicale». Sorrise smagliante a Josh, a quanto pare anche lui ne faceva parte poi mi puntò. «Lei». Sia Bene che Josh spalancarono gli occhi per la sorpresa. «E suona anche!». Agitò le mani fregandosene della gente che urlava.
Josh: «Dopo vedremo con chi dovrò cantare». E mi guardò di nuovo sorridendomi.
Benedetta mi prese per il braccio e mi guardò poi aggiunse «Potevi dirmelo, ho anche io una chitarra. Avremmo potuto suonare insieme».
Io: «Scusa, è che non l’ho reputato un dettaglio importante». Ridacchiammo.
«Che lo scontro di FIFA ABBIA INIZIO». Urlò qualcuno e mi guardai intorno sconcertata. So che FIFA è un gioco di calcio, e che probabilmente lo scontro stava in: due di loro si sfidano; il vincitore della prima partita sfida il vincitore della seconda finché ci sarà un solo vincitore.
Questo è quello che ho fatto un paio di volte insieme ai ragazzi, non so se per loro sia lo stesso.
Josh: «FIFA è un gioco…». Si avvicinò a me e a Benedetta.
Io: «…da calcio». Completai la sua frase. «Lo so». Mi guardò meravigliato. «Vi sfidate con una serie di round e il vincitore del primo sfida il vincitore del secondo e così via?». Rimase imbambolato. Avevo appena detto una sciocchezza? Devo imparare a tenere la bocca chiusa.
Lo dico sempre ma non lo faccio mai.
Josh: «Sì». Sussurrò meravigliato, ancora. Poi guardò Benedetta che fece spallucce.
Benedetta: «Io continuo a non capirci granché». Rise. «Mi sembra ci sia anche un altro gioco di calcio… mh… PES?». Io e Josh annuimmo. «Beh, per me non c’è differenza tra l’uno e l’altro».
Io: «Che sacrilegio paragonare FIFA a PES». Josh se la rise e seguì la sua risata.
«Ragazzi, abbiamo un altro giocatore». Josh avvisò la folla che si voltò verso di lui.
«Che tempismo! Ce ne serviva giusto un altro». Parlò un ragazzo con la pelle chiara e i capelli rosso chiaro, quasi arancione. Per il momento, finché non saprò il suo nome, sarà soprannominato Ed Sheeran nella mia mente.
Josh mi prese per il gomito e mi mostrò alla fola. Lo guardai spiazzata e fece spallucce.
Josh: «Che c’è? Riconosce la differenza che c’è tra PES e FIFA e questo merita riconoscimento». Ridacchiò.
«Bene, okay… allora tu…». Guardai un ragazzo dai capelli neri.
Io: «Sharon». Annuì scrivendo il mio nome su un foglio.
«Allora Sharon contro Eric». Guardai tra tutti i ragazzi e uno attirò la mia attenzione sventolando la mano: Eric, e gli sorrisi.
Colsi l’occasione per notare che io e Benedetta eravamo le uniche ragazze in camera e non mi andava di lasciare Bene da sola per mettermi a giocare.
Io: «Tranquilla». Mi avvicinai a lei. «Perderò subito, non mi va di lasciarti da sola». Ridacchiò.
Benedetta: «Nah, voglio vedere fino a che punto arrivi». Fece spallucce. «Dimostra ai ragazzi che anche le ragazze possono giocare ai loro videogame». Annuì e le sorrisi.
«Albert e Peter». Annunciò sempre i ragazzi dai capelli neri col foglio in mano. «Joystick alla mano e scegliete le squadre».
Non diedi molta importanza ai particolari, dedicai la mia attenzione a Benedetta e parlammo un po’ tra di noi.
Imparammo a conoscerci meglio.
Tra Albert e Peter vinse Albert.
La seconda sfida fu tra George e Christian, che perse e Benedetta si congratulò col fratello.
La terza sfida fu tra il ragazzo dai capelli neri che scoprì il suo nome: Lucas e Emanuel, che perse.
Benedetta: «Straccialo». Mi spinse scherzosa verso la sedia dove mi sarei seduta per giocare.
