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Autore: Angelo_Stella    11/09/2014    2 recensioni
GWUNCAN|ALETHER|SORPRESA|
...
SORPRESA! CAPITOLO 10, FINALE ALTERNATIVO!
...
Agape.
Amore disinteressato, puro, pieno di gioia.
Eros.
Piacere fisico, sesso.
Gwen ed Heather, non esattamente definite come amiche, si ritrovano alle prese con questi tipi diversi di rapporti.
Una dolce, nascosta da un'acidità che man mano tralascia sempre di più.
L'altra perversa, presa continuamente dal piacere carnale.
Entrambe, insegneranno all'altra il loro stile di vita, dimostrandone le motivazioni.
Nulla sembra però come prima, quando l'asiatica si ritroverà tra le mani un laccio di scarpe vecchio e consunto dal tempo, forse simbolo di uno strano amore mai dimostrato.
Ma dopotutto, l'idea d'amore per loro è completamente diversa.
Heather imparerà qualcosa che andrà oltre ad un piacevole sesso, mentre Gwen, si renderà conto che infondo non si può mai vivere in una favola.
In un felici e contenti, che forse, non arriverà per tutti.
Tratto dal testo (capitolo 2):
Dimmi solo: chi è?"
(...)"Chi è chi?"
"Ma come 'chi'? Il ragazzo che ti ha rubato il cuore!" esclamò invece Gwen, giocosa e facendole la linguaccia. "Quel genio che ha sciolto il tuo cuore
Genere: Drammatico, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alejandro, Duncan, Gwen, Heather, Scott | Coppie: Alejandro/Heather, Duncan/Gwen
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
Capitoli:
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AGAPE    

Ispirazione dal video della canzone “Fucking Perfect” di P!nk.

 

Capitolo 9 : collaborazione con Angelo_Nero

 

 

Fottuta perfezione che continua a scapparmi. Perché? Perché non la raggiungerò mai?

Infondo la sofferenza resta parte di me.

È uno stato d’animo, come la pioggia, come il sole che tramonta.

Come le lacrime che scrosciano contro i vetri di un’anima abbandonata.

E resto in compagnia della solitudine, lei, con quel gusto amabile quanto detestabile.

Che tormenta, scava all’interno del tuo corpo, ti consuma, ti logora i bordi di quel cuore che ora sbatte stanco contro la cassa toracica.

Forse non mi capiranno mai. Sicuramente.

Nessuno può capirmi.

 

Heather’s memories

 

 

Quelle due codine nere e graziose le ricadevano sulle spalle coperte dalle lunghe maniche dell’abitino a quadrettini e quell’espressione imbronciata che per nulla dovrebbe apparire sul visino di una bambina di cinque anni la caratterizzava come il suo marchio di fabbrica. Le braccine esili le segnavano i fianchi sottili e gli occhioni grigi spiccavano di tristezza intrisa d’invidia. I polsi adornati da piccole strisce di stoffa intrecciate tra loro come braccialetti di cui tanto andava fiera. E poi quelle unghie morsicchiate a sangue e quelle manine strette in due pugni. Quel coniglietto di peluche rosa stava sul tavolo del cortile dell’asilo, con la testa a penzoloni. Era vecchio con gli occhi fatti di due bottoni, uno verde e uno nero, mentre la bocca era cucita con del filo rosso che all’epoca di quel cimelio doveva essere un vermiglio brillante, mentre adesso aveva lo stesso colore delle sue scarpe consumate. Della stoffa fuoriusciva dalle orecchie lunghe e causava la sua presunta allergia. Ma a lei non importava. Stringeva il pupazzo con tutta se stessa, accarezzandone il pelo intrecciato e sporco, stendendolo, dandogli la sua minestra di terra e sabbia che aveva recuperato nella piscinetta poco distante. Se lo mise sulle gambe facendolo saltellare appena. Le iridi di quel profondo grigio brillarono di tanti piccoli cristalli, che parevano specchi pronti a riflettere, pozzi adatti per caderci dentro e precipitare, ferro bollente di rabbia –Sì, Alice! Sei bellissima! Ah ah!- e quella flebile risata accolse il piccolo sorriso pallido e le guance arrossate per lo sforzo quando fece saltare la sua Alice in aria.

