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Autore: Jales    10/09/2014    1 recensioni
Sbuffai e mi avvicinai all’oblò, affacciandomi.
Mare, mare e ancora mare.
Non c’era altro se non quella stupida ed infinita distesa d’acqua che si estendeva per miglia e miglia in ogni direzione.
Sbuffai ancora e camminai fino alla sedia di fronte alla scrivania dove mi lasciai cadere a peso morto, lasciando andare indietro la testa e chiudendo gli occhi.
{Storia a quattro mani, Madness in me&Jales}
Genere: Avventura, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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BROMPTON COCKTAIL
{Capitolo XIII}
“Respira.”
Non che potessi fare altrimenti, in realtà, in fondo non è che avessi poi così tanta ansia di morire. Anche se vista la situazione in cui mi ero andata a cacciare la cosa sarebbe sicuramente stata oggetto di una discussione abbastanza animata.
Eseguii, propendendo per il silenzio, e inspirai: sentivo la fasciatura stringere il braccio e, nel mio zelo, mi procurai di nuovo un attacco di tosse. Il medico mi lanciò un'occhiataccia che io feci finta di non vedere poi, senza rivolgermi la parola, mi fece cenno di rivestirmi e sparì fuori dalla stanza.
Non ero esattamente sicura di come mio padre avrebbe preso il mio ritorno, a dirla tutta. Certo, ero qualcosa di simile al figliol prodigo che finalmente torna a casa con quella che sembrava un'illuminazione divina in piena regola che aveva mostrato tutti i lati positivi del Capitano inducendomi ad una sorta di redenzione, ma... Ero pur sempre un'ammutinata, e lui non vedeva di buon occhio queste cose. Non era escluso che decidesse di tagliarmi la gola e gettarmi in mare nonostante fossi sua figlia -anzi, probabilmente questo gli punzecchiava la tanto elogiata imparzialità. A quanto avevo sentito non è che gli dispiacesse poi così tanto l'idea di staccarmi la testa dal collo anche se io non avevo intenzione di separarmene, o almeno non così presto.
Devo sbrigarmi.
Una settimana non era molto tempo: forse avrei dovuto chiedere più pazienza, ma sapevo bene che i rischi erano già abbastanza e che Rev non avrebbe acconsentito a farmi rimanere oltre. Non perchè tenesse a me in una qualche particolare maniera, a onor del vero, ma più che altro per Azriel. Per lui non ero membro dell'equipaggio, a conti fatti, più di quanto non lo fosse un qualsiasi secchio della Sevenfold. Non che la cosa mi irritasse così tanto, avevamo comunque instaurato una convivenza pacifica, ma non potevo dire di essere all'altezza dei ragazzi o, nemmeno a dirlo, di Azriel.
Se fosse stato qualsiasi altro a proporglielo nove su dieci non avrebbe mai accettato, ma io ero io e se quello aveva contribuito a farmi salire su quella dannata nave allora beh... Almeno si era rivelato utile.
Mi infilai la ruvida camicia maschile che mi avevano provvisoriamente offerto, arrotolandone le maniche fino al gomito e lasciandola cadere sui pantaloni che mi aveva fatto Azriel. Raccolti i capelli in uno spiccio chignon per non averli d'impiccio mi affacciai alla porta per scrutare il corridoio: gettate un paio d'occhiate uscii dalla stanza, cercando di assumere l'aria più tranquilla e placida che potessi arrivare ad assumere.
Mentre passavo incurante delle occhiate che mi lanciavano i marinai ringraziai di non aver portato alcuna arma con me; oltre a costituire un poteziale pericolo per me stessa avrei potuto vagare meno liberamente per l'imbarcazione. Intuivo che nonostante gli abiti non destavo tanta preoccupazione in nessuno, sia considerato il mio stato di salute sia perchè ero semplicemente io.
Bastava guardarmi per un momento per accorgersi che in me non c'era nulla di pericoloso. Più o meno.
Destra...? Destra.
Per prima cosa dovevo costringere mio padre a ricevermi. Essendo subito stata affidata al medico di bordo non avevo avuto modo di vederlo, non ancora, e sapevo che per guadagnare punti dovevo affrontarlo il prima possibile. Mostrargli che aveva motivo di non uccidermi, insomma.
