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Autore: Diosmira    10/09/2014    3 recensioni
Una storia che parla d'amore e di paura, speranza e perseveranza.
Leggendola scoprirete la storia di una ragazza alla ricerca di ciò che le è stato tolto molto tempo fa: la Famiglia.
Lotterà con tutta se stessa per riaverla e attraversando gli oceani del tempo riuscirà ad ottenere la cosa più dolce: L'amore!
Ma potrebbe presto scoprire che spesso "l'amore può essere freddo come una tomba, un biglietto di sola andata per una tristezza infinita"
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga, Successivo alla saga
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N.d.A I Dialoghi in corsivo sono stati presi parola per parola dal romanzo “Twilight” cap. 14 e 15.

Angels Walk Among Us

Only you can heal inside, 
Only you can heal your life
Forks, Washington. 2005
(Edward Pov)
<< Mettimi alla prova >>
I secondi passavano e Bella continuava a fissarmi in cerca di risposta.
La studiai, cercai nei suoi occhi la certezza che avrebbe potuto affrontare anche questo argomento senza poi fuggire via da me.
Il sole aveva ormai iniziato la sua discesa e colorava lo studio di Carlisle di una lieve sfumatura arancione. Mille splendidi colori che gli occhi di lei non potevano afferrare.
Pensai che aveva comunque il diritto di conoscere almeno in parte la verità, e se poi avesse davvero deciso che era troppo, buon per lei.
<< Sono nato a Chicago ne 1901 >> la guardai, accertandomi che non ne fosse rimasta troppo scandalizzata, poi continuai.
<< Carlisle mi trovò nel 1918. Avevo diciassette anni e stavo morendo di Spagnola >> ebbe un sussulto al pensiero della mia morte, ma io decisi di proseguire, registrando sempre e comunque ogni sua minima reazione. Non volevo esagerare, anche se intimamente mi intenerii difronte alla sua preoccupazione per me.
<< Ho qualche ricordo vago… è stato tantissimo tempo fa, e la memoria umana tende a svanire >>. Persino il viso di mia madre, che un tempo rappresentava una delle mie innumerevoli certezze, era stato sconfitto dal tempo. Mi rimaneva soltanto il ricordo sbiadito della sua voce, limpida e debole, che pregava Carlisle di salvarmi la vita. A dire il vero dubitavo pure che fosse un mio ricordo. Molto probabilmente erano soltanto alcune immagini che avevo colto dai pensieri del mio “salvatore”. Riportai alla mente le mie ultime sensazioni da umano: il volto di Carlisle, sofferente, molto probabilmente in preda al panico, il dolore, tremendo, che mi tenne incosciente per molte ore.
<< Però ricordo bene quello che provai quando Carlisle mi salvò. Non è una cosa facile; è impossibile da dimenticare >>.
<< E i tuoi genitori? >>
<< Erano già stati uccisi dal morbo. Ero rimasto solo. Perciò Carlisle scelse me. Nel caos dell’epidemia, nessuno si sarebbe accorto della mia scomparsa >>.
Al quarto giorno dalla mia trasformazione eravamo già lontani da Chicago. Carlisle voleva assicurarsi che non ci fossero umani nei dintorni al mio risveglio. Sapevo con certezza che voleva tenermi lontano da quella città e da tutto ciò che avrebbe potuto ricollegare il nuovo Edward a quello vecchio.
Nonostante mi avesse ormai spiegato che la Spagnola aveva strappato la vita alla mia famiglia, continuava a dire che potevano ancora esserci persone in grado di riconoscermi. Inoltre non era saggio lasciare che un neonato vivesse in un città piena di “tentazioni” come Chicago.
Non tornai mai più nella mia città natale. Non con Carlisle almeno.
Ci trascorsi un paio di notti durante il mio periodo di “ribellione”.
Non fu molto tempo, di fatto mi ripudiava l’idea di mietere vittime nella mia città, benché niente ormai mi legava ad essa.