Sola, ancora.

E ci stava bene, perché la gente portava solo guai.

Non serviva pregarle, indicarle, rimproverarle, cercare di capirle.

Quel mondo non era pronto per accogliere una come lei.

Si sentì tirare il bordo dell’abito e quando si girò si trovò difronte un suo compagno di classe –Mike, che c’è?- sbatté le ciglia esterrefatta quando il piccolo le strappò il pupazzo dalle mani, ridendo di lei e prendendola in giro, perché:- Che schifo! È vecchio e brutto!- Heather con risentimento provò a riprendersi il giocattolo, ma quello fu lanciato in aria e cadde in una pozza di fango, sporcandole così le guance e il vestito nuovo che la mamma le aveva appena comprato –Cattivo! Perché?!- lo indicò facendo rumore con le scarpe sul terreno e saltellando in preda alla rabbia. L’artefice della sua ira fece spallucce ma lei non lo lasciò andare, fiondandocisi sopra e bloccandolo per la schiena, sulla quale stava a cavalcioni, gli prese i capelli bruni, tirandoseli verso il petto e facendo piangere lacrime di dolore all’ “amico”.  Dopo neppure un minuto fu strappata via dal corpo del bambino, ma ancora scalciava, dimenandosi e tirandosi i bordi del vestitino con le mani paffute e sporche ora di fango. Fu ripoggiata a terra e la maestra cominciò a scuoterle l’indice difronte agli occhi, rimproverandola –Vergognati, non è così che ci si comporta, adesso fila dritta in punizione!- tanto lì lo sapevano che quella bambina era affetta da numerosi disturbi psichici, dovevano avere pazienza, se questa consisteva nel rinchiuderla in una di quelle classi al buio, facendole osservare la felicità e la spensieratezza degli altri, che scivolavano da quegli adorabili scivoli colorati e di gomma, saltavano sulle molle e giocavano a rincorrersi nella sabbia, mentre un altro contava per dare l’inizio al gioco del “nascondino”. Heather, quella piccola bambina che ora, abbracciata al suo coniglietto di peluche mentre mangiucchiava in silenzio un biscotto al Plasmon, era inginocchiata su un baule per arrivare a guardare fuori alla finestra, mentre grandi lacrimoni le circondavano le guance pallide.

***

 

Mia madre ha provato anche con l’elettroshock per darmi diventare più buona… ahahah, un successone!

 

Le mani congiunte in una sorta di preghiera che una quattordicenne normale potrebbe formulare. Le labbra mandavano piccoli messaggi alla genitrice, dietro i vetri di quell’ospedale psichiatrico.

“Ti supplico, basta...”

Poi una scossa d’elettricità che le attraversò il corpo magro, dal quale si poteva decifrare benissimo un assalimento da una forte anoressia nervosa. Dieci paia di unghie che si conficcavano nei braccioli di quella sedia foderata alla quale era stata legata come una pazza, il corpo sbattuto e attraversato da lampi dolorosi in modo allucinante, le gambe tese e piene di graffi causati dalla lametta, che aveva iniziato a usare solo da due anni.

Piccoli squarci di dolore in quegli occhi celati al mondo, luci gialle e rosa le riempivano il buio e cercava di concentrarsi solo su qualcosa di bello. Quella meraviglia che mai le aveva segnato la vita.

Ma qualunque cosa facesse il busto le era attraversato da quelle crudeli frustate d’elettricità. Quelle sedute mensili… quando sarebbero giunte al termine? Quanto ancora sua madre avrebbe creduto che con qualche scossa la sua cattiveria e la sua perenne acidità sarebbero svanite?

Non ebbe tempo di sollevare le palpebre che le ciglia andarono a toccarle le guance imporporate di rosso e che una nuova scossa le arrivasse a farle male fino al cervello.

Tossì un paio di volte, mordendosi il labbro e assottigliando gli occhi.

Oh, quella rabbia.

I medici la slegarono e cadde con le ginocchia rotte di graffi sul pavimento immacolato. Non pianse, non gemette neppure: costava troppa fatica e lei era ormai grande, una donna.

