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Autore: Glenda    30/09/2008    2 recensioni
Lethia Ballard fa l'investigatrice virtuale e viene ingaggiata da una potente corporazione per un incarico delicato: trovare e intrappolare uno scissista, ovvero un pericoloso hacker dotato di poteri esp, che riesce a vagare nella rete scindendo la propria mente dal corpo. Ma l'incontro con Kevin Lockport è diverso da come lo immaginava e l'uomo le rivela qualcosa di completamente inaspettato...Dove porteranno le indagini di Lethia? E cosa c'entra in questa faccenda di inganni e potere l'ingenuo ragazzo biondo uscito da un lungo coma, che fa l'antiquario in una bottega che pare fuori dal mondo e dal tempo? Giallo cyberpunk con elementi sovrannaturali. VERSIONE RIVISTA E CORRETTA DELLA FAN FICTION POSTATA LA PRIMA VOLTA NEL 2007.
Genere: Science-fiction, Sovrannaturale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Capitolo 10

 

Tutto intorno a lui era di un chiarore assente, non riusciva a vedere nulla, nemmeno se stesso, nemmeno le proprie mani: eppure le aveva stese avanti di fronte a sé per cercare di tastare qualcosa, di trovare anche un solo appiglio solido in quella vastità inconsistente.

Se il vuoto aveva un colore, doveva essere quello.

Ma non era spaventato. Era come se conoscesse già quella sensazione.

“Finalmente ci sei riuscito”

La voce non proveniva da nessuna direzione.

“Chi sei?”

“Sono Kevin”

“Perché non riesco a vederti?”

“Perché sono nella tua testa. Oh, scusami. Così suona retorico. Sono nell'impianto che hai nella testa: diciamo che mi ci sono nascosto per un po' ”

“Mi hai svegliato tu...”

“Probabile. Lo trovi un buono scambio?”

Dewy provò il desiderio di fare un gesto, di mostrare un'espressione. Non ci riuscì, ma fu come se per un attimo lo spazio attorno a sé vibrasse.

“Mi hai riportato qui! Mi hai restituito la mia vita, la mia famiglia! Mi hai dato una seconda occasione: non è uno scambio, è un dono! Ti devo la cosa più importante...”

“E allora, adesso ti chiedo di aiutarmi a fare l'unica cosa che è ancora importante per me”

“Dimmi solo in che modo, e lo farò”

“Prima di tutto devi imparare ad usare i miei poteri. Non puoi piombare in zeus a casaccio senza sapere che fare. E' pericoloso. Devi sapere come muoverti...”

“Scusa. Non so nemmeno cosa sia, Zeus”

“Non c'è bisogno che io te lo spieghi. Ascolta i miei pensieri e lo saprai. Io penso nella tua mente, Dewy. Sto vivendo nella tua testa. I miei pensieri possono passare a te come nulla fosse...devi solo essere meno teso, e smettere di credere che tutto ciò sia frutto di un tuo delirio. Devi pensare a tutto ciò che stai vivendo come se fosse più reale del reale”

La voce di Dewy tremò.

“...Non so nemmeno dove sono. Come può questo vuoto essere realtà?”

Le parole di Kevin risposero con una dolcezza rassicurante.

“Non c'è nulla di vuoto in Zeus. Sei esattamente dove ti va di essere. Devi solamente immaginarlo...”

Quasi d'un tratto, Dewy si accorse di essere seduto dentro un piccolo salotto del secolo precedente: il divano sotto di lui era comodo e la sua schiena vi affondava morbidamente. Con la mano sentì la consistenza della stoffa, le pareti erano decorate da carta da parati dai colori pastello, il tavolo rotondo, in mezzo, era di legno lucido e il sole che entrava abbondante dalla finestra lo divideva in due perfetti emisferi di luce ed ombra. In un angolo c'era una vecchia TV, con sopra una fila di quelle paperelle in ceramica col becco rivolto verso il basso. L'orologio ticchettava allegramente sopra la porta.