<< Dal giorno della mia rinascita >>, mormorai, << ho avuto il vantaggio di poter leggere nel pensiero di chiunque mi si trovasse vicino, umano e non umano. Perciò mi occorsero dieci anni per sfidare Carlisle: vedevo la sua sincerità immacolata e capivo perfettamente cosa lo spingesse a vivere così >>.
Non mi ci volle molto per capire che il mio comportamento era scorretto e, per quanto io potessi credere alle mie buone intenzioni, mostruoso.
Ero divenuto un assassino per pura curiosità, rinnegando la vita molto più pulita che mi era stata offerta, nonostante il dono derivasse dalla stessa persona che per certi versi aveva contribuito a togliermela.
Ma Carlisle mi fece capire che ero ancora in tempo per redimermi, ridimensionare le innumerevoli colpe che avrei sicuramente compiuto nel corso della mia interminabile esistenza.
Così tornai da lui come il figliol prodigo e come lui fui accolto amorevolmente. Mi fidavo di lui e sapevo che ci sarebbe sempre stato per me, proprio come un padre.
Non ho mai sospettato che avesse potuto mentirmi.
Solo tu puoi guarirti dentro,
Solo tu puoi guarire la tua vita
 
Chicago, Illinois. 1918
(Emily Pov)
It must have been an angel
Who counted out the time
Yes it must have been an angel
Who raised a knowing smile
And I just couldn't reach you 
No matter how i tried
No I just couldn't reach you 
So instead i ran to hide
Sentii le voci prima ancora di aprire gli occhi.
C’erano almeno tre persone nella stanza che discutevano animatamente, ma non distinguevo bene le parole.
Una era sicuramente una donna, e dal tono che stava usando immaginai che fosse irritata.
Buffo come in stato di shock le persone riescano ad essere più lucide  del solito e si fissino in particolari apparentemente insoliti che non c’entrano nulla con la loro reale situazione;
insomma ancora oggi se ripenso a quel momento riesco a visualizzare perfettamente l’oscurità che penetrava attraverso le mie palpebre abbassate venire dissipate da  quelle voci sconosciute.
Ricordo l’aroma di lavanda e limone che profumava l’ambiente.
Lavanda e limone: odore confortante e al contempo indizio interessante, considerato il fatto che mia madre ha sempre usato questo tipo di incenso profumato per dissipare gli odori disgustosi che dalla strada si riversavano in casa.
Non appena sentii i passi che uscivano dalla stanza provai ad aprire gli occhi; fu uno shock, non soltanto per il fatto di scoprirmi veramente a casa mia, ma anche per aver potuto aprire gli occhi!
Nel mio vortice di amara negatività mi davo già per morta, o per lo meno mi aspettavo di ritrovarmi bendata, legata e imbavagliata in qualche luogo sconosciuto e imputridito.
Invece scoprii di essere comodamente distesa sul mio vecchio letto, nella mia vecchia camera situata al terzo piano della villa dei miei genitori.
Come posso dirlo senza essere troppo prolissa e ripetitiva?
Ero profondamente shockata.
 
All‘ Istituto avevo imparato come gli antichi greci evitassero di porre i letti in direzione della porta d’entrata, in quanto lo ritenevano un invito per l’anima di lasciare il corpo.
Ricordo che presi la questione così seriamente da spedire una lettera a mia madre affinché cambiasse la disposizione delle camere.
Ma la mia famiglia non è mai stata gente superstiziosa.
Così quando, ripeto, riuscii nel pieno del mio stupore a sollevarmi dal letto e ad aprire gli occhi mi ritrovai a fissare ebete la porta in legno massiccio leggermente socchiusa.
Sentivo chiaramente le voci provenire al di là della porta, non le riconobbi ma non mi parvero pericolose.
Insomma mi avevano riportato a casa mia.
Sicuramente mi ero immaginata tutto il rapimento.
Dovevo essere svenuta per la tensione accumulata durante la giornata.
Probabilmente Albert, che ovviamente mi aveva accompagnata non vedendomi tornare alla carrozza si è preoccupato ed è venuto a cercarmi.
Deve avermi trovata per terra e avrà chiesto aiuto.
