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Autore: mardeybum    10/09/2014    3 recensioni
Calum odiava il numero tre; lo trovava così inadatto, con quell'uno dispari e di troppo che alla fine, a conti fatti, era proprio come lui. Calum era sempre quello di troppo; quello che, nelle più disparate situazioni, avrebbe dovuto scomparire e fare un piacere a tutti. L'uno, affiancato dal nulla, era il suo numero. Solitario e giusto, il numero senza il quale non ci sarebbe nient'altro. Il numero che, anche stando da solo, è invincibile. Soltanto che Calum stava scivolando lentamente nella convinzione che due è meglio di uno e che stare in compagnia è meglio che stare da soli.
Genere: Commedia, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Calum Hood, Luke Hemmings
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Questione di numeri




A Calum piacevano le labbra di Marshall, il cui vero nome era ancora un arcano per tutti lì. Erano sottili e il loro colore naturale, un rosa appena più scuro del suo colorito di pelle, a volte veniva profanato da rossetti di pochi spiccioli. Per i clienti, gli aveva detto una volta. Lui lo preferiva di gran lunga al naturale. Poteva dirsi così cliché quella singola frase su di un paio di labbra, così da giovane donna da romanzo, che Calum si rifiutava anche solo di pensarlo per troppo tempo, per paura che qualcuno potesse venire a saperlo. Marshall ballava ogni notte di ogni settimana, dal lunedì al sabato, da mezzanotte alle tre, senza mai stancarsi. Ballava coperto soltanto da un paio di boxer bianchi o neri, a seconda di ciò che c'era nel suo camerino, e dal suo sudore, che sotto le luci stroboscopiche pareva quasi fosse fatto di brillanti. Calum lo guardava ogni volta con la coda dell'occhio e poteva giurare di non aver mai visto qualcosa di più armonioso, in netto contrasto con la musica che gli spaccava i timpani e lo stordiva. Lui che riusciva a stento a camminare e non inciampare nei suoi stessi arti. Nelle serate fortunate – o così pareva le chiamasse –, Marshall spariva dietro la porta in fondo a locale e ne riemergeva solo parecchie ore dopo, visibilmente sfinito. E allora Calum non si azzardava a chiedergli nulla, neppure se volesse un bicchiere d'acqua. Invece nelle sue serate fortunate, quelle di Calum, un Marshall con indosso una sdrucita maglia, a volte degli Smiths, altre dei Doors, e un paio di pantaloni neri, si sedeva di fronte a lui, i gomiti appoggiati al bancone, e lo osservava servire i drink ai clienti. Poi, quando il locale si svuotava, il che voleva dire che era poco prima dell'alba, Marshall si lasciava andare in una breve conversazione sul più e sul meno. Da come parlava, poteva apparire addirittura un uomo di cultura, le mani che non smettevano un secondo di muoversi in gesti ampi ed eleganti. Lo sentiva parlare del tempo, dell'arte, della politica. Era perfettamente aggiornato su ogni argomento d'attualità. Una qualunque altra persona che passava di lì in quel momento non avrebbe potuto immaginare quale fosse il suo reale impiego. Probabilmente era ciò che lo rendeva così bello agli occhi di Calum. Perché, in confronto, lui era ancora un bambino, costretto a vivere in quattro mura che piano lo stavano asfissiando. Calum gli offriva poi qualcosa da bere e lo vedeva andare via, con la giacca sulle spalle e la sua andatura disinvolta.
All'alba, Calum si sentiva soltanto uno dei tanti Zero che si riversavano sui marciapiedi di New York. C'era l'artista di strada, un altro Zero, che con la sua chitarra suonava ogni volta un pezzo nuovo e che avrebbe potuto essere un Dieci se solo il mondo non fosse così bastardo. Ad Artista mancava la gamba sinistra, ma non di certo il talento. Perciò, Calum lasciava cadere qualche moneta nella sua custodia, insieme ad un sorriso, quasi ad incoraggiarsi a vicenda. C'era Ragioniere, che all'apparenza era un Undici, ma, se lo si guardava per più di qualche secondo negli occhi, era facile capire che quella sua ventiquattrore e l'abito griffato erano soltanto il suo personale modo di coprire le sventure che accadevano nella sua famiglia. Un tradimento, un figlio omosessuale, l'alcol del venerdì sera che diventava l'alcol di ogni sera. Calum conosceva il genere di persona che era Ragioniere, perciò si teneva almeno a dieci passi distante da lui. Accanto a lui, camminava svelta Giovane Madre, con un vestito succinto e la pancia che cominciava già a gonfiarsi. Quello nella sua pancia poteva essere un futuro Dieci, ma chi lo sa. Forse non avrebbe avuto i mezzi adatti per diventarlo. Ed, infine, a ben pochi passi da lui, camminava Marshall. Sulla sua testa una nuvola di fumo che Calum collegò immediatamente a quello di una sigaretta e la giacca di prima che gli si stringeva sulle spalle larghe. Era strano trovarlo in mezzo a tante nullità, lui che nella testa di Calum era un Dieci fatto e finito. Nonostante ciò era lì a scrollare cenere, a cacciare fumo e a far saltare ogni qualsiasi congettura che Calum aveva fatto nei mesi passati. Poi Marshall si girò, il filtro tra le labbra ancora sporche di rosso e un sorriso appena accennato. E lui vide tutto; vide le occhiaie violacee dell'uomo apparentemente instancabile, vide la malinconia di una persona costretta a vendere amore al primo che capita, il peso delle bollette e del tenere costantemente nascosta una parte della sua vita a tutti quelli che conosceva. Se avesse avuto mezzo secondo in più, si sarebbe avvicinato. Invece, Marshall aveva svoltato in un vicolo secondario, sparendo dalla sua visuale.
Coi vestiti impregnati di alcol ed un “e se?” amaro sulla punta della lingua, tornò a casa sua dove, come Ragioniere, dovette infilarsi un travestimento, quello da amabile e perfetto figlio.