“Strani posti frequenti tu!” la voce di Kevin era fresca e scherzosa “Carino, però. Sarebbe piaciuto a Sen...”

Dewy si alzò e si guardò introno, affascinato. Adesso vedeva le proprie mani, il suo corpo, e riusciva a muoversi normalmente. Cominciò a sentirsi a proprio agio.

Poi lo colse un pensiero.

“Lethia! Io devo trovare Lethia!”

A quelle parole, senza che egli avesse compiuto alcun gesto, la porta si aprì, mostrando un lungo corridoio vuoto.

La voce di Kevin si alterò.

“Lethia? Quella bastarda della Wepi? Cosa hai a che fare con lei?”

Stavolta Dewy riuscì a percepire distintamente i suoi pensieri: o forse non erano i suoi pensieri, era il suo istinto, la sua emotività. Se ne sentì colpito, quasi invaso. Gli diede una strana sensazione e si portò una mano allo stomaco.

“Roba così dovrebbe stare nella pancia, non nella testa” mormorò, turbato “Sei nella mia testa o nella mia pancia?”

“Ehi, non scherziamo, rispondi alla mia domanda!”

Dewy seguì la sua riflessione, assorto, e ignorò l'urgenza che sentiva premere dentro di sé.

“Forse sei un fantasma, Kevin...e puoi parlare con me perché sono stato un fantasma anche io...”

“Maledizione, Dewy! Non ho tutto questo tempo!”

Il ragazzo si riscosse e si diresse verso la porta

“Allora andiamo a salvare Lethia”

Un dolore acuto gli attraversò la testa: uno spasmo di rabbia, frustrazione, angoscia.

“QUELLA PUTTANA MI HA UCCISO LA SECONDA VOLTA!”

Il grido di Kevin era sinceramente disperato

“Non sarei qui, se non mi avesse intrappolato per consegnarmi alla Omega! Non avrei avuto bisogno di te!”

Dewy rimase immobile davanti al corridoio nero. Lo fissò. D'un tratto nel corridoio si sollevò un volo di coccinelle impazzite: una danza di gocce di sangue che aveva una macabra e straziante bellezza.

“Allora anche a lei devo l'essere vivo” fece Dewy, grave “Ma lei, invece, non è viva. E' molto meno viva di te. Io l'ho sentito, e sono stato triste per lei: perché se sei così poco vivo non puoi fare proprio niente...”

“A fare del male a me ci è riuscita benissimo!”

“Kevin...” la voce di Dewy ora era calma e dolcissima “Kevin. Sei nella mia testa. Sei nei miei pensieri. Lo hai detto tu, no? Non pensare come penseresti tu...prova a sentire come sento io. Lo puoi fare, vero? Sono sicuro di poterti trasmettere questo, di poterti far percepire questa certezza: Lethia non vuole fare del male a me. E finché sarai qui..non vorrà farne nemmeno a te...”

Dewy fece un passo nel corridoio. Le coccinelle cessarono il loro turbinio frenetico ed una di esse andò a posarsi sulla sua spalla. Poi il corridoio divenne luminoso, e si distinsero chiaramente porte, svincoli, direzioni.

“Kevin...sei stato tu?”

La voce di Lockport gli risuonò vicina, come se, per una volta, anche lui avesse posato la mano sulla sua spalla.

“Tu sei incredibile, sai? Hai sentimenti che non riesco a capire...Che non so neppure immaginare possibili. Eppure li sento: sono veri. Non so come tu sia sopravvissuto in un mondo del genere. Come il mondo non ti abbia già fatto a pezzi. Ma essere nella tua testa è una bella sensazione”

“Mi aiuterai?”

“Ti dirò tutto ciò che devi fare. Ma ricorda che lo scissista ora sei tu: io sono solo una voce guida nella tua mente. La localizzeremo e vedremo che si può fare. Ma giuro che se quella stronza ci frega...”