Dio che figura!
Non mi sono mai piaciute quelle signorine che non perdono mai occasioni per svenire ovunque capiti!
D’altronde se anche fossi svenuta davvero, io mi ritenevo più che giustificata dopo tutto quello che avevo passato.
Nonostante tutto avevo una gran brutta sensazione che non riuscivo a scrollarmi di dosso:
insomma io urlo, mi strappo i capelli e scoppio a piangere in certe situazioni, ma mai, dico mai ho osato svenire in mezzo alla strada.
Inoltre il ricordo di quella mano, l’odore del tabacco che emanava.. non posso essermelo inventato!
 
Presi un respiro e prima di sollevarmi in piedi mi accertai delle mie condizioni fisiche.
Sembrava tutto a posto, escludendo il fatto che ora indossavo una veste da notte.
Andai verso il piccolo balconcino che dava sul giardino interno, circondato da un portico bianco e dotato di un piccolo orto, da sempre curato dalla mia vecchia balia. Si chiamava Neste, era di colore ed era morta quattro anni prima, poco prima che io partissi per l’Istituto.
Erano dunque quattro anni che vedevo la mia famiglia solo due mesi all’anno, per i festeggiamenti di Natale e quelli estivi.
Erano due anni che sentivo mio fratello unicamente per lettera, dato che passava le feste con i suoi compagni.
Un gruppetto scapestrato che né io né mia madre abbiamo mai sopportato: erano ossessionati dalle armi e dalle “gioie” della guerra. Avevano convinto Edward ad arruolarsi quando avrebbe raggiunto l’età di leva: non vedeva l’ora di “servire il suo Paese!”
Mentre fissavo il cielo stellato mi domandai se fosse il caso di essere così disperata per la perdita di una famiglia che in fondo non avevo mai avuto.
Mi chiesi se nei loro ultimi momenti avessero pensato anche solo per un istante a me.
Mi lasciai stupidamente sfuggire qualche lacrima, ma decisi che forse, per qualche misero istante, valeva la pena restare aggrappata ai miei ricordi di bambina, quando ero tutto per tutti e credevo che nessuno mi avrebbe mai abbandonata, nemmeno con l’illusione di concedermi una vita migliore.
Tra pochi mesi avrei compiuto diciassette anni, per qualche giorno avrei avuto la stessa età di Edward. Sono sempre stati i giorni migliori dell’anno.
Anche quando ero all’Istituto, in quei giorni sentivo mio fratello più vicino che mai.
Per l’affetto che ho sempre nutrito per lui, e che sono certa lui sentisse per me, sentii che era giusto muovere mari e monti pur di ritrovarlo: non lo avrei mai abbandonato, ero disposta a qualunque cosa.
 
Sospirai, mi asciugai le lacrime e mi preparai a scoprire chi c’era dietro alla porta. Le voci si erano affievolite, sicuramente si stavano dirigendo al piano di sotto, probabilmente nelle cucine.
Approfittai del fatto che, chiunque fossero, si stessero allontanando per cambiarmi d’abito.
Non potevo certo presentarmi così!
Indossai un vestitino leggero, uno di quelli confezionati da mia madre, di un verde opaco che in qualche modo metteva in risalto il colore dei miei occhi.
Non era una veste affatto vistosa, “perfetta per stare in casa e fare buona figura con gli ospiti, ma assolutamente inadeguata per uscire a fare compere” così l’aveva definita mia madre quando me l’aveva donata, sempre ligia ai criteri della moda e di ogni altra cosa designasse una donna di “buon gusto”.
Raccolsi i capelli in uno chignon delicato, come piaceva tanto a Edward.
Siamo sempre stati una famiglia semplice, benestante ma di ben poche pretese.
Sapevo che ogni giorno della mia vita qualsiasi azione avrei compiuto sarebbe stata la dimostrazione che nelle mie vane scorre il sangue Masen, che ero figlia di mio padre e di mia madre, che ero sorella di Edward.
Per questo sarei riuscita a trovarlo, vivo o morto che fosse, perché avevamo un legame che niente poteva spezzare.