Questa cosa mi sa tanto di partita a dadi con il Destino.
Scambiai un paio di parole con le guardie che trovai a quella che ero abbastanza sicura di poter definire la cabina del Re Capitano, calcando volutamente sull'appellativo di Principessa. Se dovevo tenermi quel nome cucito addosso, che almeno servisse a fare un po' di scena... e a forzare le cose quel tanto che mi avrebbe permesso di aprire uno spiraglio.
Quando entrai notai immediatamente l'ordine perfetto della stanza, così tipico di mio padre, e non mi sorpresi di trovarlo seduto al tavolo con le mani intrecciate davanti alle labbra. I gomiti poggiavano su carte ingiallite e consunte, disegnate di suo stesso pugno molti anni prima, e i suoi occhi azzurri mi trafiggevano senza alcuna pietà.
Per un attimo mi pietrificai, come se all'improvviso fossi tornata bambina, ma mi costrinsi subito a muovere i passi che mi separavano dalla scrivania. Rimasi in piedi, in attesa.
Parlò più lentamente del solito, come se stesse soppesando le parole.
“Il tuo cuore.”
“Il mare lo sta mettendo alla prova.”
Beh, era vero. Lo era anche che stava bellamente cedendo, come ogni cosa malfunzionante, ma lo tenni per me. Anche se probabilmente lui ne era al corrente meglio di quanto lo fossi io stessa.
“Ti sei ammutinata.”
“Per tornare qui.”
Vero anche questo. Per poi farlo un'altra volta, ma questo ero abbastanza sicura che non lo sapesse -o meglio, lo speravo con tutta me stessa. Altimenti avrei fatto meglio ad andare a familiarizzare con i pesci.
Lo vidi inclinare la testa, e sostenni il suo sguardo.
“Sei cambiata.”
Non risposi.
“Sono deluso da te.”
Quando mai non lo era stato?
Alzai il mento, e mi azzardai a rispondere come mai avevo fatto nella vita.
“Dopotutto il tuo sangue scorre nelle mie vene, padre. Non potevo sottrarmi alla mia stessa natura.”
Le opzioni erano due: o mi stavo puntando il coltello alla gola invitandolo ad affondare, oppure-
“Stai insinuando che sono un traditore?”
Continuai a rispondere sull'onda di quella vaga incoscienza che mi dava la consapevolezza che molto probabilmente sarei morta: le scarse possibilità che lo portassi ad una posizione neutrale nei miei confronti erano tali che mi spingevano a parlare senza pensare troppo alle conseguenze. Un po' come ogni tanto faceva Azriel, però non sapevo dire se era peggio o meglio.
“Sto insinuando che ho un'indole difficile da governare.”
Questo era spudoratamente falso. Ero la persona più semplice da sottomettere al mondo, e lui aveva ben sfruttato la situazione in passato, potevo solo sperare che scambiasse la mia mezza disperazione per sfacciataggine. O coraggio.
Lo osservai alzare il viso e appoggiare il mento alle dita. Sembrava non aver scelto nessuna delle due, ma non ero mai stata capace di leggerlo bene come sapevo fare con altri.
“Perchè non dovrei ucciderti, Alice?”
Mi appoggiai allo schienale della sedia, sforzandomi di ignorare il mio nome. L'avevo sentito chiamarmi così pochissime volte, e mai in circostanze positive.
“Non hai nessun motivo per non farlo.” Ammisi, candidamente, sentendo il cuore battere furioso. Mi sforzai di mantenere la voce ferma. “E molti invece per farmi tagliare la testa. Tuttavia...”
Sentivo il suo sguardo rimanere su di me, e intrecciai le mani dietro la schiena per nasconderne il tremito incontrollato. Mossi qualche passo nella stanza, con un'aria sfacciatamente noncurante.
Chiunque dicesse che la paura faceva miracoli aveva la mia piena approvazione.
