AGAPE
Ispirazione
dal video
della canzone “Fucking Perfect” di P!nk.
Capitolo
9 :
collaborazione con Angelo_Nero
Fottuta
perfezione
che continua a scapparmi. Perché? Perché non la
raggiungerò mai?
Infondo
la sofferenza
resta parte di me.
È
uno stato d’animo,
come la pioggia, come il sole che tramonta.
Come
le lacrime che
scrosciano contro i vetri di un’anima abbandonata.
E
resto in compagnia
della solitudine, lei, con quel gusto amabile quanto detestabile.
Che
tormenta, scava
all’interno del tuo corpo, ti consuma, ti logora i bordi di
quel cuore che ora
sbatte stanco contro la cassa toracica.
Forse
non mi
capiranno mai. Sicuramente.
Nessuno
può capirmi.
Heather’s
memories
Quelle
due codine
nere e graziose le ricadevano sulle spalle coperte dalle lunghe maniche
dell’abitino a quadrettini e quell’espressione
imbronciata che per nulla
dovrebbe apparire sul visino di una bambina di cinque anni la
caratterizzava
come il suo marchio di fabbrica. Le braccine esili le segnavano i
fianchi
sottili e gli occhioni grigi spiccavano di tristezza intrisa
d’invidia. I polsi
adornati da piccole strisce di stoffa intrecciate tra loro come
braccialetti di
cui tanto andava fiera. E poi quelle unghie morsicchiate a sangue e
quelle
manine strette in due pugni. Quel coniglietto di peluche rosa stava sul
tavolo
del cortile dell’asilo, con la testa a penzoloni. Era vecchio
con gli occhi
fatti di due bottoni, uno verde e uno nero, mentre la bocca era cucita
con del
filo rosso che all’epoca di quel cimelio doveva essere un
vermiglio brillante,
mentre adesso aveva lo stesso colore delle sue scarpe consumate. Della
stoffa
fuoriusciva dalle orecchie lunghe e causava la sua presunta allergia.
Ma a lei
non importava. Stringeva il pupazzo con tutta se stessa, accarezzandone
il pelo
intrecciato e sporco, stendendolo, dandogli la sua minestra di terra e
sabbia
che aveva recuperato nella piscinetta poco distante. Se lo mise sulle
gambe
facendolo saltellare appena. Le iridi di quel profondo grigio
brillarono di
tanti piccoli cristalli, che parevano specchi pronti a riflettere,
pozzi adatti
per caderci dentro e precipitare, ferro bollente di rabbia
–Sì, Alice! Sei
bellissima! Ah ah!- e quella flebile risata accolse il piccolo sorriso
pallido
e le guance arrossate per lo sforzo quando fece saltare la sua Alice in
aria.
Sola,
ancora.
E
ci stava bene,
perché la gente portava solo guai.
Non
serviva pregarle,
indicarle, rimproverarle, cercare di capirle.
Quel
mondo non era
pronto per accogliere una come lei.
Si
sentì tirare il
bordo dell’abito e quando si girò si
trovò difronte un suo compagno di classe
–Mike, che c’è?- sbatté le
ciglia esterrefatta quando il piccolo le strappò il
pupazzo dalle mani, ridendo di lei e prendendola in giro,
perché:- Che schifo!