Rivide il Marshall instancabile per più sere, di nuovo con i suoi boxer neri e le labbra color prugna. Si muoveva tra i clienti come se fosse merce da vendere e non più con quella gradevole armonia che era solito emanare. Contò tutte le volte che si era chiuso dietro la porta, ogni volta con qualcuno di diverso. Sette. Come i mesi che erano serviti a Calum per capire che nessuno è perfetto. Neppure Marshall. Soprattutto Marshall.


Calum era costituito al cinquanta percento di paura e al cinquanta di codardia. Per questo, per una settimana intera, ad ogni alba, preferì osservarlo da lontano, come solo una ragazzina alle prime armi farebbe. Tre erano le sigarette che fumava ogni volta – Calum non teneva il conto delle volte in cui ne fumava di più, quando intuiva fosse nervoso. Tre furono i passi, larghi e affrettati, che gli occorsero per raggiungerlo. Era il tre di novembre. Il numero fortunato di Calum però era il nove, non il tre. Se Marshall si accorse di lui, non lo diede a vedere; continuò a camminare con lo sguardo alto, con quella sua sicurezza che adesso non sembrava poi così tanto impenetrabile.
“Come ti chiami?”
Il suo sguardo vacillò per pochissimo, tanto poco che a Calum parve di averlo soltanto immaginato. “Non te lo ricordi? Sono Marshall.”
E no, il tre non era decisamente il suo numero fortunato.