Una ragazzina che aveva provato quella terribile ebrezza dell’amore, così come i rifiuti che da essi provenivano.

E le botte, la testa ficcata dai suoi coetanei nel water, i calci durante la merenda, le spinte mentre stavano in fila, le esclusioni alle quali era sempre soggetta.

Poi il buio dello svenimento e le preghiere che formulava tacitamente.

***

Le mani stringevano il rossetto di un rosso acceso, lo passò sulle labbra che fece schioccare un paio di volte, mentre stese un filo di matita pesante lungo le palpebre e se le colorava di un nero sfocato. La maglia viola strappata e i jeans attillati e strappati, ai piedi un paio di stivali neri e le mani fasciate da guanti borchiati.

Ribellione di una normale sedicenne, voglia di essere diversa, desiderio di sfidare la propria madre, che ora le stringeva il polso vedendola conciata in quel modo. La trascinò con violenza fino la sua camera, strattonandola per scale. Nessuno, nessuno avrebbe mai dovuta vederla conciata in quel modo! Lei era figlia di buona famiglia e non una stupida come quella sua amica che vestiva uguale

-Tu non puoi decidere tutto della mia vita!-

-E tu solo perché non hai personalità non puoi copiare gli altri!-

Poi eccolo lo schiaffo che la fece arrabbiare ancora di più e piegare la testa di lato

-Vaffanculo, stronza!-

-Come ti permetti? Sono tua madre, portami rispetto!-

-Io ti odio!-

La donna le prese i capelli, staccandone con irruenza le ciocche false e tinte di rosa per poi strapparle la maglia da dosso e indicarla

-Tu fai ciò che dico io-

E dicendo così le stese una camicetta bianca sul letto e un jeans largo, guardandola con quegli occhi che volevano solo farla soffrire, dirle quanto fosse in errore, quanto facesse pena come figlia.

Lei lo sapeva e le venne confermato quando la spinse fuori casa per andare a scuola, ficcandola malamente in auto e chiudendole lo sportello in faccia.

Quel giorno, come al solito, prese una F ma non se ne curò.

Era un’artista, lei.

Prese le sue penne al gel e cominciò a disegnare attorno alla lettera, che immediatamente divenne dei denti che adornavano la faccia tonda e stupida che aveva disegnato. La guardò con soddisfazione, per poi incrociare le braccia sul tavolo e appoggiandocisi sopra. Almeno nessuno l’avrebbe riconosciuta.

***

“Perché loro tutto ed io niente?”

Era ciò che si chiedeva Heather guardando con attenzione un gruppo di ragazze che venivano a scuola con lei. Provavano con interesse un abito blu all’ultima moda, rigirandosi su se stesse e contemplandosi, facendosi allegri complimenti vicendevolmente e sorridendo ammiccando. Non poteva sopportarle: vipere! Un giorno sarebbe stata migliore di loro, di sicuro. Anche se in quel momento non aveva soldi per potersi permettere capi firmati come quelli. In un gesto impulsivo ne prese uno dalla stampella, andando negli spogliatoi e ficcandolo subito nella sua borsa, ma quando uscì un commesso stava fuori dal camerino e, sospettoso, le prese il bottino dalle mani. Quando svuotò sottosopra la borsa l’abitino firmato cadde per terra e allora tutto quel gruppo di ragazze che prima l’avevano platealmente ignorata, si girò, posando una mano sulle loro labbra tinte di rosa e spalancando gli occhi, in una espressione esterrefatta. Una prese il cellulare e riprese la scena. Il proprietario la stava spingendo fuori dal negozio e lei sospirando guardò indietro, ignara che la stessero ritraendo in quei video che subito finirono per girare su internet.