È vecchio e brutto!- Heather con risentimento
provò a riprendersi il
giocattolo, ma quello fu lanciato in aria e cadde in una pozza di
fango,
sporcandole così le guance e il vestito nuovo che la mamma
le aveva appena
comprato –Cattivo! Perché?!- lo indicò
facendo rumore con le scarpe sul terreno
e saltellando in preda alla rabbia. L’artefice della sua ira
fece spallucce ma
lei non lo lasciò andare, fiondandocisi sopra e bloccandolo
per la schiena,
sulla quale stava a cavalcioni, gli prese i capelli bruni, tirandoseli
verso il
petto e facendo piangere lacrime di dolore all’
“amico”. Dopo
neppure un minuto fu strappata via dal
corpo del bambino, ma ancora scalciava, dimenandosi e tirandosi i bordi
del
vestitino con le mani paffute e sporche ora di fango. Fu ripoggiata a
terra e
la maestra cominciò a scuoterle l’indice difronte
agli occhi, rimproverandola
–Vergognati, non è così che ci si
comporta, adesso fila dritta in punizione!-
tanto lì lo sapevano che quella bambina era affetta da
numerosi disturbi
psichici, dovevano avere pazienza, se questa consisteva nel
rinchiuderla in una
di quelle classi al buio, facendole osservare la felicità e
la spensieratezza
degli altri, che scivolavano da quegli adorabili scivoli colorati e di
gomma,
saltavano sulle molle e giocavano a rincorrersi nella sabbia, mentre un
altro
contava per dare l’inizio al gioco del
“nascondino”. Heather, quella piccola
bambina che ora, abbracciata al suo coniglietto di peluche mentre
mangiucchiava
in silenzio un biscotto al Plasmon, era inginocchiata su un baule per
arrivare
a guardare fuori alla finestra, mentre grandi lacrimoni le circondavano
le
guance pallide.
***
Mia
madre ha provato anche con l’elettroshock per
darmi diventare più buona… ahahah, un successone!
Le
mani congiunte in
una sorta di preghiera che una quattordicenne normale potrebbe
formulare. Le
labbra mandavano piccoli messaggi alla genitrice, dietro i vetri di
quell’ospedale psichiatrico.
“Ti
supplico,
basta...”
Poi
una scossa
d’elettricità che le attraversò il
corpo magro, dal quale si poteva decifrare
benissimo un assalimento da una forte anoressia nervosa. Dieci paia di
unghie
che si conficcavano nei braccioli di quella sedia foderata alla quale
era stata
legata come una pazza, il corpo sbattuto e attraversato da lampi
dolorosi in
modo allucinante, le gambe tese e piene di graffi causati dalla
lametta, che
aveva iniziato a usare solo da due anni.
Piccoli
squarci di
dolore in quegli occhi celati al mondo, luci gialle e rosa le
riempivano il
buio e cercava di concentrarsi solo su qualcosa di bello. Quella
meraviglia che
mai le aveva segnato la vita.
Ma
qualunque cosa
facesse il busto le era attraversato da quelle crudeli frustate
d’elettricità.
Quelle sedute mensili… quando sarebbero giunte al termine?
Quanto ancora sua
madre avrebbe creduto che con qualche scossa la sua cattiveria e la sua
perenne
acidità sarebbero svanite?
Non
ebbe tempo di
sollevare le palpebre che le ciglia andarono a toccarle le guance
imporporate
di rosso e che una nuova scossa le arrivasse a farle male fino al
cervello.
Tossì
un paio di
volte, mordendosi il labbro e assottigliando gli occhi.
Oh,
quella rabbia.
I
medici la slegarono
e cadde con le ginocchia rotte di graffi sul pavimento immacolato. Non
pianse,
non gemette neppure: costava troppa fatica e lei era ormai grande, una
donna.
Una
ragazzina che
aveva provato quella terribile ebrezza dell’amore,
così come i rifiuti che da
essi provenivano.
E
le botte, la testa
ficcata dai suoi coetanei nel water, i calci durante la merenda, le
spinte
mentre stavano in fila, le esclusioni alle quali era sempre soggetta.
Poi
il buio dello
svenimento e le preghiere che formulava tacitamente.
***
Le
mani stringevano
il rossetto di un rosso acceso, lo passò sulle labbra che
fece schioccare un
paio di volte, mentre stese un filo di matita pesante lungo le palpebre
e se le
colorava di un nero sfocato. La maglia viola strappata e i jeans
attillati e
strappati, ai piedi un paio di stivali neri e le mani fasciate da
guanti
borchiati.
Ribellione
di una
normale sedicenne, voglia di essere diversa, desiderio di sfidare la
propria
madre, che ora le stringeva il polso vedendola conciata in quel modo.
