Serie TV > Violetta
Segui la storia  |       
Autore: GretaHorses    10/09/2014    15 recensioni
""Leon ascoltami: non ho detto che devi amare me, devi amare lui!". Indicai tremante il mio ventre. No Vilu, non piangere. Non in quel momento, non davanti a lui. "Non sarei di troppo?". Assunse un'espressione sarcastica e ridacchiò. "Ma cosa stai dicendo? Lui ha bisogno di te". "Ce la può fare benissimo senza di me, un padre ce l'ha già!". Mi urlò contro con una rabbia tale che quasi mi fece paura. "Hai ragione, lui non ha bisogno di te. Diego mi è stato vicino in tutti questi mesi e di certo lo ama più di te che non ci sei mai stato. Amare per te è un optional, giusto? E' sempre stato così, non capirai mai". Decisi di andarmene e mi voltai, non volevo più sentire un'altra parola uscire dalla sua bocca. Erano passati quasi due anni dal nostro ultimo addio, quattro mesi da quella maledetta sera. Ma se non me ne doveva importare più nulla, perché faceva così male?".
Questo è il sequel di "Indovina perché ti odio", vi consiglio di leggere la fanfiction precedente se non l'avete ancora fatto.
Enjoy.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Leon, Un po' tutti, Violetta
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

CAPITOLO 2

 

 

 

Scostavo la sabbia da sotto i piedi, le davo calcetti e la rigiravo fissando quei movimenti ripetitivi annoiata. Non mi piacevano le feste e nemmeno il mare in estate, cosa ci poteva essere, dunque, di peggio di un party sulla spiaggia? Mi voltai verso il gazebo sotto il quale stavano avvenendo i festeggiamenti, rimpiansi la solita grigliata di Ferragosto fatta da papà. Della musica latina riecheggiava nell'aria e le luci stroboscopiche si riflettevano nella distesa d'acqua creando mille giochi di colori, tutti loro sembravano divertirsi ed io me n'ero andata proprio sul più bello o meglio, così aveva detto Cami. Non me n'ero propriamente andata, diciamo che avevo voluto assentarmi per un po' e stanziarmi in un posto più calmo. Preferivo cento volte stare in riva al mare ad osservare la luna e le stelle, soprattutto quelle cadenti. Anche se alla lunga cominciavo ad annoiarmi perché alla fine il cielo era sempre lo stesso ed il massimo dell'intrattenimento era giocherellare con la sabbia con le dita dei piedi. I miei migliori amici erano decisamente dei festaioli ed ogni scusa era buona per far baldoria, mentre io ero quella più mite del gruppo che si limitava a seguirli come un cagnolino per poi fossilizzarsi in qualunque cosa ci si potesse poggiare il sedere. Tornai a guardare il mare di fronte a me e feci qualche passo in avanti andandoci dentro bagnandomi fino alle caviglie, era tiepido. Mi portai le mani ai fianchi fissando l'orizzonte, quell'estate era di sicuro la più calda che avessi mai vissuto. Persino con degli shorts cortissimi ed una canottiera pativo le pene dell'inferno, non vedevo l'ora che arrivasse l'inverno che era senz'ombra di dubbio la mia stagione preferita. “Figo l'effetto che le luci fanno nell'acqua”. Conoscevo molto bene quella voce, fin troppo bene. “Già”. “Come mai tutta sola?”. Mi voltai verso di lui. Era vestito con una camicia rossa a fiori bianchi e delle bermuda blu, sorseggiava un cocktail giallo acceso. “Mi annoiavo”, risposi come se fosse ovvio. Scoppiò a ridere scuotendo il capo. “Giusto, l'allergia alle feste”. Gli sorrisi. “Bravo, vedo che te lo ricordi”. Mi porse il bicchiere cilindrico. “Ne vuoi un po'?”. “Che cos'è?”. “Un cocktail”. Inarcai un sopracciglio. “Questo l'avevo capito, cos'ha dentro?”. “Vodka e frutto della passione”. Lo afferrai e ne diedi un assaggio, subito sentii l'alcool bruciarmi la gola però poco dopo rimase solamente il gusto del frutto della passione in bocca. “Buono”. Glielo ridiedi indietro. “Sicura che non vuoi finirlo te?”. “Sicura”. Posai gli occhi sui miei piedi sott'acqua, ero un po' a disagio. Nonostante fosse passato un sacco di tempo dalla nostra rottura e ci frequentassimo saltuariamente assieme alla compagnia, parlare con lui da sola risultava sempre imbarazzante. “Fra un mese si ricomincia. Siamo già in quinta, come passa il tempo”. Alzai il capo per fissare la luna piena. “Mi sembra solo ieri il primo giorno di liceo”. Cercai di non pensare al nostro primo incontro, ai nostri occhi che s'incrociavano. Fallii. “Già”. Armandomi di non so quale coraggio, mi girai e gli chiesi: “Come va con Raquel?”. Scrollò le spalle. “Non stiamo più insieme da un mese”. Non stava più con lei? Dentro di me stavo saltando di gioia, ricordavo ancora quanto ci stetti male quando lo scoprii. “Mi dispiace”. Sospirò distogliendo lo sguardo dal mio viso per guardare di fronte a sé. “Cosa ci vuoi fare? La vita è così”. Volevo domandargli il motivo, ma sarei sembrata troppo invadente. Riservato com'era, si sarebbe rifiutato di sicuro. Non osavamo osservarci più del dovuto, stavamo fissando la notte a mezzo metro di distanza. “Adesso vado, ti va di venire con me?”. Mi morsi il labbro esitante sul da farsi. No, non dovevo illudermi. Mi aveva chiesto solamente di raggiungere la festa in compagnia, di certo dopo si sarebbe allontano con Andrès o qualcuno dei ragazzi lasciandomi con le altre. Raquel l'avrà mollata per ben altri motivi, io non c'entravo. No, Vilu: non illuderti. “Preferisco rimanere qua ancora un po'”. “Come vuoi”. Se ne andò silenziosamente, non fece il minimo rumore. Come sempre, del resto, quando si allontanava da me. Una fitta allo stomaco m'investì, vidi la sua schiena confondersi fra le altre. Che avessi perso un'occasione? Provai rimorso, perché ero così stupida? Certo, non dovevo farmi strane idee, però infondo cos'avevo da perdere? Mi voltai verso il mare, poi verso il party e così altre tre volte. Poi corsi in direzione del gazebo.