 
Sorrisi, pensando che, forse, mi stavo spingendo un po’ troppo in là coi pensieri e che sicuramente il mio cervello era ancora sotto shock.
Insomma chiudete gli occhi e provate a visualizzarmi:
immaginate una ragazza seduta sulla larga scrivania alla destra del letto a una piazza e mezzo di camera sua; immaginatevela mentre armeggia con i suoi capelli: prende una ciocca, la arrotola intorno all’orecchio e… la lascia cadere e si ferma a pensare. Poi si riscuote riafferra la ciocca e la ferma alla testa con una spilla. Poi tenta di fare la stessa cosa con un'altra ciocca, ma tutt’a un tratto si ferma… e torna a pensare.
Insomma i miei pensieri cominciavano a sfuggire al mio controllo mentale!
Se non fosse stato così triste immagino che sarebbe stato quasi divertente.
Deve essere stata un angelo
Che ha contato il tempo
Sì, deve essere stato un angelo
Che ha sollevato un sorriso conosciuto
E non riuscivo a raggiungerti
Non importa quanto avessi provato
No non riuscivo a raggiungerti
Così, invece sono corso a nascondermi
 
Ad ogni modo mi riscossi ed uscii di camera mia, andando incontro ai miei ospiti (che non avevo invitato, tra l’altro).
Li trovai, come avevo previsto, in cucina che discutevano ancora animatamente, ma ancora non capivo cosa si dicessero.
Mi resi conto solo allora che non parlavano l’inglese.
Erano tre uomini e una donna, sedevano attorno al tavolo con aria preoccupata.
Dal momento che sembravano così concentrati nella loro conversazione credetti di coglierli di sorpresa, invece non appena misi piede nell’ampia stanza puntarono silenziosamente i loro occhi su di me in simultanea, come se per tutto il tempo non avessero fatto altro che aspettare che fossi io a palesarmi.
Mentre continuavano imperterriti a fissarmi mi diedi qualche secondo per studiarli a mia volta: ero certa di non averli mai visti in vita mia.
I quattro avevano molti tratti in comune, primo fra tutti il colore degli occhi che era di un verde quasi slavato, così chiaro da sembrare acqua.  Erano decisamente inquietanti, abbinati alla loro pelle, troppo pallida per essere sana.
Immaginai fossero fratelli, ma non ne ero tuttavia certa.
O almeno, non avevo dubbi riguardo ai due a sinistra del tavolo, che dovevano essere gemelli per quanto si somigliavano: stessi capelli, biondi tagliati corti, stessa fisionomia, stesso sguardo curioso.
Gli altri due però nonostante i tratti comuni erano completamente diversi.
Il tipo a destra sembrava il più giovane ed era l’unico in piedi, appoggiato alla credenza nella quale si tenevano le stoviglie. Era molto alto e aveva i capelli scuri che gli arrivavano al collo in onde lisce e ordinate. Ancora oggi non so se lo sguardo ostile che mi riservò fosse reale o una mia pura suggestione
La donna, che era seduta a capotavola aveva capelli rossi, ricci e corti che le circondava il viso caratterizzato da uno sguardo sicuro e autorevole. Portava abiti palesemente maschili che però non ne nascondevano le forme. Era sicuramente una forte sostenitrice del movimento femminista; non che io non lo fossi, ma non davo certo l’aria di scendere in piazza a protestare tutte le mattine, come lei invece sembrava dichiarare apertamente.
E nonostante avesse un fisico abbastanza minuto sembrava essere la porta voce del gruppo: i suoi compagni infatti alternavano lo sguardo da me a lei, aspettando forse che una delle due facesse la prima mossa.  
Mi posizionai dunque difronte a loro e sopprimendo un leggero colpo di tosse cercai di ignorare il disagio e sperai di riuscire a dare un tono sicuro alla mia voce:
<< Voi chi siete? >>
<< Amici >> rispose prontamente la rossa, squadrandomi da capo a piedi, come in cerca di qualche segno in particolare.
