Disclaimers: Nana appartiene ad Ai Yazawa, non a me (purtroppo >.<), dunque tutti i diritti sono di sua proprietà. Questa storia è stata scritta senza scopi di lucro.
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“La neve è una poesia. Una poesia che
cade dalle nuvole in fiocchi bianchi e leggeri.
Questa poesia arriva dalla
labbra del cielo, dalla mano di Dio.
Ha un nome. Un nome di un candore
smagliante.
Neve.”
[Maxence
Fermine]
Ci sono due cose che ho sempre odiato.
Quando mia madre morì, mi
lasciò con un’eredità pesante: il passato.
Orfana quindicenne di una
prostituta e di un cliente occasionale di cui si conosceva solo la sua origine
straniera, dati gli occhi verdi che mi aveva lasciato come ricordo, seguii
l’unica strada che credevo possibile per quelli come me: chiesi alla donna che
procurava appuntamenti a mia madre, Okuda-san, di cercarmi dei
clienti.
Essendo io tanto esotica a causa dei miei occhi, accettò velocemente
e mi fece tingere i capelli di biondo, spacciandomi per un’occidentale e
vedendovi un profitto maggiore, tanto che già quella sera.. la mia vita
cambiò.
Mi sporcai per la prima volta.
Vivendo in quel mondo sin dalla
nascita, mi abituai in fretta e riuscii a “fare carriera”, questo fu il termine
usato da Okuda-san, pretendendo ormai solo clienti di una certa estrazione
sociale.
Percepii quasi una certa invidia da parte sua nei miei confronti ma,
finché le davo il denaro, era più che soddisfatta.
Chissà cosa credesse. Come
se osservare un mondo irraggiungibile per una notte fosse un privilegio.
Per
quegli uomini, io ero il piccolo vizio, l’ombra che rendeva più splendente la
luce.
Ma poco mi importava. Quando sei abituata al dolore, una ferita
superficiale non fa male.
Notte dopo notte, letto dopo letto, tra lenzuola
sconosciute e amori occasionali.. la mia vita passava, scorreva. Anche se dire
vita non è esatto.
Sopravvivevo, e la sopravvivenza è per gli animali. Gli
animali non hanno sentimenti, non hanno pensieri.
Ed io ormai ero divenuta
una bestia. Un animale esotico che, ogni notte, fingeva di farsi
addomesticare.
E forse era un bene che non provassi più nulla, apatica del
tutto al mondo che mi circondava.
Altrimenti… non so se avrei sopportato
l’orrore ed il disgusto per me stessa.
Camera d’albergo. Non una qualunque: lusso, ricchezza, dorature
splendenti ma che a me sembravano così sporche.
Il nero della notte stava
sfumando ed una nuova alba sorgeva dietro le tende di seta.
L’uomo, di cui a
malapena conoscevo il nome, e che di certo era fasullo, dormiva tra le lenzuola
candide, ignorando il peso del peccato commesso.
Sul comodino, una
fede.
Seduta sul bordo del letto, allacciai le scarpe, ignorando il piccolo
peso che sentivo sul cuore. Era sempre così, nonostante tutto.
Infondo, le
donne che possedevano il gemello di quel piccolo cerchio d’oro mi facevano
pena.
Ma, d’altronde, nessuno aveva avuto compassione di me, perché io avrei
dovuto farmi scrupoli?
Veloce, mi alzai, afferrando il lungo cappotto scuro
ma, ancor più importante, prendendo i soldi che mi spettavano ed infilandoli
delicatamente in una tasca. Il mio giusto compenso, pensavo.
Avanzai nella
penombra di quell’inizio di giornata scuro, con un cielo che preannunciava già
pioggia, ed uscii dalla camera, chiudendo la porta dietro di me con un lieve
click.
Nel corridoio, illuminato da lampadari dai mille rifinimenti, una
porta, poco lontano da quella alle mie spalle, era aperta, lasciando percepire
le voci di coloro che erano all’interno. Rimasi ferma, sorpresa.
-Shin, ti
prego, rimani un altro po’ con me! Vieni, facciamo almeno colazione!
Una voce
femminile chiamava, la voce morbida e roca allo stesso tempo, tenera.
-Mi
dispiace, Rumiko, ma devo andare. La prossima volta mi fermerò più a lungo,
d’accordo?