 

 

Fisso incantata le lancette dei secondi ruotare nel quadrante dell'orologio, il tempo sembra dilatarsi quando sono qua dentro. Ho l'impulso di torturarmi il polso, ma non posso in questo momento. Di tutti i ricordi di lui che dovevo ripescare nella mia mente, proprio questo? Masochista. Per cui mi sfrego le mani, gesto che fin da piccola indica il mio stato di irrequietudine. Sposto lo sguardo sul soffitto bianco sopra di me, cerco di concentrarmi sul mio battito cardiaco. Delle volte vorrei non sentirlo più, ma poi penso ad Enrique e mi faccio schifo per aver anche solo concepito un'idea simile. E' un pensiero egoista viste le circostanze. Ma quando mai non agisco da egoista? Chiudo le palpebre ed improvvisamente sento una canzone latina, le onde del mare ed odoro la salsedine. Gli occhi si inumidiscono e serro la mascella, li riapro di scatto e vengo riportata alla realtà. Non c'è nessuna spiaggia, nessuna festa e nemmeno lui. Forse è meglio così, ma una parte di me, quella più piccola e rumorosa, urla per poter tornare indietro. Non si può, ma lo farei per correggere tutti gli errori che ho commesso e so che sono tanti. Quella sera no. Non la cancellerei. “Senta signorina Castillo, ho molta difficoltà a fare il mio lavoro se lei non collabora. E' da un mese che viene qua e le uniche informazioni che ho riportate nel suo fascicolo sono quelle datomi da suo padre. Perché non parla?”. Perché non sono qui di mia spontanea volontà, forse? “Semplicemente perché non c'è nulla da dire”. Quando le parlo fisso sempre il soffitto, mai il suo viso. La donna sospira, probabilmente per il mio essere indisponente. Un fruscio di carte, cosa starà facendo? Non ho voglia di guardare, sembrerebbe che mi interessi qualcosa quando invece non è così. “Qui c'è scritto: non ascolta più nessuno, si è chiusa in sé stessa, non esce più di casa, perdita di interesse per qualsiasi cosa, risposte sempre meno frequenti alle domande, insonnia, depressione. Quindi ce ne sarebbero di argomenti da trattare”. Scoppio in una risata amara che invade tutta la stanza. “Lo trova divertente?”. Scuoto il capo. “Lei non sa cosa sia la depressione se ha riportato questo in quel maledetto fascicolo”. “Però i sintomi ci sono tutti”. Inizio ad innervosirmi, ma non voglio dargliela vinta. Non la degnerò di un'occhiata. “So cosa significhi essere depressi, so cosa voglia dire camminare in mezzo ai matti. Io lo so, lei no. E se è per questo non è nemmeno una vera psicologa, sennò non si troverebbe qui”. Alla quarta seduta finalmente ho avuto il coraggio di sputarle tutta la verità addosso ed è strano perché ultimamente io e verità stoniamo nella stessa frase. “Solo perché sono un complemento scolastico facoltativo, non significa che non sappia fare il mio lavoro come si deve. La laurea che è appesa al muro è mia, mica di qualcun altro!”. L'ho punta nell'orgoglio e si capisce dal tono di voce leggermente più alto, ma di certo non si scompone. Non sgarra mai, come fa? Fossi lei avrei mandato fuori dalla studio una studentessa che mi si rivolge così. “Io e gli psicologhi non siamo mai andati d'accordo”, sentenzio. E forse è per questo che ce l'ho tanto con la dottoressa Izco. Siccome non ci sono mai andata di sana pianta, non vedo il motivo di aprirmi con una sconosciuta. E' innaturale per una come me. “Perché mai? Sono qui solamente per cercare di risolvere i suoi problemi”. Sospiro. “Lo so, lo so. E' solo che non sono qui perché voglio io, ma perché mi hanno costretta ed è sempre stato così”. “L'avevo capito da quando mi è toccato venire a prenderla in classe per la seconda seduta”. Ricordo ancora la figuraccia: la psicologa della scuola che entra nella classe per trascinarmi nel suo studio, non è una scena molto bella a cui assistere. Soprattutto perché da quel momento in poi tutti sanno che devo andare da una strizzacervelli, anche se credo non siano stati molto lontani dall'immaginarlo. “Il punto è che se lei è qui significa che lì fuori qualcuno ci tiene e non vuole perderla un'altra volta, cerchi di vederlo come un gesto d'amore. Loro le voglio bene e desiderano il meglio per lei, non lo dia per scontato”. Avvolgo le braccia attorno alle ginocchia, intanto sento il rumore di una penna sfregarsi contro della carta. Sta scrivendo. “Lo dicono tutti, ma non voglio far pena a nessuno e devono ancora comprenderlo. Più si comporteranno così e più mi allontanerò da loro, è matematico”. Ci mette un po' prima di continuare, penso perché sia impegnata a riportare ciò che dico anche se non so cosa ci sia d'importante nelle mie parole. “Perché non cerca di vederla diversamente? Loro non vogliono farlo per pietà, ma le offrono un aiuto sincero”. Eppure non mi sembra così difficile comprendere la motivazione, pure lei che vive in funzione degli altri non ci riesce. “Che aiuto potrebbero darmi? Non è una cosa solida, materiale, fattibile. No, non lo è. E' una cosa astratta, come potrebbero aiutarmi? Qui non si tratta di un fatto accaduto, di un trauma da smaltire o di qualsiasi cosa definita e reale. Non sono fisici i sentimenti, si tratta di ciò che provo”. Mi rendo conto di averlo detto in modo esasperato, ma infondo è tutto ciò che vorrei avessero capito fin da subito. La dottoressa sta annotando in fretta e furia, lo so anche se non la vedo. Il soffitto dal suo canto è sempre immobile ed impassibile, in contrasto con lo stato febbrile della donna la quale sarà sicuramente felicissima di non buttare via un'altra ora senza far niente. Intanto nel corridoio suona la campana, è ricreazione. Lo sguardo ricade sull'orologio e mi sembra pure di sentire il rumore della lancetta. Tic, tac, tic, tac. Un'altra mezzora di questa tortura. Un vociare ammortizzato arriva alle mie orecchie, tutti si stanno prendendo la loro meritata pausa dalla mattinata scolastica. Vorrei essere là fuori, almeno potrei chiacchierare con qualche mio amico e non starei qua stesa su questo lettino a guardare per aria come una scema. “E lei cosa prova?”. Tutto ad un tratto i rumori diventano distanti tanto da non sentir più la gente, la bocca dello stomaco si chiude ed è come se mi stessero annodando la gola. Prendo un respiro profondo e strizzo le palpebre, dopodiché, per la prima volta, mi volto per vederla in faccia. I capelli rossicci, corti e sbarazzini, gli occhiali abbassati sulla punta del naso adunco e le rughe agli angoli degli occhi e sulla fronte. “Dolore”. Poi torno a fissare lo stesso punto di prima silenziosamente. Sì, è questo ciò che veramente sento. Non è amore, felicità, tristezza, odio, delusione. E' dolore tutto ciò che riesco a provare dentro. Quando di notte rimango sveglia assieme ad esso e viene tolta una parte di me ogni volta, è come se una mano entrasse in me e strappasse qualcosa lacerando la carne e tutto ciò che vi è attorno. Riesco quasi a sentirlo fisicamente. Le gambe tremano debolmente e le tengo ferme bloccandole, ho bisogno di quell'elastico. Sostanzialmente non serve a nulla, ma mi dà l'illusione di potermi scordare della ragione per cui sto male per una frazione di secondo. “A cosa è dovuto questo dolore?”. Contraggo il viso in una smorfia, le mie sopracciglia quasi si toccano. “O meglio, a chi?”. Inizio ad inspirare ed espirare sempre più velocemente, lo sapevo che era una brutta idea venire qui. “E' per il padre del bimbo, giusto?”. Stringo i pugni e mi metto seduta, dopodiché poggio i piedi a lato della sdraio e mi alzo in piedi. “Dove pensa di andare, signorina Castillo?”. “Via di qui”, sbotto. La psicologa mi fissa incredula da dietro la scrivania, tiene ancora la penna stretta a mezz'aria. “Non può abbandonare una seduta a metà!”. Incrocio le braccia appena sopra al ventre rigonfio. “C'è qualche regola che lo vieta?”, chiedo acida. Non osa fiatare, ha la bocca semiaperta e gli occhi spalancati. “Perfetto, alla settimana prossima”. Le do le spalle e raggiungo la porta, poso la mano sulla maniglia e la apro. Appena sono in corridoio la richiudo poggiandomici con la schiena e prendendo una bella boccata d'aria, è un via vai continuo di persone. Le stesse sensazioni di poco fa m'investono e sento l'ossigeno venir meno. Due occhi verdi mi stanno scrutando poco distante da dove mi trovo. Mi fissano e cercano i miei che invece scappano appena s'incontrano. Pongo fine al tutto voltandomi dalla parte opposta e dirigendomi verso la mia aula rapidamente sotto gli sguardi inquisitori di tutta la scuola. Lo sapevo che era una brutta idea venire qui.