La vita di Calum era fatta di tanti pezzettini che combaciavano tra di loro. La mattina fingeva di essere a scuola, quando invece era al parco a suonare la sua chitarra malandata e a guadagnare qualche spicciolo in più. Cantava, qualche volta, a seconda del suo umore. Qualcuno si complimentava e lasciava cadere nella sua custodia un quarto di dollaro. Non ci comprava neppure un chewingum per coprire la puzza di alcol e fumo che si portava dietro con quel quarto di dollaro, ma comunque. C'erano giorni in cui non suonava affatto e si stendeva sull'erba fresca e inumidita, la faccia rivolta verso l'alto. Sembrava quasi rincoglionito, sotto effetto di stupefacenti, mentre guardava il particolare grigio che quel giorno caratterizzava il cielo, un grigio tetro e striato di bianco. Calum si sentiva esattamente così. In quello stato che precedeva la grande tempesta, quando le nuvole si scuriscono e le strade si svuotano, quel momento che non è positivo, né negativo. Semplicemente è e semplicemente fa schifo. Aveva quella costante sensazione di stare sul bordo, a pochi millimetri dalla caduta. Si aggrappò al manico della sua chitarra, tanto saldamente da sentire le corde che gli si conficcavano nella pelle. Qualcosa di caldo e denso gli partì dal palmo e gli colò lungo il polso. Si mise a sedere e osservò il rosso scarlatto del sangue colargli poi su tutto l'avambraccio, un tocco di colore che stonava con tutto il resto. Non fu la vista del sangue a farlo ricadere all'indietro, ma soltanto la percezione della stanchezza che tutta ad un tratto si stava accumulando sulle sue spalle, sul suo cuore. Cominciò a piovere. Dapprima piccole gocce che cadevano cadenzate sul suolo e sulla sua pelle scoperta. Poi le gocce divennero sempre più numerose, fino ad inzupparlo completamente. Il sangue continuava ad uscire, mentre, a contatto con l'acqua, si diluiva e assumeva l'aspetto di un colore a tempera. Per qualche motivo, gli venne da pensare alle labbra di Marshall, spesso macchiate dalla stessa tonalità. Si domandò dove fosse, se avesse moglie o figli, se anche lui stesse pensando a Calum. Nello stesso instante in cui se lo chiese, si diede una risposta. No, non stava pensando a lui. Non avrebbe potuto mai insinuarsi nella sua vita, diventare qualcosa di significativo per lui come un amico o un amante, per il semplice motivo che Calum non lo conosceva sul serio. Aveva creduto fosse perfetto, si era piano innamorato dell'idea che si era fatto di lui, come solo potrebbe fare qualcuno di inesperto qual'era. L'aveva sognato, così tante volte da perdere il conto, aveva desiderato, nelle notti buie e senza sonno, di averlo accanto a lui, di sentirlo dentro di lui. Centonovanta furono i giorni per comprendere che non era neanche lontanamente vicino all'essere perfetto. Era solamente un essere umano. E adesso che Calum l'aveva capito, non aveva potuto fare a meno di amarlo il doppio, il triplo. Centonovanta volte in più. Centonovanta come i minuti che rimase steso lì, a metà tra la veglia e il sonno, prima di alzarsi e trascinarsi dietro quella miserabilità che era la sua vita. Centonovanta come i dollari che non possedeva, ma che avrebbe dovuto spendere per una nuova chitarra.