***

Diciotto anni: quella fu l’ultima volta che si tagliò. Nella vasca, mentre imprimeva una lama presa da chissà dove nel braccio. Il sangue era piombato tra la schiuma rosa e si era sparso nell’acqua che in poco tempo divenne una piscina di sangue, così come il muro, dal quale piccole gocce cadevano insistentemente. Strinse le labbra all’ultima linea disegnata sul braccio “Perfect”. Scritta in uno stampatello ordinato e preciso, segno che era lucidissima. Quando si alzò dovette fasciarsi nuovamente le braccia, in bocca aveva ancora il sapore ferroso del sangue che le macchiava la lingua e il palato, che gustavano quel liquido come se ci si nutrissero. E in qualche modo era così. Si fissò allo specchio e chiuse gli occhi, poi afferrò le forbici sul bordo del lavandino e invece che segnare la sua pelle tranciò i capelli, accorciandoli definitivamente.

E Heather Wilson da quel momento decise di cambiare, di essere la migliore, la più desiderata e di mozzare la felicità altrui con poche parole che fremevano di rabbia repressa.

Perché lei era rabbia bollente, letale come un veleno potente, quel veleno alla quale era resistita per tutta la vita.

Lei era una foresta grande e intricata, dalla quale non ci si usciva più, o se lo si faceva, si moriva dopo, feriti.

 

 

 

Adesso, la stessa bambina che giocava con quel coniglietto di peluche, stava affacciata alla finestra del bagno di quel locale di lusso, con i gomiti appoggiati al davanzale e la testa posata su i due palmi delle mani. Guardava distrattamente il cielo che si faceva sempre più scuro e qualche volta piccoli spruzzi di fuochi d’artificio adornavano il buio, rendendo omaggio a Duncan e Gwen che si stavano divertendo nella camera riservata a loro. Heather sorrise compiaciuta: era felice. Felice perché la sua migliore amica aveva trovato la gioia nascosta negli occhi di quel cielo infinito di un punk assurdamente dolce. Un cielo nel quale ci si poteva perdere, e volare, per poi riposarsi su una nuvola soffice. O un mare, profondo di azzurro, letale in una tempesta. Ci si poteva affogare. L’asiatica non poteva negare di essere attratta fisicamente da Duncan, ma comunque non l’avrebbe mai toccato. Infondo era attratta fisicamente da così tanta gente che se ne poteva scrivere un papiro. Ma solo qualcuno riusciva a scatenare in lei un vento enorme, una bufera pericolosa. Scott. Maledetto stronzo, perché doveva esistere? Crearle guai, così! Poi arrivare in quel modo, senza avvisare che le avrebbe scombussolato tutta un’esistenza. Se ci fosse stato lui, durante la sua vita, era sicurissima che le avrebbe teso la mano per tirarla su. Magari nei suoi modi di fare avrebbe trovato un rifugio, come le sue braccia, che si sarebbero tese, stringendola e facendola sentire protetta, come in un castello, grande e maestoso, nel quale nessuno poteva penetrare o distruggerlo. E quel castello molto probabilmente non sarebbe crollato mai, pronto ad alzare le mura e a farla sentire isolata dal mondo. Però Heather Wilson a tutto quello non c’era abituata. A ventitré anni aveva imparato a stare alla larga dai sentimenti. Mai avrebbe fatto sesso più di due volte con lo stesso uomo, né mai si sarebbe innamorata. Eppure quel dannato stronzo dai capelli rossi le aveva rotto i piani. Scott era arrivato troppo tardi, quando lei aveva subito troppo. Quando si passa una vita terribile si è incapaci di amare e questo Heather se l’era segnato in mente, come un promemoria. Lei sapeva che, infondo tutte quelle cicatrici le avrebbero ricordato il passato e ne era convinta: non si sarebbe mai potuta fidare di nessuno. Era restata in piedi ma dentro, era morta. Se così si poteva dire. Nel senso che, una vita senza altre emozioni se non il piacere fisico, alla fin fine stanca. Il bene per la sua amica sarebbe sempre restato, ma ora si era stufata. Doveva cambiare aria, doveva dimenticarsi di quella città che le aveva procurato solo dolore. Dove si voltava si voltava, rivedeva il passato. Allora sì, forse, con un’altra vita, sarebbe stata capace di amare sul serio. Ma ora no, così non era possibile. Una vita sfregiata in continuazione non è degna di essere definita tale, la sua, almeno, non lo era. Era in continua lotta con se stessa e mentre tutti quelli che conosceva si erano sistemati, lei era ancora così, sola, ad aspettare che il futuro entrasse nella sua esistenza appassita. Quel futuro tanto agognato si era fatto vivo sotto forma di un ragazzo, purtroppo lei non avrebbe saputo come tenerselo. Gli avrebbe potuto chiedere scusa, fare la pace, ma a che pro? Avrebbero litigato lo stesso fino a quando lei non l’avrebbe fatto soffrire così tanto da crepare definitivamente un rapporto già precario, finito al suo nascere. Per questo avrebbe mollato tutto e tutti, soprattutto Scott, perché lo amava e quando si ama una persona l’ultima cosa che si vuole fare e ferirla. Gwen l’avrebbe rivista, in un modo o nell’altro. La gotica non era più quella ragazzina immatura e scorbutica, adesso era sposata, voleva un futuro con quell’uomo straordinario che portava la sua fede. Magari avrebbero avuto dei figli, forse lei si sarebbe davvero laureata un giorno, riprendendo gli studi. Avrebbe fatto il lavoro che più le piaceva, sistemandosi e mettendo apposto la testa, come aveva costretto Duncan. Quella vita non era fatta per lei, però. Heather non poteva essere legata a qualcuno, la certezza di distruggerlo era troppo grande, troppo forte e vivida. Avrebbe provato, ma non sarebbe servito a nulla. Quella sera, già aveva deciso. Sarebbe andata forse a Londra, dove una casa di sua proprietà l’aspettava ancora vuota. Aveva scelto così, senza ripensamenti di alcun genere perché lei non aveva nessuna catena, nessuna motivazione per restare lì dov’era. E avrebbe lasciato le chiavi di casa sua a Gwen, senza dirle nulla, lasciandole solo una lettera. Quella casa, sarebbe stata donata alla gotica perché un po’sua lo era.