La
trascinò con violenza fino la sua camera, strattonandola per
scale. Nessuno,
nessuno avrebbe mai dovuta vederla conciata in quel modo! Lei era
figlia di
buona famiglia e non una stupida come quella sua amica che vestiva
uguale
-Tu
non puoi decidere
tutto della mia vita!-
-E
tu solo perché non
hai personalità non puoi copiare gli altri!-
Poi
eccolo lo
schiaffo che la fece arrabbiare ancora di più e piegare la
testa di lato
-Vaffanculo,
stronza!-
-Come
ti permetti?
Sono tua madre, portami rispetto!-
-Io
ti odio!-
La
donna le prese i
capelli, staccandone con irruenza le ciocche false e tinte di rosa per
poi
strapparle la maglia da dosso e indicarla
-Tu
fai ciò che dico
io-
E
dicendo così le
stese una camicetta bianca sul letto e un jeans largo, guardandola con
quegli
occhi che volevano solo farla soffrire, dirle quanto fosse in errore,
quanto
facesse pena come figlia.
Lei
lo sapeva e le
venne confermato quando la spinse fuori casa per andare a scuola,
ficcandola
malamente in auto e chiudendole lo sportello in faccia.
Quel
giorno, come al
solito, prese una F ma non se ne curò.
Era
un’artista, lei.
Prese
le sue penne al
gel e cominciò a disegnare attorno alla lettera, che
immediatamente divenne dei
denti che adornavano la faccia tonda e stupida che aveva disegnato. La
guardò
con soddisfazione, per poi incrociare le braccia sul tavolo e
appoggiandocisi
sopra. Almeno nessuno l’avrebbe riconosciuta.
***
“Perché
loro tutto ed
io niente?”
Era
ciò che si
chiedeva Heather guardando con attenzione un gruppo di ragazze che
venivano a
scuola con lei. Provavano con interesse un abito blu
all’ultima moda,
rigirandosi su se stesse e contemplandosi, facendosi allegri
complimenti
vicendevolmente e sorridendo ammiccando. Non poteva sopportarle:
vipere! Un
giorno sarebbe stata migliore di loro, di sicuro. Anche se in quel
momento non
aveva soldi per potersi permettere capi firmati come quelli. In un
gesto
impulsivo ne prese uno dalla stampella, andando negli spogliatoi e
ficcandolo
subito nella sua borsa, ma quando uscì un commesso stava
fuori dal camerino e,
sospettoso, le prese il bottino dalle mani. Quando svuotò
sottosopra la borsa
l’abitino firmato cadde per terra e allora tutto quel gruppo
di ragazze che
prima l’avevano platealmente ignorata, si girò,
posando una mano sulle loro
labbra tinte di rosa e spalancando gli occhi, in una espressione
esterrefatta.
Una prese il cellulare e riprese la scena. Il proprietario la stava
spingendo
fuori dal negozio e lei sospirando guardò indietro, ignara
che la stessero
ritraendo in quei video che subito finirono per girare su internet.
***
Diciotto
anni: quella
fu l’ultima volta che si tagliò. Nella vasca,
mentre imprimeva una lama presa
da chissà dove nel braccio. Il sangue era piombato tra la
schiuma rosa e si era
sparso nell’acqua che in poco tempo divenne una piscina di
sangue, così come il
muro, dal quale piccole gocce cadevano insistentemente. Strinse le
labbra
all’ultima linea disegnata sul braccio
“Perfect”. Scritta in uno stampatello
ordinato e preciso, segno che era lucidissima. Quando si
alzò dovette fasciarsi
nuovamente le braccia, in bocca aveva ancora il sapore ferroso del
sangue che
le macchiava la lingua e il palato, che gustavano quel liquido come se
ci si
nutrissero. E in qualche modo era così. Si fissò
allo specchio e chiuse gli
occhi, poi afferrò le forbici sul bordo del lavandino e
invece che segnare la
sua pelle tranciò i capelli, accorciandoli definitivamente.
E
Heather Wilson da
quel momento decise di cambiare, di essere la migliore, la
più desiderata e di
mozzare la felicità altrui con poche parole che fremevano di
rabbia repressa.
Perché
lei era rabbia
bollente, letale come un veleno potente, quel veleno alla quale era
resistita
per tutta la vita.
Lei
era una foresta
grande e intricata, dalla quale non ci si usciva più, o se
lo si faceva, si
moriva dopo, feriti.