 

 

Ero agguantata ai bordi del lavandino col capo rivolto verso il basso. Non poteva essere. Alzai lo sguardo e mi trovai davanti al mio riflesso: una ragazza più bassa della metà di esso, coi capelli tenuti assieme in modo disordinato e gli occhi stanchi. Una cosa del genere non credevo sarebbe potuta capitare ad una come me. Staccai una mano e l'allungai all'interno di esso rigirandovi tutti i quattro test per rivederne i risultati ancora incredula: tre positivi ed uno negativo. Un tremolio mi attraversò il corpo e rabbrividii nonostante fossi vestita abbondantemente. Cosa potevo fare? Come dovevo dirlo? Pensai subito all'aborto. Era veramente l'unica soluzione? Chi ero io per porre fine ad una vita che doveva ancora iniziare? Uscii dal bagnetto e mi sedetti sul letto a peso morto. Una responsabilità così grossa non potevo prendermela, era appena cominciato il mio ultimo anno di scuola ed avrei avuto gli esami. L'università? I miei sogni? Quell'incognita chiamata futuro che tanto mi spaventava? Volevo solamente vivere la mia vita al massimo ed avevo programmato tutto nella mia testa, quello mi avrebbe solamente scombussolato i piani. No, non potevo. Mi ero imposta di far di tutto per inseguire i miei obiettivi e di superare ogni ostacolo mi si fosse parato dinnanzi, quello era un enorme ostacolo. Mi guardai attorno osservando bene la mia stanza dalle pareti rosa: era da bambina. Infondo io cos'ero? Tutto meno che un'adulta. Lo si vedeva dalle piccole cose: nonostante la maggiore età ero ancora troppo giovane per vivere un'esperienza che dovrebbe spettare ad una persona decisamente più grande. La situazione stonava con l'ambiente circostante appartenente ad un'adolescente qualsiasi, infatti mi sentivo tale. Non ero pronta per definirmi una donna, anche se pensandoci bene non mi ero mai posta il problema. Se quello comportava esser grandi, non avevo per niente voglia di crescere. Qualcuno bussò alla porta debolmente, già dal tocco delicato capii di chi si trattasse. “Chi è?”. “Ludmilla”. “Entra pure”. Entrò e chiuse il tutto dietro a sé, sapeva quanto ci tenessi alla privacy. Poi mi raggiunse e si accomodò al mio fianco seria in volto. “Perché mi hai chiamata?”. Con lo sguardo fisso altrove risposi: “Avevo bisogno di parlare con qualcuno”. “Di che cosa? Mi devo preoccupare?”. Più passavano i secondi, più divenivo agitata. “Dipende da come la prendi”. Finalmente trovai il coraggio di guardarla in faccia, aveva un'espressione corrucciata. “E' difficile da dire così su due piedi anche perché è una cosa fresca, scoperta da poco”. Sfregai le mani fra loro, dopodiché le asciugai sulla stoffa dei pantaloni. Sudavo freddo. “Sono successe cose quest'estate o meglio, una cosa...”. Fissai le mie Converse rosse come se stessi parlando con loro anziché con lei. Scarpe da ragazzina. “Non so se ti ricordi di Ferragosto”. “Certo, la festa”. Mi schiarii la voce. “Ecco, non sono stata male quella sera e non l'ho passata nella mia stanza”. Alzai lo sguardo per poterla vedere negli occhi, era confusa. “E allora dove sei stata? Ti abbiamo cercata ovunque”. Un magone s'insinuò fra le corde vocali e la bocca, facendo uscire sempre più a fatica le parole. “Ero con Leon”. Un sorrisetto dato dal nervosismo si estese nel mio viso ed iniziai a sbattere le palpebre rapidamente. “Suppongo quindi che lui non si fosse allontanato perché doveva andare da sua madre urgentemente”. “Esatto”. “Dov'eravate?”. Portai una ciocca dietro l'orecchio imbarazzata, perché provavo vergogna di ciò? Lud era una delle mie migliori amiche, non avevo nessun motivo di essere pudica. “Sempre lungo la spiaggia, circa un chilometro a nord della festa e del residence”. Aveva la bocca semiaperta e scosse leggermente il capo. “Non capisco, che ci facevi con lui?”. Mi misi a guardare un punto indefinito di fronte a me, ecco: era arrivata ufficialmente la parte peggiore da dire a parole. “Abbiamo parlato e dopo...”. Mi morsi la lingua, come potevo formulare la frase? Non volevo che che suonasse volgare, ma nemmeno che non si capisse. “Dopo cosa?”. Buttai fuori dell'aria per poi riempirmi i polmoni nuovamente. “Abbiamo...”. Posai i palmi sul letto e cominciai a far ciondolare le gambe. “Avete?”. Chiusi gli occhi, poi gli riaprii. “Lo abbiamo fatto”. Mi voltai di scatto per vederla in viso. “Lo avete fatto cos...oh”. Annuii sommessamente. “Ma spiegami: sulla sabbia? Non vi ha dato fastidio?”. Scoppiai in una risata. “Io ti sto dicendo che ho fatto sesso col mio ex che poco prima stava con un'altra e ti preoccupi della sabbia?”. “Giusto, perdonami”. Tornai a fissare il pavimento, poi la riguardai. “Comunque eravamo in una cabina di quelle per cambiarsi”. Mi sorrise, però poi si fece di nuovo seriosa. “Non mi hai chiamata per questo, vero?”. Negai con la testa e l'atmosfera che si era un po' alleviata tornò a farsi pesante. “Come mai non l'hai detto a nessuno a distanza di un mese?”. Sospirai, mi sembrava di avere un macigno nel petto. “Non è andata come speravo”. Non osò ribattere, per cui continuai. “Abbiamo avuto una discussione il giorno dopo e credo sia ancora arrabbiato con me”. “Sì, mi ricordo e mi avevi accennato qualcosa. Ora i conti tornano, prima non aveva molto senso perché non capivo che motivo lo spingesse a prendersela tanto per una cosa così futile. Insomma, vi eravate mollati da un anno e mezzo e quella scenata era del tutto fuori luogo”. Chinai il capo e lo strinsi con le mani. “C'è stato un altro periodo, in verità, in cui credevo sarebbe tornato”. Sgranò gli occhi. “Ah sì? Quando?”. “Verso Natale, ha ricominciato a scrivermi dicendo che gli mancavo e voleva che fossimo amici. Ovviamente ho acconsentito perché ero disposta ad accettare qualsiasi cosa pur di averlo in qualche modo nella mia vita. Infatti ha ripreso ad uscire con la nostra compagnia più frequentemente ed eravamo abbastanza in buoni rapporti, poi ha smesso di cercarmi e sono venuta a sapere che si era messo con un'altra”. “Vi siete scritti per un bel po'”, constatò. “Un paio mesi”. Mi grattai la nuca. “Comunque non erano cose importanti, discorsi che farei anche con Maxi o Diego”. Aggrottò la fronte, poi chiese: “Sono confusa, che c'entra tutto questo? Cosa devi dirmi? Immagino c'entri lui”. Deglutii, ecco che ritornammo al motivo per cui l'avevo pregata di venire da me più in fretta che potesse. Dovevo dirlo a qualcuno. “E' da un po' che mi sento strana. Sono sempre stanca, ho giramenti di testa e spesso mi viene da vomitare. Il ciclo doveva arrivarmi alla fine di agosto ed ha tardato più di due settimane. Oggi ho fatto il test e...”. Feci una pausa per riprendermi. “...sono incinta”. Rimase col fiato sospeso, dopodiché di slancio mi abbracciò. Con voce ovattata, disse: “Lui lo sa?”. Scossi il capo, non aggiunse altro. Per questo avevo scelto lei: avevo la certezza che non avrebbe detto parole di troppo, non mi avrebbe fatto la ramanzina sui contraccettivi o bombardato di domande su cos'ero intenzionata a fare. Perché non ne avevo la più pallida idea e che avrei potuto rispondere? Con lei era sempre così: le dicevi cosa non andava e ti stringeva a sé silenziosamente, sapeva che detestavo le frasi fatte e le cose superflue. Parlare a volte era di troppo. La consolazione migliore erano gli abbracci sinceri e lei me li sapeva dare. Ecco perché, nonostante tutto, preferivo Ludmilla a tanti altri.

 

 