“...perchè non assecondare la tua curiosità, vedere fin dove posso spingermi? Perchè è questo che ti frena la mano, padre, la brama di vedere fin dove il tuo stesso sangue può spingermi lontano.” Alzai lo sguardo e lo puntai nel suo. “Fino a dove si trovano i limiti. I miei limiti, o i tuoi.”
Sapevo di aver toccato la leva giusta. Avevo instillato abbastanza dubbi su come avrei potuto essere, scansandomi sufficientemente dalla Alice del suo castello -brillante, sì, acuta, anche... ma sempre inopportuna e tremenamente priva di quei nervi che lui invece aveva d'acciaio. Così debole, perfino nel fisico.
“Sei congedata.”
Gli voltai le spalle uscendo con passo deciso e chiudendomi la porta alle spalle; solo allora mi concessi di repirare, ingoiando il sangue che sentivo sulla lingua e portandomi una mano alla tempia.
Devo muovermi.
Ebbi pochissimo riposo, nei giorni seguenti, e incominciai a temere di non avere abbastanza tempo materiale. Avevo acquistato una certa libertà di movimento, sulla nave, e le boccette di liquido ambrato che ingollavo ogni mattina dal medico sembravano tenere a bada il mio cuore tanto da farmi quasi dimenticare che fosse un problema.
L'occasione che aspettavo giunse alla mattina del quinto giorno: avevo individuato da un pezzo la cabina dove lavoravano i progettisti, e mi tenevo sempre abbastanza vicina da poterla tenere d'occhio, per quanto mi fosse possibile senza destare sospetti.
Osservai l'uomo basso dagli occhiali tondi, che avevo individuato come il capo, uscire con due giovani allampanati e svelta lanciai la corda che avevo in mano. La osservai scivolare oltre la soglia e lasciai che chiudessero la porta; una volta abbastanza sicura di essere sola tirai pregando che funzionasse e sospirai sollevata nel vedere il nodo sciogliersi con un movimento fluido sbloccando la porta.
Mi infilai dentro sapendo di avere non più di pochi minuti, iniziando immediatamente a scorrere i documenti lasciati sul tavolo.
Dannazione al disordine dei fottuti progettisti!
Per mia fortuna stavano lavorando sulle ultime modifiche alla struttura dell'ammiraglia: scorsi i loro fogli, sussurrando fra me e me, aggrottando la fronte.
Ma questi...
Ero partita dal presupposto che l'ammiraglia non avesse nessun punto debole, e non mi ero soffermata a pensare che l'integrazione fra la Grace e le nuove modifiche poteva aver portato a difficoltà difficilmente risolvibili nel poco tempo che loro avevano avuto a disposizione per costruirla.
Non avevo sbagliato, e la conclusione era sempre la più ovvia.
L'ammiraglia era ancora imperfetta.
Scorrendo le righe riuscii a capire che era una difficoltà creata dal rapporto fra peso e potenza, soprattutto in relazione ai tre cannoni centrali delle due fiancate. Il contraccolpo dei tre di tribordo non era bilanciato correttamente a causa della asimmetria nella parte bassa della nave e, se almeno due di essi avessero sparato, lo scafo avrebbe rischiato seriamente di capovolgersi per il troppo peso a babordo.
Quegli armamenti erano inutilizzabili.
Avevo ancora due giorni e mezzo. In teoria avrei dovuto limitarmi a scoprire quello che potevo e rimanere viva, ma... Avrei potuto dare una mano al destino.
Ho due giorni e mezzo per preparare questa nave ad affondare.
Solo due di dei cannoni andavano collegati, ma servivano esperienze che io non avevo se non per letto su quello o quel libro. Impiegai quasi tutto il mio tempo a progettare il sistema di collegamento, basato su un sistema complesso di nodi che Gates e Azriel sarebbero stati fieri di vedermi realizzare. Persino Matt, JC e Vee lo sarebbero stati.
Per un attimo i pensieri che avevo così faticosamente arginato in un angolo, garantendomi la lucidità necessaria per muovermi abbastanza efficacemente su quella dannata trappola mortale, minacciarono di travolgermi. Sentii la paura strisciare su per la gola, avviluppandosi attorno al collo e al petto, rischiando di bloccarmi il respiro.