Heather non voleva ricominciare, voleva solo allontanarsi.

Piangere non era possibile, quindi si morse le labbra e restò a guardare le stelle, quando la spalla le fu pressata da una mano

-L’ho scelto io- si girò, era Scott –Questo posto, l’ho scelto io- non sapeva perché, ma comunque ci teneva a dirlo. Quel posto era lontano dal ricevimento, lungo le scale dell’edificio non c’era nessuno, erano tutti al primo piano, al ricevimento –Bravo, allora un po’di classe ce l’hai- il rosso sorrise e Heather scosse la testa. Quelle labbra sottili che si distendevano sul suo viso le creavano troppi malesseri –Perché non ci riproviamo, eh?- l’asiatica fece di no, girandosi e guardandolo finalmente negli occhi. Erano lucidi. Aveva… pianto? Forse lo aveva fatto per lei? No, che sciocchezze. Scott non piangeva, così come lei che adesso si ritrovava con le guance bagnate. Fottuto uomo, lo diceva che riusciva a scatenarle emozioni fuori dal normale, perché per lei piangere non era contemplato. Sogghignò a sua volta –Tieniti lontano da me- sussurrò inutilmente, tanto lei stessa sarebbe partita –Non capisco, stiamo… stiamo così bene, insieme! Cosa c’è che non va?-

-Nulla, appunto per questo. Siamo troppo perfetti e la perfezione non fa parte di me- rispose con lo sguardo perso dietro le sue spalle. Lui la spinse verso la parete, piantando i piedi a terra –Non ha senso!-

-Invece sì! Per me, ce l’ha! Potremmo baciarci adesso, fare l’amore… ma non servirebbe a nulla! Lo sai perché, Scott? Perché ti illudi. Io amo, ma non ne sono capace. Ed è difficile da capire, ma è così, punto e basta. Devi accettarlo-

Anche lui avrebbe avuto la sua vita e con il passare degli anni lei sarebbe divenuta solo un ricordo sfocato, poco piacevole. Invece l’asiatica futuro non ne aveva. Girò i tacchi, scendendo le scale per uscire definitivamente dall’edificio: si era stancata. Quella sera stessa avrebbe fatto i bagagli, prenotando un biglietto via internet. Tanto non c’era bisogno di salutare nessuno.