Esco dal bagnetto e attraverso la mia ex camera per poi arrivare in corridoio. Quel giorno ero combattuta perché non sapevo se tenere il bambino oppure no, ma speranzosa nel fatto che lui sarebbe tornato da me non appena gliene avessi parlato. Niente di più sbagliato. Mi ero solamente illusa, le sue parole mi avevano illusa. Credo che nella natura umana ci sia una propensione particolare all'illusione, sembra quasi che ci piaccia fantasticare su cose che probabilmente non accadranno. L'altra faccia della medaglia, però, è il dolore conseguente. Perché continuiamo a farlo se ci fa soffrire? Forse proviamo una strana sorta di piacere in questo circolo vizioso? Entro nella mia stanza e trovo papà ed Angie seduti sul mio letto. Mi fermo sulla soglia e li squadro sospettosa. “Che ci fate voi qui?”. Papà congiunge le mani e le porta appena sotto il mento. “Ti stavamo aspettando”. Corrugo la fronte e chiudo la porta dietro a me. “Che volete ancora da me?”. “Vilu, essere scontrosa non serve a niente”, dice zia. Serro le palpebre e la mascella, incrocio le braccia appena sopra il ventre. “Per favore, andate subito al punto: cosa volete esattamente?”. Riapro gli occhi, per poi ridurli a due fessure. “Se avete intenzione di farmi altri discorsi sul lasciarmi dietro il passato e concentrarmi sul presente, sappiate che ho afferrato il concetto e che sono stufa di sentirmi ripetere la solita tiritera”. “Anche se non sono per niente convinto che tu abbia afferrato quel concetto, io ed Angie non siamo venuti a parlarti di questo”. Allora perché sono qui? Improvvisamente estrae un foglio ripiegato dalla tasca dei jeans, lo apre ed ha tutta l'aria di essere un depliant. “Dato che con la psicologa sembri non fare alcun progresso, ci siamo informati online ed abbiamo scoperto che fanno degli incontri con uno specialista in cui puoi sfogarti liberamente di fronte a persone col tuo stesso problema”. Vuole che vada a parlare dei miei problemi di fronte a dei perfetti sconosciuti? A malapena lo faccio con le persone a me vicine, figurarsi con loro. Faccio per ribattere indignata, ma continua: “E' un'opportunità per confrontarti con chi vede tutto nero come te e scoprire che lì fuori c'è qualcuno messo peggio, magari in questo modo inizierai a vedere le cose sotto un'ottica diversa. Qui nel volantino ci sono tutte le informazioni, abbiamo già telefonato e ci hanno detto che ci sono altri posti disponibili. Manca solo il tuo consenso che sono convinto non avremo, ma, come per la psicologa, devi andarci se vuoi uscirne”. Scuoto il capo con vigore. “Farò anche fatica ad afferrare il concetto di dimenticare il passato, ma voi faticate a capire che non c'è niente da cui uscire. E' un problema frutto della vostra mente! Certo, sto male, ma non voglio l'aiuto di nessuno perché so gestire la cosa. E grazie per avermi dato della depressa alla strizzacervelli, sapete? Grazie tante”. Li vedo scambiarsi un'occhiata sconsolata, dopodiché zia afferra la mano di papà per stringergliela. “E' difficile per te, ma è difficile pure per noi. Non c'è cosa peggiore di stare a guardare da lontano impotente quando vorresti fare qualsiasi cosa pur di rivedere il sorriso sul volto di una persona che ami. Per favore, Vilu: va' a quegli incontri, sei anche libera di non parlare e di ascoltare semplicemente gli altri. Fallo per noi, per il bambino, ma soprattutto per te stessa. Mia sorella sarebbe molto fiera di te se lo facessi, so che se fosse qui ti starebbe dicendo le nostre stesse cose”. Mamma. Penso spesso a lei, ogni martedì vado al cimitero per andarla a trovare ma non mi sono mai chiesta cosa mi direbbe in questa situazione. Che avessero ragione? Mamma vorrebbe che andassi da una figura professionale per farmi aiutare? In che modo, però, potrebbe? Non sono un oggetto o una macchina che può essere riparata, non funzionerò mai bene e come vogliono loro. Si tratta di ciò che provo. Tentar non nuoce, però: mal che vada smetto di andarci. “Dove vengono svolti quest'incontri?”. Nessuna risposta. Papà fissa il depliant, mentre Angie le sue scarpe. “Avete intenzione di dirmelo sì o no?”. Lui alza lo sguardo, tentenna. “Al...al...centro psichiatrico Rosalba Martinez”. Un forte senso di nausea m'investe come se avessi una carcassa sotto al naso, mi tengo in piedi poggiandomi con una mano al muro. “Vilu, lo so che non...”. “No, voi non sapete!”, urlo in maniera disumana facendoli spaventare. “Dicono tutti di sapere, ma se non l'avete provato sulla vostra pelle non potete!”. Per quanto cerchi di trattenerle, delle lacrime iniziano a scivolare lungo il mio viso. “Come non siete in grado di distinguere la depressione vera da tutto questo! Andatevene dalla mia stanza, subito!”. “Non volevamo di certo...”. “Fuori!”, stronco subito zia. Tornano in piedi per dirigersi verso l'uscita, mi scosto per farli passare. Aprono la porta ed escono, ma Angie torna indietro sbucando solo con la testa. “Non so cosa si provi, non so cosa voglia dire, ma ti prego: pensaci. Ricorda a quello che ti ho detto poco fa, ricordati di Maria”. Poi se ne va definitivamente chiudendosi l'uscio alle spalle. Mi asciugo le lacrime rafferme con il palmo della mano per poi andarmi a sedere sul letto, sopra la coperta c'è ancora posato il volantino. Lo afferro per guardarlo meglio, lo sfoglio e leggo alcune delle informazioni riportate pensosa. Si chiamano gruppi di ascolto e si riuniscono ogni settimana nel settore B. Lo stomaco si contorce alla parola 'settore' perché il centro è diviso in questi, appunto. Ero nello G, poi spostata nello D. Più si procede con le lettere dell'alfabeto, più i pazienti sono gravi. Arrivano fino alla lettera I, questo faceva di me parte della cerchia dei ricoverati più critici a causa soprattutto delle allucinazioni. Quando sparirono, mi trasferirono 'promuovendomi' di settore. Se nello G camminavo fra i matti, nello D vivevo con i depressi. Osservo ancora il depliant rigirandomelo fra le mani, ripenso a mamma, Angie, papà, nonna, tutti. Posso farlo per loro, ma per me stessa? Strappo il foglio e poggio i resti sopra il comodino. No, rivedere quelle mura non mi farebbe di certo bene ed adesso devo pensare solo al bimbo, al mio Enrique. Non voglio aggravare una situazione già brutta di per sé, il piccolo merita molto più di tutto questo. Ed io devo comportarmi da brava madre.