Ed, indietreggiando, un ragazzo uscì dalla stanza.
Alto, forse
di qualche anno più grande di me, il viso pieno di piercing, anche su quelle
labbra che sorridevano dolci verso la donna, capelli di un blu chiaro,
appariscenti ma, di certo, in perfetta armonia con i suoi abiti, che non
passavano inosservati. Punk.
Rimasi a fissarlo per un paio di secondi, poi
abbassai lo sguardo, facendo quasi un sorriso amaro, afferrando lo scambio di
battute tra i due. D’altronde, quale ragazzo fuggirebbe all’alba da una camera
d’albergo?
Sulle mie labbra una parola si era soffermata.
Compagno.
Cominciai a camminare verso l’ascensore, superando i due sulla
soglia, il viso basso ma, involontariamente, guardando il ragazzo. Incrociai il
suo sguardo, sorpreso e curioso come il mio. Ed, in quell’istante, però,
percepii la stessa amarezza della comprensione. Distolsi gli occhi, affrettando
il passo, che riecheggiava nel corridoio.
-Dormi ancora un po’, Rumiko. E
chiamami.
Sentii la sua voce dietro di me e, poco dopo, il chiudersi della
porta ed il suo seguirmi.
Chiamai l’ascensore ed entrai, poggiando la schiena
contro la parete. Lui entrò con me, premendo il tasto del piano terra.
Non mi
guardava, accendendosi una sigaretta e, sul volto, il sorriso che prima aveva
rivolto alla compagna era sparito.
L’espressione neutra del colpevole sul
viso. Pensai che anch’io, probabilmente, avessi negli occhi la stessa fasulla
indifferenza, ed abbassai il volto, fissando il pavimento.
Silenzio. Uno dei silenzi più
densi che avessi mai vissuto.
Ancora oggi non riesco a spiegarmi perché Shin
avesse attirato la mia attenzione.
Forse, si trattò solo di un sentimento
infantile, come quello di una bimba davanti ad un gioco nuovo e
speciale.
Shin, così vicino al mio mondo eppure così diverso, aveva un
fascino malinconico che.. non so. Sentivo di dover rispettare.
In quei cinque
minuti, nessuno dei due disse nulla, ed io ostinatamente tenni il volto
chino.
Quando le porte di metallo si aprirono di nuovo, feci in tempo solo ad
osservare la sua schiena allontanarsi.
Aspettai qualche secondo, facendo
scorrere la giusta distanza tra noi, prima di percorrere i suoi stessi passi ed
uscire dall’hotel, mischiandomi con la folla dei pendolari mattinieri, mentre io
avevo appena finito di lavorare. Allora pensavo davvero a quelle notti
come ad un lavoro.
C’è qualcosa di talmente in disgustoso in questo, però,
che a ripensarci ho il voltastomaco..
Mi diressi verso la metropolitana, e mi
ritrovai a penare a quel ragazzo.
Che stesse anche lui fingendo, tornando ad
una vita all’apparenza normale?
Scesi velocemente le scale, seguendo il
flusso di persone, e venni inghiottita dal buio sotterraneo.
Ero convinta che
non lo avrei mai più rivisto, anzi, lo speravo. Perché?
Sapere che qualcun
altro porta la tua condanna aumenta solo il suo
peso.
Eccomi qui! E' la mia prima fanfiction, siate clementi!
Io sono una fissata, in tutte le storie mentali che mi faccio (dette anche "filmini schizzofrenici".. sì, sono pazza xD) inserisco sempre un nuovo personaggio, più o meno tormentato (di solito tendo sempre al più). Ed ecco che è nata Yukiko!
Diciamo che può sembrare la solita storia (si incontrano, si innamorano, succede qualche casino e tutti vissero felici e contenti) ma, essendo dotata di una mente alquanto contorta, vi avviso che non sarà così XD
Uhm.. vediamo.. che altro aggiungere? Ah, sì: ritenendomi una nullafacente patentata votata alla disoccupazione, penso di aggiornare piuttosto spesso, anche perchè non vedo l'ora di arrivare ai punti salienti *-*
Per il resto, spero vi sia piaciuto questo capitolo e sarà così anche per i seguenti!
Bye ^^
ps: recensite se non volete avere sulla coscienza una carriera di fanfictionista (?!?) stroncata sul nascere!