Adesso,
la stessa bambina che giocava con quel
coniglietto di peluche, stava affacciata alla finestra del bagno di
quel locale
di lusso, con i gomiti appoggiati al davanzale e la testa posata su i
due palmi
delle mani. Guardava distrattamente il cielo che si faceva sempre
più scuro e
qualche volta piccoli spruzzi di fuochi d’artificio
adornavano il buio,
rendendo omaggio a Duncan e Gwen che si stavano divertendo nella camera
riservata a loro. Heather sorrise compiaciuta: era felice. Felice
perché la sua
migliore amica aveva trovato la gioia nascosta negli occhi di quel
cielo
infinito di un punk assurdamente dolce. Un cielo nel quale ci si poteva
perdere, e volare, per poi riposarsi su una nuvola soffice. O un mare,
profondo
di azzurro, letale in una tempesta. Ci si poteva affogare.
L’asiatica non
poteva negare di essere attratta fisicamente da Duncan, ma comunque non
l’avrebbe mai toccato. Infondo era attratta fisicamente da
così tanta gente che
se ne poteva scrivere un papiro. Ma solo qualcuno riusciva a scatenare
in lei
un vento enorme, una bufera pericolosa. Scott. Maledetto stronzo,
perché doveva
esistere? Crearle guai, così! Poi arrivare in quel modo,
senza avvisare che le
avrebbe scombussolato tutta un’esistenza. Se ci fosse stato
lui, durante la sua
vita, era sicurissima che le avrebbe teso la mano per tirarla su.
Magari nei
suoi modi di fare avrebbe trovato un rifugio, come le sue braccia, che
si
sarebbero tese, stringendola e facendola sentire protetta, come in un
castello,
grande e maestoso, nel quale nessuno poteva penetrare o distruggerlo. E
quel
castello molto probabilmente non sarebbe crollato mai, pronto ad alzare
le mura
e a farla sentire isolata dal mondo. Però Heather Wilson a
tutto quello non
c’era abituata. A ventitré anni aveva imparato a
stare alla larga dai
sentimenti. Mai avrebbe fatto sesso più di due volte con lo
stesso uomo, né mai
si sarebbe innamorata. Eppure quel dannato stronzo dai capelli rossi le
aveva
rotto i piani. Scott era arrivato troppo tardi, quando lei aveva subito
troppo.
Quando si passa una vita terribile si è incapaci di amare e
questo Heather se
l’era segnato in mente, come un promemoria. Lei sapeva che,
infondo tutte
quelle cicatrici le avrebbero ricordato il passato e ne era convinta:
non si
sarebbe mai potuta fidare di nessuno. Era restata in piedi ma dentro,
era
morta. Se così si poteva dire. Nel senso che, una vita senza
altre emozioni se
non il piacere fisico, alla fin fine stanca. Il bene per la sua amica
sarebbe
sempre restato, ma ora si era stufata. Doveva cambiare aria, doveva
dimenticarsi di quella città che le aveva procurato solo
dolore. Dove si
voltava si voltava, rivedeva il passato. Allora sì, forse,
con un’altra vita,
sarebbe stata capace di amare sul serio. Ma ora no, così non
era possibile. Una
vita sfregiata in continuazione non è degna di essere
definita tale, la sua,
almeno, non lo era. Era in continua lotta con se stessa e mentre tutti
quelli
che conosceva si erano sistemati, lei era ancora così, sola,
ad aspettare che
il futuro entrasse nella sua esistenza appassita. Quel futuro tanto
agognato si
era fatto vivo sotto forma di un ragazzo, purtroppo lei non avrebbe
saputo come
tenerselo. Gli avrebbe potuto chiedere scusa, fare la pace, ma a che
pro?
Avrebbero litigato lo stesso fino a quando lei non l’avrebbe
fatto soffrire
così tanto da crepare definitivamente un rapporto
già precario, finito al suo
nascere. Per questo avrebbe mollato tutto e tutti, soprattutto Scott,
perché lo
amava e quando si ama una persona l’ultima cosa che si vuole
fare e ferirla. Gwen
l’avrebbe rivista, in un modo o nell’altro. La
gotica non era più quella
ragazzina immatura e scorbutica, adesso era sposata, voleva un futuro
con
quell’uomo straordinario che portava la sua fede. Magari
avrebbero avuto dei
figli, forse lei si sarebbe davvero laureata un giorno, riprendendo gli
studi.