Sinceramente quel gioco di sguardi cominciava ad irritarmi, ma non volevo essere scortese quindi tentai di mettermi al loro livello e mi sedetti dall’altro lato del tavolo, ignorando l’occhiata diffidente del tipo a destra. Di nuovo mi sembrò di scorgere qualcosa di negativo nel modo in cui mi guardava e, forse per suggestione o altro, per un momento credetti che volesse impedirmi di avvicinarmi.
Ad ogni modo mi sembro il colmo che quei quattro estranei tenessero un atteggiamento del genere in casa mia. Sentivo che mi si prospettava una lunga conversazione, anche perché attimo dopo attimo ero sempre più certa di non essermi immaginata il rapimento e non potevo fare a meno di sospettare di loro.
Volevo sapere come erano entrati in casa mia, chi fossero e cosa volevano da me, perché di sicuro, a giudicare dall’impazienza che intravedevo nei due che avevo catalogato come gemelli, si aspettavano qualcosa.
Io volevo solo risposte.
Prima di parlare mi assicurai di mantenere un tono serio e il più autorevole possibile, in fondo quella era pur sempre casa mia e non avevo intenzione di farmi trattare da dei perfetti sconosciuti come una ragazzina stupida, perché in quel momento era l’ultima cosa di cui avevo bisogno.
Così puntai il mio sguardo dritto su quello della rossa e parlai:
<< Non mi sembra che “amici” sia la risposta più consona alla domanda che vi ho fatto, signora. >>
Lei mi guardò sollevando appena il sopracciglio destro. Le  un sorrisino divertito, sembrava …soddisfatta?
la cosa mi irrito oltre modo quando mi accorsi che anche gli altri avevano pressappoco la stesa identica espressione stampata in viso. I gemelli difatti si fissarono con aria complice, mentre l’altro ragazzo prese improvvisamente a fissare la parete alla sua destra ammirando con evidente falso interesse i ritratti appesi accanto all’unica finestra della stanza, evitando così di puntare i suoi occhi verso noi altri.
La mia attenzione tornò alla rossa quando finalmente si decise a parlare.
<< Non c’è bisogno di tutta questa formalità. Io mi chiamo Giulia, Giulia Esposito >> il suo inglese era buono, ma aveva un forte accento straniero, che io purtroppo non riconobbi. Parlava con un incredibile lentezza, attenta a soppesare ogni minima parola.  << Questi che vedi >> fece un cenno circolare con la mano sinistra per indicare i suoi compagni mentre con quella destra si arrotolava una piccola ciocca di capelli che le spuntava da dietro l’orecchio << sono i miei fratelli, ma come immagino avrai capito non tutti noi condividiamo il patrimonio genetico, difatti solo in questi due, che ovviamente sono gemelli, scorre lo stesso sangue nelle vene. >>
<< Io mi chiamo Christian >> disse il biondino più vicino con un sorriso che forse voleva essere rassicurante. << lui è Peter >> indicò il fratello << siamo dei Von Engel >>.
<< Siete tedeschi? >> mi concentrai su di loro, mentre Giulia scambiava qualche occhiata indecifrabile all’altro tizio, che non sembrava avere intenzione di presentarsi, così come nessuno pareva intenzionato a farlo per lui-
<< Sì >> risposero, e dopo un’occhiata lampo Christian cedette la parola a Peter
<< E’ da molto tempo però che non torniamo in patria. Ma ovviamente non veniamo tutti da lì, Giulia è italiana. Prima ci hai sentito parlare la sua lingua. >>
Spalancai gli occhi dalla sorpresa.
<< Come… >>
<< Sapevamo che eri sveglia da un po’ Emily, e sì conosciamo anche il tuo nome >> mi interruppe Giulia << volevamo lasciarti il tempo di riprenderti, ci dispiace per quanto è successo alla tua famiglia >> fu la prima e ultima volta che vidi un sorriso sincero e privo di derisione nel suo sguardo,  ma certo non per questo fu più gradevole degli altri : annegava nella pietà. Pensai che quella donna non mi sarebbe mai piaciuta, così come il suo amico tenebroso che ancora non aveva pronunciato una sillaba. L’unico suono che finora era uscito dalle sue labbra era stato uno sbuffo indolente al momento delle presentazioni.