 

 

Poso la penna e mi passo le mani sul viso, poi prendo un respiro profondo. Concentrarsi è la cosa più difficile. Una volta mi piaceva studiare, ora è solamente un peso. Come può importarmi della seconda guerra mondiale se nel frattempo devo pensare a come crescere mio figlio? E' proprio in questi momenti che sento di più la collisione fra i miei due mondi: Violetta ragazzina e Violetta adulta. Non riesco a farli andare d'accordo, sono uno scontro continuo e ciò comporta un conflitto interiore costantemente. Ci sono volte in cui mi manca tremendamente la vita leggera e spensierata in cui la preoccupazione più grande poteva essere il compito di matematica, ma pensandoci bene: quando mai ho avuto una vita leggera e spensierata? Dio ha fatto un lavoro strano con me, ho bruciato troppe tappe riducendomi a ciò che sono ora. Una ragazza madre con complessi esistenziali che non sa cosa vuole da sé stessa e dalla propria esistenza. La gravidanza ha messo in discussione tutto: sogni, piani futuri, certezze. Nulla è com'era prima che scoprissi di aspettare un bambino, persino le persone sembrano cambiate. Non mi riferisco solamente a lui, intendo anche i miei amici e la mia famiglia. Alcuni legami sembrano essersi rafforzati, altri si stanno lentamente deteriorando. Ed io guardo il tutto esternamente senza far nulla per recuperarli, mi odio per questo a volte. Con Francesca non capisco cosa stia passando, ci sono momenti buoni ed altri no. Sento che sto perdendo la mia migliore amica. Dovrebbe arrivare fra non molto, le ho chiesto se potesse venire da me per darle indietro il libro che mi aveva prestato. In verità voglio solo capire a che punto arriveremo perché non c'è stata una vera e propria divisione netta fra noi, è un distanziamento che sta avvenendo gradualmente e se possibile è pure peggio. Lei fa finta di niente, io pure e quando siamo in compagnia sembra non ci siano problemi fra me e lei. Io lo so che ci sono, anche se non abbiamo litigato. Solo una volta abbiamo avuto una discussione a causa di Ludmilla, credeva la preferissi a lei. Il brutto è che in un certo senso è così. Non fraintendiamo: sono persone talmente diverse da essere incomparabili. Per certe cose prediligo Lud per il semplice fatto che è di poche parole e mai come in questo periodo le parole per me sono una cosa di troppo, sono sicura che lei non dirà mai la cosa sbagliata perché alcuni commenti se li tiene per sé. Fran non è così. Lei parla troppo e tante, troppe volte non esita a sputare quello che pensa anche a costo di ferirti o infastidirti. Ha i suoi pro ovviamente: hai la certezza che sarà sincera con te in ogni caso, ma purtroppo tante volte non è la verità che vuoi sentirti dire. Entrambe hanno espresso il loro parere sull'argomento. Francesca ha detto che mi sto intestardendo troppo su qualcosa di inutile e che anziché voltar pagina dovrei cambiare completamente libro, mentre Ludmilla ha cercato di farmi comprendere che soffrire così tanto è sbagliato e che forse dovrei focalizzarmi sul presente e su ciò che mi permette di andare avanti. Il concetto di per sé è sempre lo stesso, ma è il modo in cui è espresso a fare la differenza. Sobbalzo quando sento il telefono squillare, lo prendo in mano e leggo il nome sullo schermo: Diego. Non sono certa se voler rispondere o no, ci penso un po' e di getto premo sul tasto verde. “Pronto?”. “Oh, grazie al cielo! Temevo non mi volessi sentire”. Gelo. Non mi azzardo a dire nulla. “Senti, mi spiace per oggi. Sono stato un cretino ad evitarti, se ti consola sappi che sono stato male il triplo”. Sospiro. Le sue attenzioni forse sono una delle poche cose che mi aiutano realmente, probabilmente senza di lui sarei già scivolata nel baratro. “Lo sai che sei importante nonostante tutto”, ammetto quasi in un sussurro. “Lo so, Vilu. Il rimorso mi stava mangiando vivo, non ho potuto non chiamarti per porgerti le mie scuse. Scusa ancora, sai che l'ultima cosa che voglio è farti soffrire. La tua felicità, che ti piaccia o no, è una delle cose più importanti per me ed un giorno tornerai ad essere felice. Immagino già il tuo sorriso risplendere alla faccia di tutti, la tua risata tormentare quelli che hanno fatto in modo che la gioia sparisse dalla tua vita. Forse non è solo immaginazione, so già che diverrà realtà tutto questo”. Involontariamente sorrido e sono contenta che non possa vedermi in questo momento, m'imbarazzerebbe troppo. “Se mi dici queste cose come posso non perdonarti? Scusami per ieri invece, forse ho sbagliato a dosare il peso delle parole”. Togliamo il 'forse'. Ovviamente la punta di orgoglio non stenta a farsi sentire. “Non è vero, sono io che dico sempre cose sbagliate nel momento sbagliato”. Vero, ma probabilmente è il caso di non dirglielo. “Sì, ma a volte reagisco troppo male”. 'A volte' ergo sempre. Orgoglio che non se ne vuole andare. “Tranquilla, sto bene. Cambiando discorso, che fai?”. Osservo sconsolata il libro di testo aperto e l'esercizio appena cominciato anche se in teoria dovrei averlo finito da ore. “Compiti”. “Ah, a proposito: complimenti per la borsa di studio, te la sei meritata!”