Avrebbe fatto il lavoro che più le piaceva, sistemandosi e
mettendo apposto la
testa, come aveva costretto Duncan. Quella vita non era fatta per lei,
però.
Heather non poteva essere legata a qualcuno, la certezza di
distruggerlo era
troppo grande, troppo forte e vivida. Avrebbe provato, ma non sarebbe
servito a
nulla. Quella sera, già aveva deciso. Sarebbe andata forse a
Londra, dove una
casa di sua proprietà l’aspettava ancora vuota.
Aveva scelto così, senza
ripensamenti di alcun genere perché lei non aveva nessuna
catena, nessuna
motivazione per restare lì dov’era. E avrebbe
lasciato le chiavi di casa sua a
Gwen, senza dirle nulla, lasciandole solo una lettera. Quella casa,
sarebbe
stata donata alla gotica perché un po’sua lo era.
Heather
non voleva ricominciare, voleva solo
allontanarsi.
Piangere
non era possibile, quindi si morse le labbra
e restò a guardare le stelle, quando la spalla le fu
pressata da una mano
-L’ho
scelto io- si girò, era Scott –Questo posto,
l’ho scelto io- non sapeva perché, ma comunque ci
teneva a dirlo. Quel posto
era lontano dal ricevimento, lungo le scale dell’edificio non
c’era nessuno,
erano tutti al primo piano, al ricevimento –Bravo, allora un
po’di classe ce
l’hai- il rosso sorrise e Heather scosse la testa. Quelle
labbra sottili che si
distendevano sul suo viso le creavano troppi malesseri
–Perché non ci
riproviamo, eh?- l’asiatica fece di no, girandosi e
guardandolo finalmente
negli occhi. Erano lucidi. Aveva… pianto? Forse lo aveva
fatto per lei? No, che
sciocchezze. Scott non piangeva, così come lei che adesso si
ritrovava con le
guance bagnate. Fottuto uomo, lo diceva che riusciva a scatenarle
emozioni
fuori dal normale, perché per lei piangere non era
contemplato. Sogghignò a sua
volta –Tieniti lontano da me- sussurrò
inutilmente, tanto lei stessa sarebbe
partita –Non capisco, stiamo… stiamo
così bene, insieme! Cosa c’è che non
va?-
-Nulla,
appunto per questo. Siamo troppo perfetti e la
perfezione non fa parte di me- rispose con lo sguardo perso dietro le
sue
spalle. Lui la spinse verso la parete, piantando i piedi a terra
–Non ha
senso!-
-Invece
sì! Per me, ce l’ha! Potremmo baciarci adesso,
fare l’amore… ma non servirebbe a nulla! Lo sai
perché, Scott? Perché ti
illudi. Io amo, ma non ne sono capace. Ed è difficile da
capire, ma è così,
punto e basta. Devi accettarlo-
Anche
lui avrebbe avuto la sua vita e con il passare
degli anni lei sarebbe divenuta solo un ricordo sfocato, poco
piacevole. Invece
l’asiatica futuro non ne aveva. Girò i tacchi,
scendendo le scale per uscire
definitivamente dall’edificio: si era stancata. Quella sera
stessa avrebbe
fatto i bagagli, prenotando un biglietto via internet. Tanto non
c’era bisogno
di salutare nessuno.
A
quel punto Scott avrebbe dovuto fermarla, dirle che
l’amava, che senza di lei non avrebbe potuto vivere.
L’avrebbe dovuta solo
baciare, portare in camera, stenderla delicatamente su un letto e farci
l’amore, per poi restare insieme, per sempre. E dopo qualche
mese avrebbero
programmato il loro matrimonio, dando l’onore a Duncan e Gwen
di essere i loro
testimoni… ma la vita per loro non era mai stata una favola
e il ragazzo restò
impalato sui gradini delle scale, guardando la figura slanciata di
Heather
sparire, andare via.