Sentivo il battere irregolare del cuore, così curiosamente simile al passo di uno zoppo, premere sulla cassa toracica.
Inspirai ed espirai, imponendomi di calmarmi. Venni chiamata ben presto a svolgere le mie mansioni e, adocchiato per l'ultima volta il mio schizzo su carta, lo strappai in pezzi più piccoli possibili per renderlo indistinguibile e lo gettai in mare.
Solo io ne sarei stata a conoscenza.
Riuscii a sistemare tutto il necessario solo l'ultima mattina, rischiando pi volte di essere sorpresa e scoperta. Arrivai a ringraziare qualsiasi divinità mi stesse proteggendo quando, la sera, sgattaiolai fuori a controllare il mio lavoro per l'ultima volta e ad assicurarmi che fosse tutto ben nascosto. I progettisti non lavoravano a quella parte della nave, cercavano di risolvere il problema alla radice sistemando la parte inferiore della nave, e l'equipaggio non prestava mai tanta attenzione quanto mio padre avrebbe voluto. Se solo su quella nave ci fosse stato un equipaggio da lui addestrato non avrei avuto la minima possibilità, ma fortunatamente la nave era di Phoenix e la gestione era in mano a lui.
Sospirai, scorrendo le dita finoa  controllare l'ultimo nodo.
Non era ancora pronta per affondare. Avrei potuto far scattare i cannoni, in quel preciso istante, ma... Non era quello il momento, dovevo avere pazienza.
Scivolai lungo il ponte evitando le ronde delle sentinelle notturne, i cui percorsi erano abitudinari e ormai conoscevo a menadito. Il nervosismo mi fece commettere qualche errore, facendomi passare rischi che avevo pensato di poter evitare facilmente, ma riuscii a portarmi fino a poppa dove, il pomeriggio, avevo fissato male una delle corde di una scialuppa. Mi sporsi appena dal parapetto e la vidi sospesa a pochi centimetri dall'acqua, abbassatasi a causa del lento scioglimento del nodo, e la feci scivolare in acqua senza il minimo rumore.
Il piano era che avrei dovuto aspettarli, ma... era più facile allontanarsi per me dall'ammiraglia che per loro avvicinarsi.
Mi aggrappai ad un'altra fune con la mano, mentre ringraziando di essere ambidestra con la sinistra finivo di sistemare le ultime cime. Atterrai sul legno della scialuppa con un piccolo tonfo, sbrigandomi a spingermi con un remo e a iniziare ad allontanarsi silenziosamente dalla nave.
La spalla mi doleva e sentivo che gli effetti del rimedio del medico stava iniziando a svanire: strinsi i denti combattendo contro le fitte che andavano irradiandosi pungenti dalla spalla e più soffuse dal petto.
Quando li vidi, una macchia scura in lontananza, mi sembrò di tornare a respirare. Feci appena in tempo a farmi notare che, come se all'improvviso fosse scaduto il mio tempo, il mio fisico mi presentò il conto.
Crollai sul fondo della scialuppa udendo solo confuse le grida dei ragazzi e di Azriel, e mi sembrò di essere tornata al giorno dell'assalto della Grace.
Non sono mai stata una d'azione. Quella parte si addice di più ad Azriel, e il motivo c'è: sono debole, fottutamente debole, e non potrò mai fare niente in merito.
Rimasi vagamente cosciente, questa volta. Mi imposi di mantenermi fuori dalla zona d'ombra almeno per fargli sapere che in fondo non stavo poi così male e che avevo svolto il mio compito.
Strinsi automaticamente le dita che trovai fra le mie.
“Al, Al!”
Mi sentii mancare nel sentire la voce di Azriel, rotta dal pianto, e capii che stringevo la sua mano. Rafforzai la presa.
“Azriel...”
“Ti hanno ferita? Alice, ti hanno ferita?”
Matt era impaziente più del solito. Per un attimo mi balenarono davanti agli occhi i primi giorni sulla Sevenfold e come lui, Vee e Johnny mi avevano aiutato. Se Azriel era mia sorella, pensai, loro erano i miei fratelli.
“Alice, dannazione, rispondi!”
