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Autore: Sylence Hill    14/09/2014    2 recensioni
Londra, 1835
Rachel Williams è un topo di biblioteca, sempre china con il naso infilato tra i libri. Ragazza di buona famiglia, con un padre fatto da sé e una madre che insiste sul matrimonio, ha un cuore buono e gentile, che ama incondizionatamente.
Ma è anche caparbia e testarda, che vuole affermare a quel mondo che tiene conto solo le apparenze che una donna può essere più che una semplice decorazione per la casa del futuro marito.
Non ha fatto i conti, però, con quello che il destino - al quale non crede - ha deciso per lei. 
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Genere: Romantico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Rachel Williams POV
 
Il freddo era arrivato alle ossa, sembrava quasi volerle spezzare con i suoi artigli gelati. I denti rischiavano di spaccarsi talmente li battevo, e il corpo non smetteva di tremare.
Il viaggio in carrozza mi parve infinito. Solo scossoni, curve a gomito, improvvise frenate e ancora daccapo.
Nella mia testa ripetevo, come una preghiera, di resistere, di stringere i denti e aspettare. Ero assolutamente sicura che a quell’ora i miei genitori si fossero ormai accorti della mia scomparsa e avessero subito chiesto alle autorità di cercarmi. Mi fidavo dei miei genitori, la certezza che mi amassero era un appiglio in tutta quella sciagurata sventura che mi permetteva di tenere duro.
Dal finestrino mezzo abbassato la neve continuava a cadere bagnando il pavimento della carrozza e le mie scarpette di raso imbottite. Per fortuna erano ancora asciutte al loro interno, mantenendo calde, per così dire, le punte dei piedi, anche se non sentivo niente, per colpa dei lacci alle caviglie.
La testa sbatacchiava avanti ed indietro e il fondoschiena era ormai congelato.
Finalmente, dopo quello che parve un tempo infinito, la carrozza si fermò con un forte grido del conducente. Il mio corpo di accasciò al suolo. Ero completamente priva di forze.
Con gli occhi socchiusi, vidi lo sportello della carrozza aprirsi e il mio rapitore fare capolino. Grugnendo qualcosa, allungò le braccia e afferrandomi i piedi mi tirò verso lui.
La paura mi invase, ma la debole protesta non servì a molto, poiché il rapitore mi afferrò per la vita e mi issò sulle sue spalle. Il gelo all’esterno del piccolo abitacolo mi colpì il viso come uno schiaffo, restituendomi un minimo di lucidità.
Alzando la testa di qualche centimetro, lanciai un’occhiata in giro. Eravamo nel bel mezzo del nulla, una immensa distesa di neve e fanghiglia, alberi morti e nebbia.
La disperazione e la paura fecero capolino della mia mente, ma mi costrinsi a ricacciarle indietro. Non avevo assolutamente tempo da perdere in piagnistei.
Dovevo restare cosciente, dovevo cercare di lasciare qualcosa che potesse permettere alle autorità di farmi trovare, ma cosa?
Le scarpe. Erano una possibilità. Dovevo sfilarle, ma senza farmi scoprire.
Il rapitore mi fece cadere poco elegantemente sulla groppa di un cavallo baio, nero come il padrone. Un dolore sordo mi esplose nelle costole quando queste urtarono il dorso dell’equino, togliendomi quel poco di fiato che avevo in corpo.
Il rapitore tirò fuori dalla sacca legata al fianco del cavallo una corda robusta che legò strategicamente intorno ai miei poveri polsi martoriati, intorno alle caviglie e infine in un gancio dietro la sella, probabilmente messo lì di proposito.