A quel punto Scott avrebbe dovuto fermarla, dirle che l’amava, che senza di lei non avrebbe potuto vivere. L’avrebbe dovuta solo baciare, portare in camera, stenderla delicatamente su un letto e farci l’amore, per poi restare insieme, per sempre. E dopo qualche mese avrebbero programmato il loro matrimonio, dando l’onore a Duncan e Gwen di essere i loro testimoni… ma la vita per loro non era mai stata una favola e il ragazzo restò impalato sui gradini delle scale, guardando la figura slanciata di Heather sparire, andare via.

Scott dal suo canto non aveva mai avuto una vita facile, ma nell’amore ci credeva ancora e in modo diverso dalla sua fiamma.

Lei era capace di fargli salire un desiderio fuori dal normale, per poi farglielo reprimere perché non voleva che fosse “una delle tante”.

La sua felicità ora se n’era andata e lui non aveva fatto nulla per impedirglielo.

 

Tre giorni dopo

 

Fuori la porta di casa di Heather Gwen, Duncan e Scott battevano furiosamente i pugni sul legno e urlavano preoccupati. Erano giorni che la ragazza non rispondeva alle chiamate e ai messaggi lasciati in segreteria e si stavano seriamente preoccupando. Scott era in procinto di sfondare la porta, solo per poterla stringere tra le sue braccia, ma fu fermato da Gwen che si calò notando una busta nella pianta affianco alla porta. Quando l’aprì le scivolarono in mano le chiavi dell’appartamento e una lettera che subito si posò davanti agli occhi, gli altri due ragazzi intanto scalpitavano curiosi. La carta aveva impresso sopra la calligrafia disordinata dell’amica-nemica e in fondo la sua firma vistosa che notò subito:

 

  Ciao Gwen,

questa lettera è indirizzata a te perché tu possa sapere che questa casa adesso è ufficialmente tua, intestata a te. Prendilo un po’come un regalo per ringraziarti di tutto ciò che hai fatto per me. Perché mi hai aiutata molto in questi anni.

Sei stata l’unica a farmi sentire bene anche se non te l’ho mai detto.

Io con le parole non ci so fare, quindi non aspettarti una lunga lettera di ringraziamenti, piena di metafore commoventi e significative.

Semplicemente grazie, punto.

Penso che dopo tutto una spiegazione te la devo. Sono andata via. Non ci voglio girare molto attorno, la causa della mia scelta definitiva (sì, perché ci stavo già pensando da un po’) è stata Scott, che mai finirò d’amare e considerare come il primo e l’ultimo che mi abbia fatto battere il cuore in quel senso… insomma, come tu tanto mi raccontavi di ciò che provavi con Duncan… volevo dirti che ora, ti capisco.

Per favore, capiscimi, cerca di farlo. Questa vita non mi appartiene.

Alla fine avrei raggiunto la soglia del suicidio. Tu avresti avuto la tua vita con Duncan e saresti sparita per me, io non volevo cadere di nuovo. Non puoi comprendermi a fondo, perché tu non sai com’è essere come me.

Io ho tremato troppo e beh, adesso è solo arrivata l’ora di smetterla.

Sono ventitré anni che non faccio altro che soffrire, io… io dovevo essere forte ma purtroppo neppure tu sei riuscita ad arrivare in fondo alla mia anima.

Sono troppi… i momenti da ricordare…

Ed io non voglio morire di dolore. Questa sofferenza mi ha accompagnato per troppo e non voglio ricadere in ciò che mi facevo prima, forse tu qualche volta ci sarai pure arrivata.

Il filo spinato sul quale cammino è troppo appuntito.

Urlare non servirà a nulla io cadrò e mi sciuperò.

Non ho idea se Scott sia vicino a te in questo momento, però vorrei solo dirgli che so di essere patetica. In questo momento sono seduta sulla nostra terrazza con una tazza di caffè tra le mani, che non fa altro che agitarmi. Tra cinque minuti sarò incapace di tenere la penna tra le mani. Insomma, è stato l’unico a farmi stare qualche ora in pace con me stessa e anche se so che la vita non è una fiaba, io l’ho vissuta per un po’e non smetterò mai di ringraziarlo.

Lascio tutto, quel tutto di niente che mi ha rovinato una vita.