L'aveva visto di nuovo, quella sera. Aveva tagliato i capelli di qualche centimetro e le labbra erano al naturale. Ballò tre canzoni, come se improvvisamente la paga si fosse ridotta solo a quello, e dopo sparì dietro la porta in fondo. Da solo. E se c'era qualcosa che a Calum non mancava, a differenza dei soldi e di un solido ed esteso vocabolario, questa era di certo l'impulsività. La bottiglia di vodka sotto il braccio gli fece da personale compagna, mentre si faceva spazio tra il tanfo di sudore dei corpi ammassati e il rumore del suo cuore che batteva più velocemente del normale. Se lo sentiva presente nella cassa toracica, che gli fracassava le costole nell'intento di uscire. La raggiunse prima del previsto quella porta. Non gli si era mai avvicinato così tanto. Non l'aveva mai notata la serratura arrugginita e neppure aveva fatto caso alle parti in cui la vernice nera era scrostata. Aveva soltanto visto di sfuggita il “camerino” scritto in corsivo su un foglio, attaccato con lo scotch. Un sorso di alcol gli bruciò per tutta la gola e gli diede quella giusta razione di coraggio che lo portò ad abbassare la maniglia. Marshall era lì, seduto scompostamente su una sedia ricoperta di stoffa vecchia color magenta. Le cosce ancora fasciate dai boxer, quel giorno bianchi, così sottili da permettere a Calum di vedere troppo. Si sfregava gli occhi con le dita, sporcandosele di mascara nero. Non s'era ancora accorto del ragazzino che si stava chiudendo la porta alle spalle velocemente, quasi a non voler permettere che gli altri lo vedessero così, per quello che era: distrutto. Calum si schiarì la gola e lui smise di smuoversi. Marshall lo guardò, coi suoi occhi chiari e cerchiati di nero e Calum si sentì come se quello nudo fosse lui, a dispetto dei vari strati di vestiti che in realtà indossava. Che ci fai tu qui?, gli stava domandando. Che ci faccio io qui?, si domandava lui stesso. Già, la domanda da un milione di dollari. Sono qui per parlare, per scoprirti, per conoscere il vero te. Questo non lo disse però, agitò soltanto la bottiglia piena di vodka per i tre quarti e gli si avvicinò ancora un po'.
“Ti ho visto in difficoltà.”
Marshall afferrò la bottiglia e bevve. Bevve così tanto in un sol sorso, che Calum credeva che sarebbe svenuto davanti ai suoi occhi. E invece quando abbassò la bottiglia sembrava quasi messo meglio di prima.
Marshall da ubriaco poteva essere paragonato alla felicità. Ma Calum non ne era sicuro, perché non l'aveva mai provata. Perciò decise che quella era la sua felicità. Marshall parlava tanto e pensava poco, come un fiume durante una piena. Gli raccontò di quando andava al lago, da piccolo, e di quella volta in cui aveva pescato il più grande numero di pesci. Fece anche una battuta sconcia su questo, apparendo così differente dal solito, ma Calum si concentrò solo sulla risata che arrivò dopo. Una scarica da tremila watt direttamente nel suo cuore; una risata un po' roca, così vera che Calum ne fu letteralmente trascinato. Gli raccontò della sua prima cotta a sedici anni, un certo Hank che Calum si ritrovò a detestare esclusivamente per il modo in cui Marshall pronunciava il suo nome, con quel tipo di adorazione che solo gli innamorati provano. Gli disse che venne cacciato di casa poco dopo del diploma, per questo fu costretto a fingere di essere etero quando i soldi in tasca finirono. Si sposò poi con Aleisha, una donna che non amava e da cui si era allontanato solo pochi mesi prima. Gli raccontò della sua laurea in legge e del lavoro che aveva perso. Poi notò la sua mano fasciata e gli chiese se avesse fatto a pugni con qualcuno. Calum rise per il tono di voce infantile che utilizzava e rispose di no. Marshall gli disse che andava bene così, perché un bel faccino come il suo non meritava di essere sfigurato. Le guance di Calum si tinsero di cremisi; abbassò la testa per nascondere quell'attimo di debolezza.
Aveva desiderato così ardentemente di conoscere Marshall che alla fine c'era riuscito. Era lì, seduto sul pavimento, la testa abbandonata stancamente sul palmo e un atteggiamento da bambino. Ma era lui, era reale e non era mai stato più bello di così.
Calum lo aiutò a rivestirsi e se lo trascinò dietro per le vie della città, senza paura e senza stancarsi. Nonostante gli ottanta chili di peso su una spalla e le ventiquattro ore senza dormire, si sentiva sveglio, forte abbastanza da buttare giù un muro di cemento. Casa sua era lontana qualche chilometro, in un quartiere abbastanza ricco della città. Viveva da solo, il che fu una fortuna per entrambi. Sarebbe potuto risultare difficile inventare una scusa sul perché un ragazzo di diciassette anni si comportasse in quel modo nei confronti di uno di venticinque di cui neppure conosceva il nome. Calum non era bravo ad inventare scuse. Per lui però lo sarebbe diventato. Lo adagiò sul divano; entrambi odoravano di alcol e sudore, ma a nessuno dei due sembrava importare.
“Come ti chiami?”
“Sono Luke, solo Luke.” Calum pensò che Luke fosse in assoluto il suo nome preferito. Anche più di Marshall.


Trenta erano i dollari che gli mancavano per comprare una nuova chitarra. Trenta erano le possibilità che Marshall-- Luke riuscisse a ricordare anche un singolo attimo di quella notte. Trenta su diecimila. Calum non era un asso in matematica, ma sapeva che quello non era granché positivo. Trenta furono i passi che gli servirono per arrivare ad una panchina a caso nel parco e sedersi. Trenta i secondi per inquadrare la gente attorno a lui. Una coppia di anziani; lei su una sedia a rotelle, probabilmente affetta da qualche malattia incurabile e bastarda che l'avrebbe trascinata via all'improvviso, lui ancora pieno di un amore che non sarebbe mai scemato. Li vedeva a venti anni, di bell'aspetto, sempre lì, su quella medesima panchina, a scambiarsi affetto. Più lontano, una ragazza che faceva jogging, il ritmo della corsa tenuto da una canzone pop in una delle playlist del suo mp3. Un ragazzo che lanciava la palla al suo cane e lo guardava correre nel prato per riportargliela. Una ragazzina che scriveva al cellulare e sorrideva. Niente di tutto ciò gli interessava troppo. Il cielo quel giorno era tanto scuro da donare un aspetto lugubre a tutto ciò che gli stava sotto. Si stava preparando alla tempesta. Trenta i minuti per giungere alla conclusione che le possibilità di poter avere un rapporto con Luke erano due. Come i baci che gli avrebbe rubato ogni mattina, da appena svegli, tra le lenzuola, e anche prima di ogni sua esibizione (e le sue labbra si sarebbero macchiate di rosso o di prugna o di qualsiasi altro colore, ma a chi importa?), se solo ne avesse avuto l'occasione. Ed era senza una dannata logica accorgersi di aver trattenuto il respiro per un tempo indefinito, perché senza quei due baci Calum si sentiva perso, quando neppure conosceva il loro sapore. Di nuovo, si rese conto di essere un pazzo, uno a cui mancava una cosa che non era mai stata sua. Questa volta, tuttavia, non si parlava di un perfetto sconosciuto, ma di Luke, solo Luke e lui era incoerentemente innamorato di solo Luke.