Un sospetto mi fulminò in pieno, e data la mia vena melodrammatica latente decisi subito di dargli credito, ma volli verificare:
<< Sapete anche cos’è successo questo pomeriggio al vicolo? Mi avete portato voi qui? Dov’è finito Albert? >>
Nonostante tutta la mia forza di volontà non riuscii a nascondere le accuse che, perfide, trapelarono dal mio sguardo e li inchiodarono sul posto in attesa di una qualsiasi scusa che li scagionasse o attenuasse il sospetto che gelido si faceva strada nella mia mente.
Ma anche se segretamente avevo già deciso che erano colpevoli, e avevo alimentato questa convinzione vedendo la loro reticenza nel parlare, non ero preparata a ciò avrei sentito.
Vedendo che i suoi compagni non accennavano a rispondere ma si limitavano a fissarsi con aria colpevole il ragazzo a destra si staccò finalmente dalla credenza e appoggiò i palmi delle mani ai bordi del grande tavolo, sporgendosi verso di me in cerca di un contatto diretto. Posti di nuovo i suoi occhi gelidi su di me, parlò per la prima volta con un tono insofferente seppure sprezzante che lasciava indovinare tutto il fastidio che sembra provare nel  rivolgermi quelle parole, scandendole bene  come se avesse dovuto spiegare a un bambino perché  non bisogna correre in mezzo alla strada.
Ma quelle parole erano quanto più lontane da ciò che si apprestava a dire:
<< Emily Masen, da questo giorno in avanti il tuo nome sarà scolpito in una lapide accanto a quella dei tuoi genitori e di tuo fratello … e per favore gradirei non essere interrotto >> l’ultima affermazione  era giustificata dalla mia faccia sconvolta piena di domande. Parlava con un tono bassissimo, quasi inudibile, ma ero certa di aver sentito bene quello che stava dicendo. << il tuo accompagnatore è tornato stamattina al tuo istituto per dare la notizia della tua prematura dipartita. Nessuno verrà a cercarti, nessuno farà domande su di te.
I vostri funerali saranno celebrati domani mattina, ma tu per ovvie ragioni non parteciperai >> abbozzò un sorriso sarcastico << Giulia si occuperà di tutto. A te diamo la possibilità di venire con noi >> mi guardò intensamente con quei suoi occhi così particolari, era serio e si aspettava una risposta.
I suoi compagni lo guardavano increduli: evidentemente non si aspettavano che partecipasse alla conversazione, figurarsi che si accollasse l’onere di darmi una notizia del genere con, tra l’altro, ben poco tatto
Dal canto mio ero ancora più shockata di quando mi ero alzata dal letto soltanto una mezz’oretta prima. Era davvero passato così poco tempo? Nonostante la mia mente lottava nell’affermare il contrario, l’orologio incastrato nella parete infondo alla stanza dava una prova inconfutabile.
Ma ci misi poco a riprendermi: mi sollevai rapida dalla sedia e fissandoli uno per uno sbottai, furiosa:
<< Non avete alcun diritto! Come vi siete permessi! È la mia… >> non riuscii a finire la frase che un pugno violento si abbatté sul tavolo facendo sobbalzare me e alzare quelli che se ne stavano ancora seduti, in allerta e pronti a scattare a qualunque movimento del compagno moro.
Lui se ne stava dritto di fronte a me, la mano aperta scossa da leggeri fremiti e mi fissava con un incomprensibile rancore nello sguardo. Ero certa che se solo avesse potuto in quel momento mi avrebbe spedita dritta all’inferno con un’occhiata.
<< Non abbiamo alcun diritto dici? Credimi ti stiamo facendo un grandissimo favore! >> parlo sempre in un sussurro, la mascella contratta, i muscoli tesi sotto gli abiti. Lo guardai senza capire e titubante attesi che finisse di parlare. E fu proprio lui a dire ciò che volevo sentire da che ero tornata in quella maledetta città, a lanciarmi il salvagente che anelavo con tutta me stessa e che mi avrebbe impedito di soffocare nel mio stesso dolore.