«Così non tenterai niente di avventato.» grugnì.
Non c’era pericolo, avrei voluto dirgli ma mi trattenei. Dovevo cogliere l’occasione per far lasciar cadere una delle scarpe.
L’occasione si presentò quando l’uomo si allontanò spostando la carrozza sul bordo della strada. Solo allora mi accorsi che accanto alla via di campagna scorreva un fiume, per altro impetuoso.
Lui tirò i cavalli nascondendomi per una decina di secondi alla sua vista, il che mi permise di agire. Mi contorsi, cercando di riprendere sensibilità ai piedi, mossi le dita tentando di sfilarle dalla pianta.
Per fortuna – o sfortuna, a seconda dal punto di vista – avevo le scarpine di raso senza nastri alla caviglia, facili da togliere.
Con il cuore in gola per la paura di essere presa, feci dondolare leggermente la scarpina sulle dita flesse e quasi insensibili, per darle la spinta e le gettai dall’altra parte del cavallo, che sentendomi agitata, scartò nervoso.
Questo richiamò l’attenzione dell’aguzzino. Ringraziai mentalmente Madame Rosette per aver voluto allungare l’orlo del vestito, rendendomi facile il compito di nascondere il piede incriminato sotto lo strato di raso. Si sporse al di sopra del dorso del cavallo che aveva davanti, ma ritenendo che non ci fosse niente di strano, si limitò a grugnire, con quella voce distorta dalla maschera: «Non fare mosse false, ragazzina. Non sono dell’umore adatto.»
Stranamente però, in quel frangente, il suo accento non mi parve quello dei bassi fondi, ma quello appartenente alla classe agiata.
Ma forse mi ero sbagliata. Per quale motivo un lord dovrebbe compiere atti del genere? Che genere di tornaconto poteva trarre dal trattare in quel modo barbaro una signorina di buona famiglia? Anche se, riflettei poi, avevo sentito alcune storie raccapriccianti su alcuni membri dell’alta società, storie di depravazioni, vizi, perversioni talmente raccapriccianti da far ribrezzo.
Che fosse anche il mio rapitore facesse parte di quella cerchia di uomini deviati?
Certe volte, mi stupivo di quello che l’animo umano fosse in grado di compiere, con la leggerezza pari a quella di alzarsi la mattina dal letto.
L’aguzzino tornò e mi accorsi, con orrore, che la carrozza era sparita dalla strada, finendo nelle acque torbide del fiume. A pensare che pochi minuti prima lì dentro c’ero io, mi si strinse la gola, ma mi costrinsi a rimanere lucida. La logica era la sola cosa a cui potessi aggrapparmi per non soccombere a quella tortura.
Oltre al pensiero di un paio di occhi di diamante.
Chissà se anche McHeart si era accorto che ero sparita. Dovevo ammettere che il pensiero che quell’uomo così misterioso e affascinante fosse preoccupato per la mia salute tanto da mettersi a cercarmi mi risollevava leggermente l’animo e le speranze.
«Ancora poco, mia bella fanciulla, e poi saremo a casa.»
La voce del suo aguzzino mi fece trasalire. Tremavo come una foglia, il freddo ormai compagno del sangue nelle vene. Lanciai un’occhiata alla scarpina, a pochi passi dal cavallo, già coperta da un leggero strato di neve, che sperò potesse coprirla tanto da non rivelarla all’aguzzino, ma che potesse essere trovata da altri.
Se l’avessero trovata…
No, niente pensieri negativi, mi dissi. Chiunque fosse sulle mie tracce, perché sicuro come il sole che sorge ad est, la stavano cercando, e avrebbero trovato la scarpina.
L’avrebbero trovata. Mi avrebbero trovata.
Dio, fa che sia così.
 