. Lascio cadere il braccio libero a penzoloni e mi mordo il labbro. “Oh grazie, ma sai già che non la userò”. C'è un attimo di silenzio, dopodiché risponde: “Secondo me sbagli a rinunciare”. Scuoto il capo. “Non c'è niente che mi spinga a farlo ora come ora”. “Il tuo sogno? Non ti sembra abbastanza? Sei sempre in tempo per cambiare idea”. Non so perché, ma gli occhi mi s'inumidiscono. Non è mai bello vedere i propri sogni sgretolarsi di giorno in giorno per lasciare spazio ad una vita che non desideri, ma sei costretto a vivere. “Ho già preso una decisione, niente e nessuno potrà farmi cambiare idea”. Sento un rumore strano, sembra si sia alzato bruscamente. E' agitato. “Perché non far conciliare le cose? Potrei aiutarti: tu vai all'università, io lavoro per il mantenimento. Tanto un anno o due di stop non fanno male, potrò proseguire gli studi più tardi”. “Diego, non permetterei mai che tu sia quello a rinunciare, devi vivere la tua vita senza curarti di ciò che ho intenzione di fare. Voglio essere una madre presente, non posso abbandonarlo prima ancora che compia un anno per inseguire qualcosa che forse non si realizzerà mai. Ha bisogno di una guida, dev'essere la mia priorità ed il mio unico pensiero. Sarò la mamma che non ho mai avuto”. “E' questo quello che vuoi veramente?”. Mi blocco a fissare il vuoto. “No, ma è la cosa più giusta da fare”. Il suo respiro che dapprima era irregolare, ora torna normale. “Potresti essere entrambe le cose, sai?”. Mi porto una mano alla fronte per massaggiarla. “Dovevo decidere fra la ragazzina inesperta che insegue i propri sogni e l'adulta che deve crescere un figlio da sola. Ho già fatto la mia scelta”. Qualcuno bussa alla porta, per cui mi volto in direzione di essa. “Scusami, ma adesso devo andare”. Riattacco ed è come se un peso mi si levasse dallo stomaco, parlarne mi opprime. “Chi è?”. Chiedo sempre di chi si tratta prima di dare il permesso di entrare, tante volte non voglio vedere nessuno. “Francesca”. Poso il cellulare sulla scrivania e mi alzo in piedi. “Avanti”. L'uscio si apre scoprendo una Francesca vestita con una felpa azzurra e degli skinny jeans grigio chiaro. “Ciao”, mi saluta freddamente con la mano. “Ciao”. Chiude la porta e si guarda attorno a imbarazzata. Una delle conseguenze peggiori di quando i rapporti si rovinano è il disagio quando ti trovi sola con quella persona. “Ce l'hai il libro?”, domanda probabilmente non sapendo cos'altro dirmi. “Oh, certo”. Raggiungo il mio comodino, mi siedo sul letto ed apro il cassetto. Allungo la mano per estrarre il libro e noto che non ho ancora buttato via i frammenti del volantino, lo stomaco inizia a contorcersi. Mi faccio forza, deglutisco e lo tiro fuori. “Eccolo”, annuncio porgendoglielo. Lo prende, l'osserva per alcuni secondi dopodiché mi chiede: “E' stato utile in qualche modo?”. Scrollo le spalle. “Cioè?”. Ecco. Questo gesto sarebbe andato bene se di fronte avessi avessi avuto Ludmilla, lei preferisce le parole ai gesti o le espressioni. “Sono arrivata al capitolo sei”. Inarca un sopracciglio. “I capitoli sono ventisette”. Faccio un sorrisetto palesemente forzato. “Non è il mio genere di lettura”. Alzo la manica, tolgo l'elastico in gomma e lo getto assieme ai brandelli di depliant. “Questa cosa non è servita ad un cazzo”. Incespica, poi fa un passo in avanti e si accomoda accanto a me. “Con mamma ha funzionato per dimenticare papà”. Abbasso la parte del maglione e scuoto il capo. “Non siamo tutti uguali”. Sento la sua presenza così vicina eppure così distante. Anche se amo e comunico con i silenzi, quello che c'è fra noi è orribile. Una volta non eravamo così. “Tua madre doveva avere molta forza di volontà, cosa che io non ho. Sono una persona arrendevole ed all'apparenza apatica, ma sotto ad un strato d'insicurezza, sbagli e paura troverai me. Ho un brutto carattere? Lo so. Mi comporto come se non m'importasse anche quando non è così ed a volte tratto male le persone anche se non lo vorrei. Non ti biasimo se non vorrai più avere a che fare con me, ma mi manchi Fran. Anche se non ti ascolto mai e faccio di testa mia, sappi che i tuoi consigli mi confortano. E' come se in questo momento fra di noi si sia creato un muro e sì, ci sto male perché in questo periodo più che mai ho bisogno della mia migliore amica. Mi mancano i pomeriggi di bellezza che reputavo tanto stupidi, ma che ora rimpiango. Le bollette salate del telefono fisso per colpa delle nostre lunghe telefonate, i pigiama party, i film sul divano di casa mia, le nostre conversazioni idiote su WhatsApp, l'averti come ospite a cena almeno una volta a settimana, scroccare un passaggio in macchina a tuo fratello, ingozzarsi come animali da macello all'Happy Hour. Tutto mi manca da impazzire. Certo, siamo entrambe cresciute e probabilmente la maggior di quelle cose non le farò più, ma il solo ricordo mi fa star bene e male al tempo stesso. Bene perché sono pur sempre belle esperienze, male perché il rapporto che avevamo non so dove sia finito. Ci tengo a precisare anche che se sono amica di Ludmilla, non significa che non lo sia anche per te. Quando