La sera stessa le possibilità si alzarono a tre. Luke aveva finito di ballare da un pezzo e con passo lento gli si era avvicinato, mentre gettava sguardi curiosi un po' ovunque, le labbra incurvate in un impercettibile sorriso. Si sedette di fronte a lui e ordinò una birra, nel frattempo che le dita nodose si stringevano per afferrare un fazzoletto di carta e pulivano via il porpora che gli era rimasto sulla bocca. Era così semplice stare lì a guardarlo che Calum avrebbe potuto restare in quel modo per tutta la vita. Proprio come quei due anziani nel parco. Lo paragonava ad essere in una bolla, dove tutto ciò che rimaneva fuori risultava ovattato ed era quello che c'era dentro che importava davvero. Una bolla è però effimera, destinata a scoppiare in fretta, ancora di più se si ha a portata di mano un ago o qualcosa di altrettanto appuntito. Quel qualcosa si rivelò un uomo, visibilmente ubriaco, che reclamava il suo drink a gran voce.
“Quando ti chiamo devi rispondere, puttanella.”
Calum iniziò a contare fino a dieci, una tecnica che aveva imparato col tempo, lui che aveva ben poca pazienza, e che si era rivelata efficace. Uno, due, tre, quattro-- si fermò a quattro, perché lo shock gli aveva mozzato il fiato e azzerato ogni pensiero di senso compiuto. Quattro come i pugni che Luke aveva sferrato a quello sconosciuto, dopo essere scattato in piedi veloce e furtivo come solo una gazzella può essere. Guardava il corpo stordito di quell'uomo, dai rivoli di sangue dal naso fino alle scarpe logore, con una smorfia disgustata in volto. Qualcuno ricambiò il pugno alla cieca. Adesso anche Luke sanguinava. Quattro come i secondi in cui Calum rimase a guardare la rissa espandersi a macchia d'olio in tutto il locale, prima di afferrare Luke per un polso e correre via di lì.
“Dio, ma che ti è preso?”
“Quel lurido bastardo ti ha chiamato puttana.”
Persino il modo in cui imprecava, o la leggerezza con cui prendeva quell'intera situazione, le spalle che si alzavano ed abbassavano e l'espressione neutra, quasi annoiata, riusciva a far innamorare ancora di più Calum. Era divertente come cominciasse ad assomigliare sempre più ad una ragazzina, giorno dopo giorno. Con la manica della sua maglia tamponò via il sangue dalle labbra di Luke, attento a non apparire troppo delicato, troppo interessato.
“Ci sono abituato.”
“Non... Non dovresti. Non dovresti sentirti dire queste cose. Dovresti girarti e sentire qualcuno che ti dice che sei bellissimo e che sei la cosa più importante di questo mondo.”
Calum seppe soltanto dopo un po' come rispondere. In ogni caso, sarebbe stato inutile dirlo, perché Luke era già a una decina di passi da lui e non avrebbe mai potuto sentire il suo merda, quanto ti amo, sussurrato a denti stretti.