*   *   *
 
Gabriel McHeart POV
 
Tutto sommato non faceva poi tanto freddo, si ritrovò a pensare. Mentre cavalcava incontro alla neve candida, considerò che gli inverni nelle Highlands erano molto più freddi di così.
Stretto nel suo mantello foderato di pelliccia, Gabriel e Alarik divoravano metri e metri di strada sterrata coperta da neve sudicia. Non avevano ancora fatto alcuna sosta, sia per motivi di tempo sia perché entrambi gli uomini avevano una buona dose di resistenza dalla loro. Entrambi avevano sopportato di peggio e il freddo era tra questi.
Grazie ad Alarik, assolutamente portato nel seguire le tracce, anche quelle più invisibili, erano riusciti a trovare una pista. Si stavano dirigendo verso Suthen-on-sea, località che non gli era estranea. Aveva già sentito quel paese: era un porto nel sud-ovest dell’Inghilterra, dove si diceva fosse stato visto l’ultima volta il rapitore delle fanciulle di buona famiglia.
Ad ogni iarda, Gabriel era sempre più sicuro che Rachel Williams avesse subito lo stesso destino delle altre. Ma questa volta, il mostro aveva sbagliato.
Perché, fino a quel momento, non aveva ancora fatto i conti con lui.
Il solo pensiero che la ragazza dagli occhi verde-nocciola fosse nelle mani di quel depravato, scatenava le peggiori ire dell’uomo, risvegliando un istinto freddo e crudele che prometteva vendetta spietata.
«Aspetta, Gabriel.» gli disse Alarik, fermando bruscamente il suo stallone.
«Che succede?» gli domandò l’uomo, tornando accanto al suo amico.
«Le tracce.» rispose l’altro scrutando attentamente il terreno. Il suo viso era mortalmente serio. «Sembra quasi che abbia cambiato strada.» mormorò. «Ma non c’è alcuno svincolo.»
«Dove conducono le tracce?» gli chiese Gabriel.
Il sioux gli lanciò un’occhiata penetrante, poi spostò lo sguardo alle sue spalle. Gabriel sentì un brivido corrergli lungo la schiena, mentre si voltava.
Il fiume impetuoso, ingrossato dalla neve e dalle piogge, sibilava minaccioso, dando l’impressione che le sue fredde acque potessero straripare da un momento all’altro.
«Non può essere.» rifletté Gabriel ad alta voce. «Non è così che agisce il mostro.»
«Si può sempre cambiare idea.» gli disse con voce roca Alarik.
«Non lo ha fatto.» insistette Gabriel. «Me lo sento nelle ossa. Non ha cambiato piani.»
Aveva detto il vero. Dentro di sé, sentiva che la giovane Williams era ancora viva, che non era stata gettata nelle acque gelide del fiume.
«Cerca meglio.» disse ad Alarik.
«Non serve.» disse questi, con lo sguardo fisso sul terreno, poco distante dalle zampe dello stallone.
Gabriel smontò da cavallo, le caviglie affondarono di pollici nella neve, e aggirò Alarik, ancora in sella, seguendo la linea del suo sguardo.
Lo notò quasi subito. Un debole balugino, qualcosa di scintillante colpito dalla debole luce lunare, spuntata poco tempo addietro. Si accosciò, spazzolando la neve fino a ritrovarsi con la punta di una scarpetta di velluto tra le dita.
Erano piccole, bordate di piccoli cristalli dorati.
Seppe istintivamente che erano di Rachel Williams, perché erano dello stesso colore del suo abito.
Un tremito di paura gli attraversò la schiena, ma lo represse con una scrollata di spalle, richiamando a sé il demone della vendetta. Il bastardo avrebbe pagato, se le avesse torto anche un solo capello.
«Da che parte?» chiese ad Alarik, rialzandosi.
Il Sioux, smontato dietro i lui, scrutò il terreno con occhi affilati e attenti come quelli di un falco. Seguiva ogni piccolo cambiamento nella natura circostante, individuando ogni minimo sbafo nel quadro naturale. S’incammino lentamente oltre Gabriel, accosciandosi nella neve macchiata di terra, si tolse i guanti di pelle e affondò le dita in quella poltiglia per poi tirarle fuori e sfregarle tra loro.
Socchiuse. «La terra è stata smossa. Intorno il terreno e compatto e ghiacciato, ma qui e poco più in là, è scomposta e molle. Qualcosa o qualcuno ci è passato sopra.» Si voltò a guardare Gabriel. «L’ha portata fuori strada, probabilmente con un cavallo.» Guardò davanti a sé e indicò con il mento dicendo: «Probabilmente in quella foresta morta.»
Gabriel lanciò un’occhiata alla suddetta foresta, osservando gli arbusti rinsecchiti e privi di foglie, protesi verso l’altro, come un mare di mani scheletriche che invocavano la pietà di Dio.
Ma Gabriel non avrebbe avuto pietà, a costo di buttare giù ogni singolo arbusto pur di trovare la ragazza.
«Andiamo.» spronò il suo compagno e rimontò in sella, con un agile movimento.
 