abbiamo discusso anche tu passavi molto più tempo con Camilla, ma non te l'ho mai fatto pesare perché credevo capissi che potessimo coltivare altre amicizie all'infuori della nostra. Il bene che ti voglio non è mai diminuito e neanche se mi scaricassi del tutto lo farebbe, sai perché? Perché sono una che non dimentica. Sì, quello che voi tutti passate sempre per difetto in questo caso aiuta. Aiuta perché ripensando a ciò che abbiamo passato, mi ha spinto a chiamarti qui con una scusa ed a tentare di salvare l'ennesimo rapporto che va in frantumi. Sai meglio di chiunque altro che non sono il genere di persona brava ad esternare ciò che prova a parole, per cui questo si può dire che sia uno dei più grandi sforzi che avessi mai fatto. Quindi, per favore, non darlo per scontato”. Alzo lo sguardo per incrociare i suoi occhi che sono lucidi. Le ho fatto questo lungo discorso a testa bassa, ma l'importante è che sia riuscita a dirlo. Molla il libro facendolo cadere a terra e mi abbraccia, il pancione è ingombrante però è il gesto che conta. “Non sai quanto mi sei mancata e quanto mi sia costato comportarmi in modo freddo con te. Ho anche pianto spesso per questo, pensa te che cretina”. Ci stacchiamo. “Stai parlando con una che piange la bellezza di cinque o sei volte al giorno, non sentirti cretina”. Ridacchia. “Non sto qui a chiederti i motivi dei tuoi pianti, è meglio così”. “Tranquilla, non ho problemi a dirlo. A te, poi. Diciamo che la maggior parte sono pianti generali, ecco”. “Generali?”. Aggrotta la fronte. “Sì, la situazione nel complesso. Io, il bambino, papà, la scuola, Angie, l'università, mamma, tu, Diego e...”. Mi si forma un nodo nella gola. “...e tante altre cose”. Abbozzo un sorriso sperando di essere il più convincente possibile. “Capisco, mi spiace. Alla fine hai risolto il mistero della rosa bianca?”. Ora sorrido veramente, finalmente un argomento che non sia pesante da gestire. “No e ti assicuro che mi sono scervellata”. “Un ammiratore di tua madre?”. Nego con la testa. “Nonostante mamma avesse una voce da mozzare il fiato cantava solo ogni tanto nei locali, restava sempre un'operaia di un'impresa tessile”. “Ciò non le impedisce di avere fan”. Annuisco. “Anche questo è vero”. E' da qualche mese che ogni tanto trovo una rosa bianca sulla lapide di mamma, ma non si sa l'identità di chi la posa. Ho provato a chiedere al guardiano del cimitero e neanche lui ha la più pallida idea di chi sia, non so se trovare la cosa carina o inquietante. “Parteciperai alla 'battaglia di band'?”. Roteo gli occhi. “Sì”. “Non sei contenta?”. Sospiro. “Vuoi la verità? Per niente”. “Ti piaceva così tanto cantare e comporre”, constata. Congiungo le mani e le porto all'altezza del mento, sembro mio padre. “E' una cosa da ragazzini”. E' confusa. “Ragazzini?”. “Sì, persone che hanno tempo da perdere ed io non ne ho ora come ora”. Uso un tono freddo e distaccato, quanto mi costa dire certe cose. Fingersi adulta diviene difficile quando l'adolescente che è in me grida e prende a pugni la parte matura per poter venir fuori. “Senti, Francesca: ti andrebbe di fermarti a cena?”. Mi sorprendo di ciò che ho appena detto, solitamente non invito nessuno a trattenersi da me. Il suo viso ancora perplesso per il discorso precedente s'intenerisce. “Vorrei, ma non posso. Ho già un impegno stasera, ma se vuoi passo da te uno di questi giorni. Okay?”. Annuisco sorridendo falsamente. “Ora devo andare, ci vediamo a scuola”. Mi avvolge con un braccio il collo e mi lascia un bacio sulla guancia, dopodiché si accuccia per raccogliere il libro e si dirige verso l'uscita. Apre la porta, ma improvvisamente si blocca. Si volta all'indietro e mi dice: “Il dolore è una dote per un animo duro”. Le sopracciglia quasi si toccano da quanto corrucciata è la mia espressione. “E' una frase de 'Il Signore degli Anelli' di Tolkien”. “Ecco perché era così familiare, ma aspetta: che c'entra?”. Alza un angolo della bocca ed esce dalla stanza. “Lascia stare, a domani”. E chiude il tutto dietro a sé. 'Il dolore è una dote per un animo duro'. Analizzo per bene la frase concentrandomi su un punto indefinito. Questo significa che è convinta che sia una persona dura nonostante tutto, nonostante tutti mi vedano come una depressa instabile in grado di far nulla. Lei mi stima e crede che il dolore che provo sia una cosa che mi rende forte al momento stesso. Devo ringraziarla, devo riuscire a trattenerla ancora. Mi alzo dal letto e, più velocemente che posso, esco e scendo dalle scale. Papà alza lo sguardo dal quotidiano che era intento a leggere seduto su una poltrona ed inarca un sopracciglio. “E' già andata?”. “Sì”. Serro le palpebre e fisso l'ingresso rattristata. Volevo dirle grazie per tutto, questa è stata la prima volta in cui ho voluto fare qualcosa per gli altri anziché comportarmi da egoista. Perché non l'ho capito subito? Sono un disastro. Mi guardo attorno rapidamente e decido di tornarmene in camera, anche se è casa mia sento che non è un posto per me. M'isolerò di nuovo nella mia parte di mondo: a ripensare a tutti i miei sbagli, ad odiarmi per l'ennesima volta.