Le possibilità rimasero stazionarie. Calum odiava il numero tre; lo trovava così inadatto, con quell'uno dispari e di troppo che alla fine, a conti fatti, era proprio come lui. Calum era sempre quello di troppo; quello che, nelle più disparate situazioni, avrebbe dovuto scomparire e fare un piacere a tutti. L'uno, affiancato dal nulla, era il suo numero. Solitario e giusto, il numero senza il quale non ci sarebbe nient'altro. Il numero che, anche stando da solo, è invincibile. Soltanto che Calum stava scivolando lentamente nella convinzione che due è meglio di uno e che stare in compagnia è meglio che stare da soli. Non riusciva neppure ad affibbiare la colpa di questo suo cambiamento a Luke, perché, essenzialmente, lui non faceva niente per farsi amare. Restava lì, con le sue labbra tentatrici e il suo essere così ordinario e non perfetto e Calum rimaneva fregato. Avrebbe dovuto capirlo tempo prima che quel ragazzo biondo gli avrebbe portato soltanto guai.
Gli ci vollero un paio di notti al locale per racimolare abbastanza soldi per la sua nuova chitarra. Duecento dollari lasciati sul tavolo del negoziante, quasi a malincuore, se non fosse stato per lo strumento che si incastrava tra le sue braccia come se fosse stato plasmato per essere lì e lì soltanto. La chiamò dieci. Dieci come il suo Dottore preferito. Dieci come il suo momento preferito della giornata, quando il sole d'estate non è troppo caldo, mentre d'inverno non fa troppo freddo. Dieci come i dollari in più che gli era venuta a costare. Dieci come le possibilità che avrebbe dovuto avere con Luke. Dieci sui dieci. La accordò seduto sull'erba del parco, dove vide il solito anziano, questa volta da solo. Non ci fu bisogno di domandarsi troppo a lungo dove fosse la sua sposa. Lo sapeva che gli era stata portata via all'improvviso, proprio mentre sembrava che tutto andasse per il verso giusto. Lo capiva dallo sguardo triste, tanto triste da ingrigire tutto ciò che gli stava accanto. Calum decise di suonare una melodia lenta e melanconica quel giorno. Lo guardò andar via, passo dopo passo, con il retrogusto amaro della morte in bocca. Decise che l'uno non gli piaceva poi così tanto.
Nelle ore che gli rimasero pensò a come Luke fosse riuscito a tenere testa al superiore, quando aveva rischiato di essere licenziato per quella rissa, e a dove sarebbe finito se fosse rimasto di nuovo senza lavoro. Avevano gridato un po', mentre Calum continuava a versare alcol ai clienti con scarso interesse; Luke aveva fatto qualche commento tagliente, qualche conto su quanto avrebbe dovuto pagarlo il superiore se l'avesse licenziato e poi il discorso era finito lì, con il ragazzo che si preparava a ballare come se nulla fosse successo. Calum decise che avrebbe potuto essere un due insieme a lui, se glielo avesse chiesto.


Dicembre arrivò più tardi del solito. Cominciò a nevicare sempre più spesso e Calum fu costretto a cambiare posto dove suonare. Trovò un bar a pochi chilometri dal parco, dove poter suonare in cambio di qualche spicciolo. In realtà, non lo faceva per i soldi, ma soltanto per la musica. Strimpellava la sua chitarra, le mani fredde che non si scaldavano ed il cuore ancora più freddo. Luke gli mancava ancora, come gli mancava il profumo della salsedine e la pioggia estiva, o forse di più. Eppure lui era lì, seduto ad un tavolino in fondo alla stanza, a soffiare sulla sua tazza di tè bollente. Lo guardava, l'azzurro dei suoi occhi che quasi lo accecava, e Calum non poté far a meno di sorridergli. Lui ricambiò. La canzone che stava suonando era With me dei Sum 41. Perché, in fin dei conti, era vero, Calum non era niente senza Luke.
Alla fine della canzone, Luke gli si avvicinò. Si sorridevano ancora, in modo timido, e tutti quelli che li circondavano avevano intuito fossero amanti. La ragazza al tavolo più vicino lo stava dicendo alla sua migliore amica; diceva che loro potevano essere il vero amore, quello inossidabile. Lo stesso di quei due anziani al parco, quello che neanche la morte può distruggere. Nessuno dei due ragazzi lo sentì, però, poiché troppo occupati a guardarsi negli occhi.
“Sei davvero bravo.”
“Grazie, ma non era granché.” (E diamine, stava già arrossendo.) “Com'era il tuo tè?”
“Ottimo. Ti va se te ne offro un bicchiere?”
Le possibilità divennero cinque su dieci, due in più di prima, quando Luke gli disse di adorare il suo sorriso. Calum non lo disse, ma in realtà trovava che il sorriso di Luke fosse molto più bello del suo. Quello vero s'intende, che aveva avuto l'occasione di vedere pochissime volte. Calum finì di bere il suo tè con calma, mentre Luke parlava di tutto ciò che gli passava per la testa. Poi, stretti nei loro cappotti, s'incamminano in due direzioni differenti. Calum voleva davvero baciare Luke, ma fintanto che lui era lì, con le sue lunghe conversazioni e quel suo sapere ogni cosa, andava bene.