Poi eccolo, lui. Gates. Con lui era un'altra storia, tutta un'altra storia. Alla fine non eravamo arrivati a minacciare di buttarci in mare a vicenda, come avrei scommesso i primi giorni, ma ero riuscita a guadagnarmi il suo rispetto. In uno strano e complesso modo che non avevo ancora ben capito, a dirla tutta, ma... Andava bene così, andava benissimo così.
“Alice!”
Oh, quante storie...
Serrai gli occhi, avvertendo il dolore farsi insopportabile, e mi lasciai sfuggire un mezzo grido di dolore, inarcando la schiena. Il braccio, ora, era quasi niente rispetto al petto.
Mi si presentavano due strade, le uniche che avrei mai potuto scegliere: lasciarmi scivolare nel buio, protetta dal dolore ma impotente, oppure combattere per rimanere cosciente.
Feci la mia scelta.
“Ho... mantenuto la promessa.” Riuscii a dire, ansante, rivolta a nessuno in particolare se non ad Azriel che era accanto a me.
Li sentivo parlare concitati.
“Non l'hanno ferita. C'è solo quella che le ha inferto Rev, e nient'altro...”
“Matt, cazzo, fai qualcosa!” Sentii urlare Gates, da poco sopra la mia testa.
Se solo avessi avuto le energie per qualsiasi cosa non fosse controllare il dolore, avrei alzato gli occhi al cielo.
“Malformazione... cardiaca.” Soffiai, mentre sentivo Az irrigidirsi. Le avevo detto che ero stata tenuta come sotto una campana di vetro a causa di problemi di salute, da piccola, ma non le avevo riferito il motivo. Mi sentii in colpa. “Attacchi sporadici.”
Non ne soffrivo da anni, e mi chiesi se quello non fosse un segno che qualcuno non mi volesse su quella nave, con quelli che erano diventati i miei fratelli e con mia sorella e il capitano. Con Gates.
Al diavolo.
Da bambina avevo il terrore di quei momenti. Era come giocare veramente ai dadi con il destino: non sapevo se mi sarei svegliata oppure no, e vivevo con questa consapevolezza che mi pendeva sul collo come una spada di Damocle.
Al mio risveglio trovavo sempre mio padre sulla porta, le braccia incrociate, e con l'andare delle volte mi sembrava di intravedere sul suo viso una qualche espressione di delusione. Non abbastanza da dire che avrebbe voluto che morissi, ma nemmeno così poca da poter affermare che voleva mi salvassi.
Non permetterò che mi portino via.
Aprii gli occhi, vedendo come prima cosa i volti sfocati ma familiari della mia famiglia: Gates che mi teneva la testa in grembo, Azriel accucciata di fianco a me con Rev che la stringeva forte, Johnny in piedi appena dietro Matt e infine Vee, che mi guardava a metà fra lo speranzoso e lo spaventato.
Rallentai il respiro, facendoli scattare dallo spavento, ma riuscii a bloccarli posando leggera una mano sul petto di Matt che già si stava tendendo verso di me.
Respira.
Avevo già scelto la mia strada, avevo scelto di rimanere perchè non sarei morta lì.
Non lo avrei fatto, non lo avrei permesso. Non mi sarei lasciata piegare.
Lo aveva detto, che avrebbe ceduto.
Mi sentii improvvisamente più padrona della situazione: non abbandonandomi completamente all'incoscienza potevo riuscire a tirare avanti abbastanza a lungo da arrivare alla Sevenfold.
Dopo di che mi sarei affidata a Matt e Az, mettendomi nelle loro mani.
“Se vi muoveste... mi fareste un piacere.” Mormorai, stringendo la mano di Azriel e lanciandole un'occhiata per vederla sorridere.
“Magari anche in fretta-”
Uno spasmo involontario dovette convincerli e sentii Johnny, il capitano e Vee muoversi.
Cedere?
Pensai ai nodi che, nascosti, attendevano sull'ammiraglia.
Non saremo noi, a cedere.


Note: aggiornamento puntuale :3
Grazie a chi ci legge ancora.
See ya,

Marinaia Al (e capitano Sah).

  
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