Ma una volta che l’ebbi stretto a me, mi resi conto che era un salvagente pieno di aghi avvelenati, e capii che, forse, avrei preferito mille volte non vederla arrivare mai, quella fatale speranza:
<< Sappiamo dov'è tuo fratello, sappiamo che parla e cammina e possiamo portarti da lui. Ma prima tu devi aiutare noi, e per farlo devi venire con noi. Ci sono mille mila cose che non conosci di questo mondo, almeno la metà di queste sono esseri malvagi che vorranno senz'altro usarti per scopi meno nobili dei nostri. Tu ovviamente non sai di cosa sto parlando, ma credimi capirai. Alcuni ti stanno già cercando, uno ti ha già trovata.
In tutta questa storia puoi fare soltanto due mosse: venire con noi o rifiutare.
Se vieni con noi ci sono alte possibilità che tu non riesca a sopravvivere per rivedere tuo fratello, ma almeno ti daremo la certezza che in linea di massima sta bene. >> mentre parlava non aveva staccato un attimo i suoi occhi dai miei. Io lo guardavo completamente senza parole, erano così tanti i pensieri che mi affollavano la mente che non riuscivo ad afferrarne neanche uno. Però lo vidi chiaramente indurire la mascella e allungare una mano verso il mio viso, lo sguardo indecifrabile.
Non mi ero accorta che le lacrime erano fuggi te al mio controllo finché non sentii la sua mano toglierne alcune dalla mia guancia.
Mi sentii trattenere il respiro e spalancare gli occhi dalla sorpresa, reazione che ebbero pure Giulia e i due gemelli.
L’aria era più tesa della corda di un arco in piena flessione.
Quando il ragazzo di fronte a me riprese a parlare la sua mano stava ancora accarezzando la mia guancia nel tentativo di dissiparne le lacrime, e il suo sguardo si era leggermente addolcito:
<< Se resisterai abbastanza a lungo potrai rivedere Edward, e noi faremo miracoli affinché non ti faccia del male. >> poi torno improvvisamente gelido, distante << se però decidi di rimanere, nonostante tutti possano tentare di  impedirmelo, giuro che non avrò pace finché non ti avrò io stesso tolto la vita. >> allontanò la sua mano e fece qualche passo indietro. Sentii una strana morsa alla bocca dello stomaco, ma non me ne curai, affrontavo il suo sguardo a testa alta ormai finalmente priva di lacrime.
<< Non ti reste che scegliere. Dubito che questo sarà complicato per te. >> mi riservò un’occhiata sprezzante prima di superarmi e abbandonare la stanza a grandi falcate.
La verità è che io ormai non lo stavo ascoltando da un pezzo, in testa un unico pensiero.
È vivo, Edward è vivo.
Soltanto quella strana sensazione alla bocca dello stomaco testimoniava come in quel momento avvertissi la forte mancanza di qualcosa di indefinito.
È vivo, Edward è vivo.
Sentivo una strana sensazione di freddo alla guancia destra, dove poco prima una mano aveva bruciato ogni traccia di dolore dal mio viso, lasciando che finalmente la speranza entrasse vittoriosa nel mio cuore.
È vivo, Edward è vivo.
Ma senza che riuscissi ad accorgermene, quella fulgida speranza aveva ben presto lasciato il trono e lo scettro ad un sentimento ben più concreto e distruttivo:
la paura.
 
 
Fear has a name                                                                                                                                            La paura ha un nome, 
written on unhallowed ground                                                                                                        scritto su terra sconsacrata
with dead leaves                                                                                                                                                       con foglie morte









 A.D.A (02/10/2014)
Le canzoni citate in questo capitolo sono:
-Angels Walks Among Us, Anathema
-Dead Lovers Lane, H.I.M.

Buona Lettura
*Diosmy*
  
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