Accadde il quindici dello stesso mese. Calum non era propriamente ubriaco – aveva bevuto a stento qualche bicchiere di birra –, ma qualcuno in strada aveva pensato che lo fosse. Erano stati innumerevoli i discorsi, alcuni quasi poetici, altri che somigliavano pericolosamente ad una canzone degli Arctic Monkeys, che gli avevano occupato la testa nelle precedenti ore. Invece alla fine si era presentato alla porta di Luke, con il fiato corto per la corsa e le gambe tremanti, e il vuoto nella mente e sulle labbra.
“Tu mi piaci davvero, davvero” aveva detto, mandando a quel paese ogni speranza di non somigliare ad un bambino con la sua prima cotta. Ma Luke gli stava davanti, stancamente poggiato allo stipite della porta, e Calum avrebbe voluto poter dire molto altro, ma la realtà era che probabilmente non ne sarebbe valsa la pena. Poiché era notte fonda del suo unico giorno libero e forse Luke non avrebbe ascoltato neppure una parola.
Cinque attimi di silenzio, in cui il cuore di Calum smise di battere, o così gli parve. Cinque attimi in cui si domandò se quella fosse la cosa giusta, se Luke fosse il suo vero significant other o se fosse una cotta passeggera, se fosse veramente ubriaco e non reggesse l'alcol, o se l'avessero drogato. Cinque come le possibilità che si aggiunsero alle altre che già c'erano, quando Luke si staccò dalla porta e si avvicinò al suo viso, per poggiargli un bacio sulle labbra. Calum fu quasi in grado di percepire la bolla che si creava attorno a loro e lasciava fuori tutto il resto, questa destinata a non scoppiarsi. Era quasi meglio del previsto, con quelle labbra che si muovevano contro le sue con delicatezza e senza fretta, come a dire che di tempo per loro ce ne sarebbe stato in abbondanza. Calum si aggrappò a lui, con le mani ed il cuore, e tutto ciò che poteva assaporare, odorare, toccare era Luke. Solo Luke. Il Luke con la maglia degli Smiths che si ubriaca e vomita un fiume di parole che è, in pratica, la storia della sua vita, perché ogni tanto va bene non essere perfetti e lasciarsi andare. Il Luke che di notte balla e di mattina sogna di essere una persona nuova, onesta. Il Luke dal sorriso sincero e col vizio del fumo che, però, promette cercherà di togliersi perché Calum gli dice che fa male. Il Luke con cui scapperà appena avrà l'occasione e che sposerà, perché è l'unica persona che lo fa sentire bene. Il Luke di cui ha imparato a conoscere e apprezzare ogni sfaccettatura, buona o cattiva che sia.
“Mi piaci davvero, davvero anche tu.”
A Calum, in quel preciso istante, mentre lasciava che Luke si appoggiasse al materasso e lo guardava, in tutta la sua bellezza, abbattere ogni muro che si frapponeva tra loro due, non dispiacque affatto essere un due insieme a lui.



Note d'autrice
Era da un po' di tempo che io e una mia cara amica eravamo ossessionate da stripper!Luke (shame on us, shame on our cows, perché Luke è una personcina pura e casta, forse.....). E comunque, gira e rigira, mi sono messa a scrivere e questo è il risultato finale. Mi manca scrivere angst (a pROPOSITO! Siete state tutte dolcissime nelle recensioni e su twitter e ho amato gli edit e tutto ciò che avete fatto per me. Mi dispiace avervi fatto soffire, non era mia intenzione, credo. Avrei dovuto spiegare i motivi che aveva Luke, magari lo farò in un'altra os, chissà). Dicevo, siccome mi manca l'angst, questo finale mi sembra troppo felice e fluff, ma penso che vi rallegrerà di più di quello precedente. Spero vi piaccia anche se è breve e non è granché.
Un grande bacio :)

 

   
 
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