Scott
dal suo canto non aveva mai avuto una vita
facile, ma nell’amore ci credeva ancora e in modo diverso
dalla sua fiamma.
Lei
era capace di fargli salire un desiderio fuori dal
normale, per poi farglielo reprimere perché non voleva che
fosse “una delle
tante”.
La
sua felicità ora se n’era andata e lui non aveva
fatto nulla per impedirglielo.
Tre
giorni dopo
Fuori
la porta di casa di Heather Gwen, Duncan e Scott
battevano furiosamente i pugni sul legno e urlavano preoccupati. Erano
giorni
che la ragazza non rispondeva alle chiamate e ai messaggi lasciati in
segreteria e si stavano seriamente preoccupando. Scott era in procinto
di
sfondare la porta, solo per poterla stringere tra le sue braccia, ma fu
fermato
da Gwen che si calò notando una busta nella pianta affianco
alla porta. Quando
l’aprì le scivolarono in mano le chiavi
dell’appartamento e una lettera che
subito si posò davanti agli occhi, gli altri due ragazzi
intanto scalpitavano
curiosi. La carta aveva impresso sopra la calligrafia disordinata
dell’amica-nemica e in fondo la sua firma vistosa che
notò subito:
“ Ciao Gwen,
questa
lettera è
indirizzata a te perché tu possa sapere che questa casa
adesso è ufficialmente
tua, intestata a te. Prendilo un po’come un regalo per
ringraziarti di tutto
ciò che hai fatto per me. Perché mi hai aiutata
molto in questi anni.
Sei
stata l’unica a
farmi sentire bene anche se non te l’ho mai detto.
Io
con le parole non
ci so fare, quindi non aspettarti una lunga lettera di ringraziamenti,
piena di
metafore commoventi e significative.
Semplicemente
grazie,
punto.
Penso
che dopo tutto
una spiegazione te la devo. Sono andata via. Non ci voglio girare molto
attorno, la causa della mia scelta definitiva (sì,
perché ci stavo già pensando
da un po’) è stata Scott, che mai
finirò d’amare e considerare come il primo e
l’ultimo che mi abbia fatto battere il cuore in quel
senso… insomma, come tu
tanto mi raccontavi di ciò che provavi con
Duncan… volevo dirti che ora, ti
capisco.
Per
favore,
capiscimi, cerca di farlo. Questa vita non mi appartiene.
Alla
fine avrei
raggiunto la soglia del suicidio. Tu avresti avuto la tua vita con
Duncan e
saresti sparita per me, io non volevo cadere di nuovo. Non puoi
comprendermi a
fondo, perché tu non sai com’è essere
come me.
Io
ho tremato troppo
e beh, adesso è solo arrivata l’ora di smetterla.
Sono
ventitré anni
che non faccio altro che soffrire, io… io dovevo essere
forte ma purtroppo
neppure tu sei riuscita ad arrivare in fondo alla mia anima.
Sono
troppi… i
momenti da ricordare…
Ed
io non voglio
morire di dolore. Questa sofferenza mi ha accompagnato per troppo e non
voglio
ricadere in ciò che mi facevo prima, forse tu qualche volta
ci sarai pure
arrivata.
Il
filo spinato sul
quale cammino è troppo appuntito.
Urlare
non servirà a
nulla io cadrò e mi sciuperò.
Non
ho idea se Scott
sia vicino a te in questo momento, però vorrei solo dirgli
che so di essere
patetica. In questo momento sono seduta sulla nostra terrazza con una
tazza di
caffè tra le mani, che non fa altro che agitarmi. Tra cinque
minuti sarò
incapace di tenere la penna tra le mani. Insomma, è stato
l’unico a farmi stare
qualche ora in pace con me stessa e anche se so che la vita non
è una fiaba, io
l’ho vissuta per un po’e non smetterò
mai di ringraziarlo.
Lascio
tutto, quel
tutto di niente che mi ha rovinato una vita.
Smetterò
di guardarmi
allo specchio e vedere un'altra. Nessun’incubo
verrà a disturbarmi nel sonno e
poi sarò capace di essere una persona migliore.