Rachel Williams’s POV
 
Riemersi dalle ombra in cui non sapevo di essere piombata quando il mio aguzzino mi scarico malamente su un materasso, sottile e dall’odore sgradevole, come un sacco di patate. Non ebbi neanche il tempo di guardarmi intorno per capire dove fosse, che quello uscì dalla stanza, sbattendo la porta. Sentii il suo di un paletto strisciare, andando a chiudere la porta. Non avendo finestre, la stanzetta piombò nel più assoluto buio, fatta eccezione per un fioco bagliore che entrava dalla fessura al disotto della porta, sconnessa al terreno.
Anche se non ero più all’aperto, il gelo era comunque penetrato dalle mura sottili. Il mio corpo era scosso da tremiti sia di freddo e di paura. Mi rannicchiai per quanto pi era possibile sul materasso, pregando che qualcuno venisse al più presto a liberarmi. Fino ad allora, però, dovevo stringere i denti.
Non ero mai stata un persona debole e non lo sarei diventata proprio ora che avevo bisogno dei nervi saldi per sopravvivere a quella terribile esperienza.
Una risata gutturale, assolutamente sgradevole e spaventosa, filtrò attraverso la spessa porta di legno, raggelandomi.
«Bella signorina.» lo sentii ridacchiare. «Prega e spera. Non uscirai mai da qui. La tua nuova casa, la tua nuova vita, la tua prigione sarà questa. Nessuno verrà a prenderti. Nessuno sentirà la tua mancanza. Non riusciranno mai a trovarti. Rimarrai qui, con me.»
Battevo i denti, mentre quella voce orribile, macabra, mi raggiungeva. Chiusi gli occhi, scuotendo la testa. Non dovevo farla entrare nella mia mente, dovevo respingerla. Il problema però era costituito dall’oscurità. Non avendo appiglio visivo, qualcosa su cui concentrare la mente, questa veniva subissata dalle sgradevole parole del mio aguzzino, imprimendosi a fuoco, rimbombando nelle orecchie.
Non aveva mai avuto tanta paura del buio come in quel momento.
«Tra poco ti porterò la tua cena.» Rise di gola, ripugnante. «Mi divertirò tanto a costringerti a ingoiarla, mi divertirò a stringerti il collo, solo per il puro piacere di vedere come questo ti si ferma in gola, traboccando dalle guance, soffocandoti.»
Un’ondata di nausea mi contorse lo stomaco alle immagine che quel maledetto m’impiantava in testa. Alzai le ginocchia e le avvolsi con le braccia, affondandovi la faccia. Dovevo resistere.
La sua risata sgradevole riempì l’aria, imputridendola. «Ancora poco, mia bella, e poi sarai mia.»
La voce si spense insieme alle sue risa stomachevoli.
«Ancora poco.» mi ripetevo. «Solo un altro po’.»
Dovevo resistere. Sapevo che stavano venendo a salvarmi. Dovevo solo tenere duro un altro po’.
 
Gabriel McHeart’s POV
 
La foresta di alberi morti non era peggio di come si era aspettato. Con la neve che aveva ripreso a cadere, purtroppo, cavalcare risultava problematico. Non c’era una singola scintilla di luce che permettesse loro di scorgere il più vago esempio di rifugio. Per cui erano costretti a cavalcare lentamente, a ponderare ogni singolo passo dei loro cavalli, cercando di evitare ogni possibile, ogni singolo ramo spezzato, ogni masso difficile da individuare con il terreno coperto di neve.
Nessuno dei due parlava, troppo concentrati per perdere tempo in chiacchiere ed  proprio il tempo era quello che mancava. I pensieri di Gabriel non avevano freno. Continuava a rimuginare sulle possibili condizioni in cui la giovane Williams potesse trovarsi. Si chiedeva se stesse bene, se quel mostro le avesse fatto del male: in quel caso ci avrebbe pensato lui a restituire il favore a quel bastardo. Si chiedeva se stesse soffrendo il freddo o la fame. Pregò – lui, che non aveva l’abitudine di rivolgersi al Creatore nelle situazioni più disperate – perché arrivassero in tempo per impedire che avvenisse il peggio.
«Gabriel.» si sentì chiamare da Alarik.
Si voltò verso il sioux con un’espressione interrogativa. Il compagno si era fermato vicino ad un albero ed era sceso da cavallo.
Seguì il suo esempio e lo raggiunse. «Cosa hai trovato?» gli chiese subito.
Il compagno raccolse qualcosa da terra e glielo mostrò. Era un rametto spezzato, abbastanza lungo da raggiungere il sentiero che stavano percorrendo, ma troppo sottile da non resistere all’impatto contro qualcosa di solido.
Era stato spezzato da qualcosa.
E con tutta quella neve, il sioux lo aveva scorto. A volte, in situazioni come quella, Gabriel provava una sensazione di timore e rispetto per il suo amico.
«Siamo sulla strada giusta.» gli disse. «Andiamo.»
Rimontarono velocemente a cavallo e proseguirono. Il vento gelido continuava a soffiare su di loro, risuonando minacciosamente tra i rami degli alberi morti, creando un sottofondo macabro e deprimente.
Ma entrambi gli uomini avevano attraversato situazioni peggiori e ne erano usciti vivi, per cui quella era pressoché una semplice passeggiata nel bosco.
Avevano trovato un indizio che quella era la direzione giusta e quel segno di positività significava che Dio o una qualche divinità indiana era dalla loro parte.
La troveremo, la troveremo, risuonava nella testa di Gabriel. Era un mantra di cui aveva bisogno e di cui non poteva fare a meno. Perché il pensiero che fosse capitato qualcosa di ancora peggio alla giovane Williams era praticamente insopportabile.
 