Smetterò di guardarmi allo specchio e vedere un'altra. Nessun’incubo verrà a disturbarmi nel sonno e poi sarò capace di essere una persona migliore.

Non voglio fargli del male, Dio solo sa quanto lo ami.

Lo stesso vale per te, Gwen, ti voglio un bene dell’anima… i miei insulti, beh, prendili tutti come dimostrazioni d’affetto che non ho mai saputo farti e se solo Duncan prova a farti soffrire tornerò lì e lo ammazzerò con le mie stesse mani, ma tienitelo stretto, perché è speciale, mi è sempre piaciuto, quel tipo.

Va bene, adesso prima che bestemmi per questa cazzo di penna che si sta scaricando, finisco.

Ti voglio bene.

Heather. “

 

Poi furono come tante di schegge di vetro che si conficcano nella carne e mille farfalle che sbattono le ali per spazzarti via. E Scott cadde sulle ginocchia, tirando pugni contro le mattonelle, piangendo e mordendosi le labbra, senza urlare però –Stronza… pensa solo a se stessa- mormorò Duncan che ora poco riusciva ad avercela con l’asiatica. Tralasciò lo stupore di Gwen, inginocchiandosi verso Scott per mettergli una mano sulle spalle –Amico, dai…- ma quello non voleva sentire ragioni. Tremante si alzò, facendo aprire la porta di casa alla gotica e tutti e tre fissarono le mura spoglie dell’appartamento, che sapeva ancora ‘infusi d’erbe e granelli freschi di caffè. Fu come correre all’impazzata per una salita e poi cadere, sconfitti. Fu simile a un pugno in pieno stomaco che superò il dolore del ragazzo. Gwen pianse, Duncan si accostò al muro con le spalle e Scott stava fermo, immobile.

Fu un vortice di pianti singhiozzati e labbra morse appena. Fu come essere tirati e sbattuti al muro, fu come ingerire del veleno contro la propria volontà per poi sentirne i sintomi dopo appena tre secondi. E cadere, urlare, piangere, sfogarsi, restare all’asciutto di lacrime.

La dark si fiondò nelle braccia di Duncan, scuotendo la testa mentre Scott non fece nulla se non andarsene con un passo cadenzato e terribilmente sicuro.

Era finita e lui doveva solo accettarlo, dimenticarlo con il tempo.

E Gwen e Duncan vissero felicemente, sentendo l’asiatica qualche rara volta al telefono, per poi troncare completamente i rapporti.

E Scott, invece partì per cercare lavoro, mantenendo stabili le sue visite mensili per vedere la dark e il migliore amico, che mai l’avevano visto con una donna.

Forse è vero che infondo, dopo tante cadute non ci si riesce più a fidarsi di quelle mani che cercano di farti rialzare.

 

 

Writen By Stella_2000

Angolo Me! 


Okay, giorno bella gente che ci segue!!! Questo è l’ultimo capitolo che è spettato a me, quindi, posso capire la vostra delusione. Io non me la cavo con gli angoli dell’autrice come Angelo XD Ne sono calorosa come lei, ma ci tenevo tantissimo a ringraziare chi ci ha seguite, chi ha messo al Ficcy tra le preferite e le seguite e un grazie speciale va a Liz e Julie, che ci hanno recensito sempre e con puntualità! Siete state davvero molto calorose, meglio di un plaid (?)

Quindi, dopo questo tentativo –fallito- di dire qualcosa di sensato, vi abbandono per sempre (sì, mi piace essere melodrammatica, guardate questo finale! O.O)

Mi dispiace per chi è rimasto deluso, ma per me il “Felici&Contenti” è una grande scemenza.

Vi vogliamo bene e ci siamo divertiti un mondo a scrivere questa storia.

Forse, ci saranno altre sorprese.

Ma ringraziate solo Angioletto.

Baci,  abbracci e

BYE

💕

P.s. anche io voglio ringraziare Angelo Nero, per la sua amicizia e per la sua simpatia, che, tra una risata e l'altra, mi ha insegnato tantissimo. Ti voglio bene, la tua paxxa amica Yaoista 💘

 

   
 
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