Non
voglio fargli del
male, Dio solo sa quanto lo ami.
Lo
stesso vale per
te, Gwen, ti voglio un bene dell’anima… i miei
insulti, beh, prendili tutti
come dimostrazioni d’affetto che non ho mai saputo farti e se
solo Duncan prova
a farti soffrire tornerò lì e lo
ammazzerò con le mie stesse mani, ma tienitelo
stretto, perché è speciale, mi è
sempre piaciuto, quel tipo.
Va
bene, adesso prima
che bestemmi per questa cazzo di penna che si sta scaricando, finisco.
Ti
voglio bene.
Heather.
“
Poi
furono come tante di schegge di vetro che si
conficcano nella carne e mille farfalle che sbattono le ali per
spazzarti via.
E Scott cadde sulle ginocchia, tirando pugni contro le mattonelle,
piangendo e
mordendosi le labbra, senza urlare però
–Stronza… pensa solo a se stessa-
mormorò Duncan che ora poco riusciva ad avercela con
l’asiatica. Tralasciò lo
stupore di Gwen, inginocchiandosi verso Scott per mettergli una mano
sulle
spalle –Amico, dai…- ma quello non voleva sentire
ragioni. Tremante si alzò,
facendo aprire la porta di casa alla gotica e tutti e tre fissarono le
mura
spoglie dell’appartamento, che sapeva ancora
‘infusi d’erbe e granelli freschi
di caffè. Fu come correre all’impazzata per una
salita e poi cadere, sconfitti.
Fu simile a un pugno in pieno stomaco che superò il dolore
del ragazzo. Gwen
pianse, Duncan si accostò al muro con le spalle e Scott
stava fermo, immobile.
Fu
un vortice di pianti singhiozzati e labbra morse
appena. Fu come essere tirati e sbattuti al muro, fu come ingerire del
veleno
contro la propria volontà per poi sentirne i sintomi dopo
appena tre secondi. E
cadere, urlare, piangere, sfogarsi, restare all’asciutto di
lacrime.
La
dark si fiondò nelle braccia di Duncan, scuotendo
la testa mentre Scott non fece nulla se non andarsene con un passo
cadenzato e
terribilmente sicuro.
Era
finita e lui doveva solo accettarlo, dimenticarlo
con il tempo.
E
Gwen e Duncan vissero felicemente, sentendo
l’asiatica qualche rara volta al telefono, per poi troncare
completamente i
rapporti.
E
Scott, invece partì per cercare lavoro, mantenendo
stabili le sue visite mensili per vedere la dark e il migliore amico,
che mai
l’avevano visto con una donna.
Forse
è vero che infondo, dopo tante cadute non ci si
riesce più a fidarsi di quelle mani che cercano di farti
rialzare.
Writen By Stella_2000
Angolo Me!
Okay,
giorno bella gente che ci segue!!!
Questo è l’ultimo capitolo che è
spettato a me, quindi, posso capire la vostra
delusione. Io non me la cavo con gli angoli dell’autrice come
Angelo XD Ne sono
calorosa come lei, ma ci tenevo tantissimo a ringraziare chi ci ha
seguite, chi
ha messo al Ficcy tra le preferite e le seguite e un grazie speciale va
a Liz e
Julie, che ci hanno recensito sempre e con puntualità! Siete
state davvero
molto calorose, meglio di un plaid (?)
Quindi,
dopo questo tentativo
–fallito- di dire qualcosa di sensato, vi abbandono per
sempre (sì, mi piace
essere melodrammatica, guardate questo finale! O.O)
Mi
dispiace per chi è rimasto
deluso, ma per me il “Felici&Contenti”
è una grande scemenza.
Vi
vogliamo bene e ci siamo
divertiti un mondo a scrivere questa storia.
Forse,
ci saranno altre
sorprese.
Ma ringraziate solo Angioletto.
Baci, abbracci e
BYE
💕
P.s. anche io voglio ringraziare Angelo Nero, per la sua amicizia e per la sua simpatia, che, tra una risata e l'altra, mi ha insegnato tantissimo. Ti voglio bene, la tua paxxa amica Yaoista 💘