 

 

ANGOLO DELL'AUTRICE

Stavo pensando...e se mettessi 'Greta's Corner' al posto di 'Angolo dell'autrice'? E' molto più cazzuto e 'intimo', no? 'Angolo dell'autrice' mi sembra una cosa formale e obsoleta. Anyway, tralasciando i miei pensieri profondi, siamo arrivati pure al secondo. Lo so, lo so...pecca di Leonetta. Dovete solo aver pazienza, già dal prossimo ci sarà qualcosina e perché si parlino dovrete aspettare ancora qualche capitolo. Mi piace definirli 'capitoli di transizione' perché in questi primi vi ho dato le nozioni necessarie per saper orientarvi nella storia e capirvi meglio. Spero che ora abbiate le idee un po' più chiare, ma più andremo avanti e più comprenderete tutto. Oh, stavo giusto per dimenticare una cosa importantissima: le ventotto recensioni, grazie. E' stato sbalorditivo vedere il numero crescere a vista d'occhio e, vi dirò, sono veramente felice che questa storia vi stia già a cuore! Sappiate che io ci metto tutta la passione possibile ed immaginabile, anima e corpo e vedere che tutto questo è apprezzato mi rende orgogliosa di me stessa. La fanfic precedente era partita in sordina e mano a mano il numero di lettori è aumentato sempre più, mentre questa è partita proprio col botto. Sarà perché voi tutti siete affezionati a quelle due teste dure :')

Che ne pensate, invece, di questo nuovo capitolo? Che idea vi siete fatti finora? Ho notato con dispiacere (seppur giustificato) che molti hanno linciato Leon. Non volete prima sapere che è successo? Sono la prima a dire che si sta comportando male, ma in quanto autrice non vi posso far altro che consigliare di analizzare tutto per bene e vedere cosa ci sia sotto. Secondo voi, perché fa così? Si diverte ad ubriacarsi ogni sera? Ama Raquel veramente? Ho inoltre affrontato il conflitto interiore di Violetta che vuole fingersi adulta quando la parte adolescenziale di lei non se ne vuole andare, ho toccato anche l'argomento sogni infranti e vi posso assicurare che è una delle cose peggiori che vi possano capitare. E niente, mi sono dilungata troppo mannaggia a me! Ditemi cosa ne pensate lasciando un commento, voglio sentire i vostri pareri e le vostre teorie u.u

Grazie per tutto: le recensioni e l'aver messo nei preferiti e nelle seguite in così tanti fin da subito!

Stay tuned,

Gre :3

  
Leggi le 15 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Violetta / Vai alla pagina dell'autore: GretaHorses