“Non lo farà” Dewy sorrise, sicuro di sé.

“Ok. Non lo farà. Adesso apri la seconda porta che vedi sulla destra”

 

Lethia non sentiva più dolore: era come se la mano non le appartenesse più.

Abbandonata in un angolo di quella cella, con le braccia pesanti lungo il busto, si chiedeva da quante ore fosse lì dentro.

Avrebbe voluto provare qualcosa: rabbia, o paura, o anche solo sentire il suo cuore battere più forte, il suo respiro sussultare. Invece le sembrava che il suo corpo fosse un involucro abbandonato, gettato lì per essere buttato via.

Da quando si era ridotta così?

Da quanto tempo non soffriva e non gioiva più?

Non se lo era mai chiesto davvero.

L'ultima volta che era finita in galera, aveva pensato “chissenefrega, la mia vita non cambierà granché”. Quando la Omega l'aveva tirata fuori si era detta “bah, vediamo cosa ne cavo, non ho niente da perdere”...e via così, se cercava di ricostruire i suoi sentimenti andando indietro agli eventi principali della sua vita. E gli stessi pensieri si affacciavano freddi nel suo cervello anche adesso.

Forse Dewy Hollis era stata la sola persona a vederli.

Forse per questo aveva finito per commettere un errore per proteggerlo, senza neppure conoscerlo.

Aveva tradito l'azienda, e questo voleva dire tradire anche se stessa.

Ma, pensandoci bene, una come lei l'avrebbe tradita volentieri, se l'avesse incontrata in un'altra vita.

Una come lei non era una persona che si desiderava avere come amica.

Avvertì un formicolio alla tempia e cercò di muovere la mano sana per grattarsi la testa.

La sua coccinella era sempre lì.

Probabilmente non avevano neppure pensato che fosse il suo accesso a Zeus. Chi poteva mai inventarsi una cosa tanto stupida? A mala pena una bambina...

A quell'idea sorrise. Ladybird era l'unico pezzo di leggerezza che le era rimasto addosso. Magari era questo che significava “portare fortuna”.

La porta si aprì.

Senza dire niente, due uomini la sollevarono quasi di peso e la trascinarono in un'altra stanza.

Lei non disse niente.

Il posto ricordava la sala interrogatori di un commissariato: quel giorno lo ricordava bene, l'agente che l'aveva interrogata aveva gli occhi azzurri e lei aveva pensato per un attimo che fosse un bell'uomo, che il suo viso fosse rassicurante e le sarebbe piaciuto che quelli fossero gli occhi di suo padre. Ma poi si era vergognata così tanto di quel pensiero che gli aveva sputato in faccia.

Non lo aveva più rivisto.

“Adesso dobbiamo parlare, signorina”

Davanti a lei non si era seduto nessuno, si era solo materializzato l'ologramma del signor Adrianov. I due che l'avevano portata lì stavano immobili ai suoi lati, come due guardiani di pietra.

“Cosa volete che vi dica? Avete dimostrato di non fidarvi di me nel momento stesso in cui mi avete fatta seguire durante le mie indagini”

“Non mi prenda in giro. L'abbiamo sorpresa a casa delle persone che avrebbe dovuto catturare”

La tranquillità glaciale con cui Adrianov le parlava faceva più paura della violenza, non perché lo temesse, ma perché le pareva di riflettersi in uno di quegli specchi deformanti, che ti rimandano un'immagine che sei tu e non sei tu.

Non voglio diventare questo. Sono veramente così anche io?

“Dovevo cercare Kevin Lockport!” esclamò, perdendo per un attimo il controllo ed arrossendo in tutto il volto “E LUI NON E' KEVIN LOCKPORT!”

Non lo era. Non lo era.

Questa era la verità.

Lui era Dewy: il ragazzo più dolce e improbabile che le fosse mai capitato di incontrare, Il primo a cui aveva desiderato confidarsi, e che, con tanta naturalezza, aveva stemperato il suo dolore con un paio di timide frasi sulle riproduzioni di oggetti antichi.