Io: «Ci provo». Ridacchiò.
Albert: «Eric vacci piano, è una ragazza». Scherzò l’amico e ridemmo tutti, me compresa.
Eric prese posto alla mia destra e scelse la sua squadra: Chelsea.
Mentre io scelsi una squadra francese: Paris Saint Germain.
Entrai nel menù, come fece Eric, per modificare la formazione della mia squadra.
Eric: «Oh, andiamo… non dirmi che vuoi anche modificare la squadra». Mi guardò ma non lo degnai di uno sguardo. «E che modulo scegli?». Stava scherzando, non mi stava prendendo in giro, lo capì dal suo tono di voce, forse mi stava reputando un po’ inferiore a lui solo perché “sono una ragazza” e fu per questo che lo risposi seria e non scherzosa.
Io: «4-3-3». Lo guardai compiaciuta della mia risposta e mi sorrise poi ritornò a modificare la sua formazione e io ritornai alla mia.
In campo schierai Sirigu, Aurier, David Luiz, Silva, Maxwell, Motta, Matuidi, Verratti, Lavezzi, Cavani e Ibrahimovic.
Il calcio di iniziò lo batté lui visto che giocava in casa.
Ai soli cinque minuti di inizio subii in goal e mi sentii sprofondare per essermi mostrata forte mentre stavo già perdendo.
Subii un altro gol al venticinquesimo minuto.
Lucas: «Oh, andiamo ma così è troppo facile».
Emanuel: «Probabilmente si è offerta per apparare il numero». Mormorò, per sua sfortuna non troppo a bassa voce.
Il primo tempo terminò 2 a 0 per Eric, non poteva finire così. Dovevo farmi valere e stracciarlo.
Dimenticai di essere in camera con tutti i ragazzi, se non fosse per Benedetta, e mi immaginai nel salotto a giocare con i miei vecchi amici: Niall, Zayn, Louis, Liam ed Harry. Ritornai al momento quando battei Harry a 3 – 0.
Potevo farlo anche ora.
Al decimo minuto del secondo tempo, così, buttai il pallone in rete con Lavezzi.
Ero ancora sotto in un gol ma potevo segnarne due e vincere, ma dovevo anche preoccuparmi di non farlo segnare.
Al diciassettesimo minuti ne sagnai un altro, con Cavani, e sentì Benedetta esultare per me. Ero troppo concentrata per esultare e poi dovevo segnare un altro gol per vincere.
E così fu, al trentatreesimo minuto segnai un altro gol con Lavezzi.
Benedetta: «Okay». Sciolse il silenzio che si era creato e venne da me. «Non sarò brava a calcio e non ne capisco niente, o quasi, ma posso capire che la mia amica ha vinto CONTRO». E sottolineò quella parola. «Un ragazzo». E qualcuno di loro rise.
Eric: «Santo cielo». Mi guardò. «Complimenti». Mi alzai dalla sedia.
Io: «Grazie». Sorrisi.
«Ah, l’avrà fatta vincere». Sbuffò qualcuno. «Non mi va di giocare contro una ragazza, Eric».
Eric: «Posso giurarti, Sam, che non l’ho lasciata vincere. L’ho sottovalutata e mi ha battuto». Fece spallucce.
Persi gli altri scontri ma prestai attenzione a quello di Josh contro Louis.
Passò Josh.
Si ripeté il giro e mi toccò sfidare Lucas che battei 1 a 0.
O qui mi stanno facendo vincere per poi farmi perdere l’ultimo scontro, o mi sottovalutano troppo, o sono delle schiappe.
Sam: «Non ci posso credere che dovrò sfidarti». Quasi ridacchiò.
Lucas: «Oh, piantala. È forte e hai potuto vedere da come mi ha battuto». Fece spallucce. «Mi rincresce ma credo che dobbiamo ricrederci su voi ragazze che giovano ai videogame».
E alla fine restammo soltanto in sei.
George con Drew.
Josh con Derien.
Io con Sam.
Drew batté George mentre Josh vinse contro Derien.
E Sam perse.
In quel momento godei come una matta.