Rachel Williams’s POV
 
Il mostro non era ancora tornato. Una fortuna per me, ma la paura folle che serpeggiava lungo la mia schiena era un segnale oltremodo significativo che era al limite delle mie forze. Questo, sommato al freddo, alla fame e alle condizioni precarie in cui mi trovavo non faceva che aumentare la mia sfiducia.
In quella stanzetta buia, i pensieri più cupi giocavano con la mia mente, arrivando quanto meno l’aspettavo e abbassando considerevolmente le mie speranze. Non avevo la benché minima idea di quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che avevo visto una debole luce, sia reale che metaforica, forse un giorno, forse pochi minuti, ma un abbattimento mi stava premendo sulle spalle.
Dei passi sinistri risuonarono nell’aria stantia della stanza, passi rimbombarono sul pavimento di legno marcio.
Il mostro è qui, pensai, mentre brividi di freddo scuotevano il mio povero corpo privo di forze.
Lo sentii sbattere la porta d’ingresso e strisciare del paletto di legno che la bloccava. Qualcosa di pesante cadde a terra con un tonfo soffocato e la voce roca del mostro borbottare qualcosa, forse un’imprecazione a giudicare dal tono. Il vento filtrò attraverso la porta, infilandosi sotto i miei vestiti ormai umidi e gelati.
Pregavo con tutte le sue forze che il buon senso avesse la meglio sulla paura, perché in quel momento le mie speranze si stavano affievolendo sempre di più. Non avevo idea di quanto tempo fisse passato, ma avevo l’impressione che le lancette del tempo si fossero fermate al momento del mio rapimento, che tutto fosse immobile al di fuori della catapecchia in qui era rinchiusa e che nessuno si fosse accorto della mia sparizione.
Le mie elucubrazioni vennero interrotte dallo strusciare del legno su legno. Il mostro stava aprendo la porta.
«Eccomi tornato, bellezza.» berciò. Entrò nella stanza tirandosi dietro un sacco all’apparenza molto pesante. Doveva essere stato quello a produrre il tonfo che avevo sentito. «Ti ho portato un regalino.»
Detto questo, socchiuse la porta, lasciando solo una lama di fioca luce a penetrare l’oscurità un cui piombò la stanza.
Sentii il fruscio del sacco che veniva aperto e… qualcosa di né troppo pesante ma tanto leggero mi venne lanciato in grembo. Sulle prime pensai che fosse un pezzo di pane, ma non aveva la forma di una pagnotta e poi, puzzava di rancido, come se fosse… putrido.
Un brivido di orrore mi scosse tutta, mentre titubante alzavo la mano per tastare ciò che avevo addosso… e infilai le mani in una pelliccia ispida e umidiccia.
Con un urlo di terrore, mi alzai di scatto, scuotendomi le gonne per lanciare per liberarmi da quel peso infausto. Il corpo venne tagliato a metà dalla luce della porta e un paio di occhi vuoti e una smorfia di terrore distorcevano il muso macchiato di sangue di un gatto.
La sua risata maligna, macabra, disgustosa mi raggiunse, mentre arretravo nell’angolo della stanza. Lacrime di paura e raccapriccio mi correvano lungo le guance.
«Ti piace il mio gattino?» le chiese in un mormorio roco. «Non sapevo se fartelo conoscere o meno, ma ho pensato che forse fossi il tipo da amare gli animali.» Passi. «Sai, lo incontrato qualche giorno fa. Arrancava sulla neve. Aveva fame. Gli ho dato un pezzettino di pane… intriso di un veleno capace di paralizzare il corpo… e poi mi sono divertito a farlo a pezzi. A tagliuzzarlo, a vedere il sangue che scorreva lungo il suo pelo grigio, a vedere la luce abbandonare i suoi occhi… proprio come adesso farò con te.»
Mi si avventò addosso, afferrandomi per le spalle, spingendomi a terra. Presa dal panico, cominciai a scalciare, impacciata dalle gonne. In quel momento odiai il fatto di essere donna. Il mostro, mi salì a cavalcioni, impedendomi di muovere le gambe ulteriormente.