Adrianov sorrise con un solo lato della bocca.

Di quale Lui sta parlando? Dell'antiquario Abrham Hollis? O di suo figlio? Che c'è, ha un debole per i vecchi o preferisce i ragazzini?”

Lethia lo guardò con occhi di fuoco.

NON E' Kevin Lockport” ripetè “Non sa nemmeno di esserci entrato, nel vostro sistema. E non ha nessun interesse ad entrarci ancora. Se mi aveste permesso di trovarlo e di parlargli, avrei risolto io il problema!”

AVREBBE RISOLTO IL PROBLEMA? Questo non è un suo “problema”, signorinella: è un problema della ditta! Il tuo compito era solo scaricare la mente di Lockport su un supporto: e se il “supporto” non è un disco SK ma un ragazzetto di periferia, non fa differenza!”

La mano di Lethia ricominciò a fare male, la sentiva pulsare forte, desiderò serrarla a pugno, e scagliarla forte contro qualcuno o qualcosa, come se solo un gesto simile potesse far smettere il dolore.

NON FA DIFFERENZA? Un essere umano non fa differenza da un insieme di circuiti..?”

Che stava dicendo? Da dove scaturivano quelle frasi? Quali erano i pensieri che stavano alle loro spalle, e che la facevano sentire fiera di parlare così? Solo qualche tempo prima, di fronte a Kevin Lockport, aveva sostenuto che niente di questo aveva importanza. “Non si fanno domande sul lavoro”, aveva detto. E lui...l'aveva supplicata in nome della coscienza! Da quale momento Lethia Ballard, l'agente della WePi, la carrierista devota all'azienda, parlava con coscienza? Forse da quando un ragazzino biondo le aveva fatto un regalo? O da quando era entrata in quella casa antica, saltando fuori dal tempo? O ancora prima, quando lui aveva sorriso e aveva detto “sono qui, sono vivo: non è fantastico”?

Ora, lei era lì.

Ed era viva.

Poteva proteggere quel sorriso limpido come un cristallo.

Si sentì felice.

Vaffanculo” disse.

Adrianov socchiuse gli occhi con gravità.

“Lei è stata proprio stupida, Lethia Ballard. Se avesse fatto le cose per bene, adesso noi ci occuperemmo dello scissista, e lei avrebbe avuto il suo compenso e se ne starebbe tranquilla a casa sua. Invece ha voluto fare di testa sua, e adesso...”

Non concluse la frase. La stanza si riempì d'un ronzio assordante e l'immagine olografica si dissolse.

Le luci si spensero, solo quella d'emergenza cominciò a lampeggiare, poi frizzò, gemette e saltò in aria.

Che cazzo succede!?” gridò uno dei due sorveglianti, mentre l'altro afferrava le spalle di Lethia nell'oscurità.

La porta della stanza si spalancò, gli allarmi suonavano da luoghi indefiniti, ladybird sembrava vibrare, come se davvero sbattesse le piccole ali rosse tra i suoi capelli.

Lethia si piegò con tutte le forze in avanti, sbilanciando l'uomo che la tratteneva. L'altro estrasse la pistola, ma nel buio completo il colpo andò a vuoto.

Idiota, che cazzo fai!”

“Pensa alla donna, deficiente!”

Lethia si lanciò verso la porta, la attraversò, la sentì chiudersi alle sue spalle come per magia.

Corse nel corridoio buio, corse e corse senza sapere dove stava andando.

Le paratie si aprivano al suo tocco, si richiudevano dietro di lei: la strada le si srotolava sotto, le diceva di andare, andare, andare...

Un portellone si aprì sulla luce del giorno: sotto di lei c'era una scogliera, ed il lamento del mare che rotolava, minaccioso, affascinante.

Lethia fece un passo indietro.

Poi chiuse gli occhi, prese la rincorsa e si tuffò.

  
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