Così impara a sottovalutarmi quel maschilista.
Drew e Josh si sfidarono e il vincitore avrebbe sfidato me per delineare il vincitore in assoluto.
Drew perse per un goal annullato e non gli andò molto a genio questa cosa.
Benedetta: «Ora sono combattuta, non so per chi tifare». Ridemmo tutti. «Ma uno dei due non poteva perdere prima?».
Josh: «I migliori resistono fino alla fine». Fece spallucce.
E beh, alla fine persi contro di lui per un goal segnato al quarantesimo minuto.
Benedetta: «Scusami se esulto».
Io: «Fa pure». Ridacchiai.
Abbracciò Josh poi lui venne da me per congratularsi.
Josh: «Sei un osso duro, magari la prossima volta potrai battermi».
Io: «Non credo che la prossima volta sarò dei vostri». Ridacchiò. «Ma mai dire mai».
George: «Stai acquistando punti nella classifica delle matricole». Mi passò un bicchiere con della coca cola.
Io: «Grazie per la matricola, questo mi mancava».
George: «Figurati, dovere». Mi fece la linguaccia.
Lucas: «Beh, altro che matricola. Direi che si è inserita più che bene». Mi passò un braccio sulle spalle. «Ottimi punti e non hai avuto bisogno dell’iniziazione».
Io: «Che non voglio nemmeno chiedere in che cosa consisteva». Ridacchiammo. «Ma non chiamatemi mai più matricola». Risero ancora.
//.
Dopo la serata magnifica, anche se ci ho misi un po’ ad ambientarmi, mi sentì vuota.
In quelle ore passate con loro mi ero perfino dimenticata dei ragazzi, il che fu magnifico visto che ero qui anche per smettere di pensarli.
È la prima notte che passo fuori casa senza papà o Emily o Natasha.
Mi girai e rigirai tra le lenzuola e sussurrai il nome di Benedetta per vedere se era sveglia e in risposta ricevetti un lamento poi si girò verso di me e accese la luce del lumetto sopra al comodino che era tra i nostri letti.
Io: «Non volevo svegliarti». Mi girai verso di lei.
Benedetta: «Mi hai svegliata già una mezz’ora fa». Sorrise comprensiva. «Basta farci l’abitudine».
Io: «E’ che non mi trovo a stare così lontana da papà o dai miei amici». Sbuffai.
Benedetta: «Lo so, anche io provavo le tue stesse sensazioni la prima notte che passai qui, anche se dall’altra parte del college c’era mio fratello e in più ero sola in camera». Mi fece l’occhiolino. «Riprova a dormire, resto sveglia ancora un po’». Sbadigliò. «La luce la lascio accesa?». Scossi la testa e la spense poi la sentì rilassarsi.
Quel “resto sveglia ancora un po’” si rivelò in “resto sveglia per altri quindici secondi” e la sentì inizialmente russare poi tornò a dormire serena.
Allungai la mano e presi il cellulare dal comodino.
Lo sbloccai e decisi di inviare un messaggio ad Emily, avrei detto che mi sarei fatta sentire.
“Ehi, Emy, scusa se mi faccio sentire soltanto ora. Oggi è stato il mio primo, vero, giorno al college. I ragazzi qui sembrano tutti a posto, anche se mi mancano Louis, Niall, Zayn, Liam e anche Harry. Però credo di potermi adattare in fretta. Ho già conosciuto diversi ragazzi, oggi abbiamo giocato a FIFA e sono arrivata addirittura seconda. Ricordi quando lo facevamo con i ragazzi? Passavamo le giornate intere a sfidarci tra di noi. Ho una compagna di stanza davvero fantastica, mi ha aiutato tantissimo in questo primo giorno. Qui indossiamo le uniformi, e so che ti sarebbe piaciuto indossarla a scuola in Italia.
Dammi qualche notizia di voi, aggiornami magari in qualcosa di nuovo.
Mandami al più presto qualche foto si Shaheen. :) ”
Posai il cellulare, la luce mi aveva accecato un attimo, e finalmente caddi in un profondo sonno.
  
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