«Sì, lotta… combatti disperatamente. La resa sarà ancora più soddisfacente se conquistata con fatica.»
Sentii distintamente il sibilo di una lama liberata dal fodero.
Il terrore scorreva nelle vene al posto del sangue, mentre una scarica di energia mi dava la forza di scalciare e agire le braccia nella speranza di colpirlo, di togliermelo di dosso.
La lama fredda e piatta sfiorò la base del collo. M’immobilizzai nella spaventosa prospettiva di morire sgozzata in quella catapecchia, in balia di un mostro senz’anima come quello.
«Ah…» sospirò il mostro, mentre faceva scorrere la punta acuminata lungo la giugulare, applicando una piccola pressione. Sul collo percepii il bruciore della puntura non tanto profonda che mi procurò. «Che calore… e che profumo…»
Parole senza senso che mi facevano tremare ancora di più.
Dovevo stare calma, un movimento sbagliato e quel pazzo poteva tagliarmi la gola. Non volevo morire, non in quel modo squallido.
«Il collo più bello che abbai mai visto da un po di tempo a questa parte.» disse, spostando la lama nell’incavo dei seni. Il vestito si era spostato verso il basso nella colluttazione e poco mancava che balzassero fuori dalla scollatura.
Allora un pensiero ancora più terribile mi attraversò la mente, un’azione che temevo ancora di più della morte. Sussultai dal ribrezzo. Se lo avesse fatto, se mi avesse… giurai sulla mia anima che se quel mostro mi avesse violentata lo avrei ucciso con le mie mani.
Io, che di carattere sono mite e poco incline alla violenza, avevo dentro una voglia di togliere ad un altro essere umano il suo bene più prezioso.
Il coltello tagliò i lacci davanti al vestito, mettendo in mostra la camiciola macchiata che portavo al di sotto del corpetto.
Pure spirali di ripugnanza mi avvolsero quando la mano sudicia dell’uomo sfiorò la mia carne, stringendola tanto da farmi i lividi.
«Ho fatto proprio un bel lavoro.» si complimentò con se stesso, mentre un ginocchio di faceva largo a forza tra le mie gambe strette. «Credo proprio che mi godrò il tuo piccolo, puro corpo per un po’, giocare con questa carne così tenera e morbida…»
Per fortuna che l’ammasso di gonne mi proteggeva, quando il ginocchio si fece più pressante. Conati mi contrassero lo stomaco, che essendo vuoto, mi faceva ancora più male.
Una strana passività mi pervase, il mondo divenne sfocato, il corpo leggero. Decisi che se doveva accadere, allora io avrei fatto in modo di non dare a quel mostro di controllarmi completamente. La mia mente sarebbe stata mia: che facesse male al mio corpo potevo anche sopportarlo, ma non mi sarei fatta trasformare in un vegetale.
Sarei rimasta mentalmente integra, in modo tale da avere il controllo più freddo e calcolatore quando lo avessi ucciso.
Perché lo avrei fatto.
Lo giuro.
Il mostro lasciò andare il seno all’improvviso, mentre si alzava di scatto e si voltava verso la porta, il coltello puntato. Non gli prestai attenzione più di tanto, mentre mi rannicchiavo su me stessa, proteggendomi per quanto potevo.
Poi il mostro imprecò pesantemente e andò di corsa nell’altra stanza: la luce che vi proveniva si spense. I passi felpati dell’uomo si avvicinarono di nuovo, mi afferrò bruscamente per le braccia e mi sbatté al muro, legandomi in fretta mani e piedi, infine avvolgendomi un bavaglio intorno alla testa.
Fu allora che lo sentii.
Calde lacrime di sollievo presero a scorrermi lungo le guance e il mio povero corpo affaticato fu scosso da singhiozzi, mentre lo scricchiolio di passi sulla neve di fece più vicino.
  
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