Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: Tomi Dark angel    15/09/2014    4 recensioni
Tratto dalla storia:
Sequel di: "How To Train Your Sherlock"
Tratto dalla storia: "Questa è Londra, il segreto meglio custodito di questa parte di… be’… nulla. Sì, forse non sarà il massimo della bellezza, ma questo mucchio di rocce e palazzi riserva un bel po’ di sorprese. La maggior parte della gente di solito ha passatempi come leggere o sferruzzare caldi maglioni invernali. Noi invece, preferiamo fare una cosa che ci piace chiamare… CORSE DI DRAGHI!!!"
Johnlock, con accenni di Mystrade. Dedicato a chi impara, cresce e vive leggendo, figlio di innumerevoli mondi e personaggi che, ad ogni parola accarezzata dagli occhi di chi legge, sbocciano tangibili intorno all'anima del lettore per trascinarlo in avventure mozzafiato che egli saprà custodire in eterno nella purezza del proprio cuore.
Genere: Fantasy, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Noah non ha mai amato la solitudine. Ha conosciuto bene ogni suo aspetto, ne ha testato personalmente gli effetti, ha toccato con mano l’amara carezza del silenzio mortifero che solo l’assenza di una gentile compagnia saprebbe dare. Per lunghi anni, è sopravvissuto da solo, appellandosi alle sue uniche forze di cucciolo abbandonato: ha imparato a cacciare, a volare, ad andare avanti senza piegarsi a niente. Il mondo l’ha sottoposto alle prove più dure, e lui è andato avanti, figlio di quella solitudine che ha sempre detestato.
Il silenzio uccide l’anima, Noah lo sa bene.
Tuttavia, ci sono momenti in cui si desidera restare da soli, istanti di vita che si possono assaporare soltanto nella pace e nell’assenza di una sana compagnia. Noah non ama quei momenti, ma come chiunque altro, è soggetto ad essi. Li sopporta, lascia che essi scorrano nella serenità di un mondo che continua a girare pacifico, indifferente alle pene dei piccoli esseri che lo abitano.
È per questo che adesso, mentre lacrime di cielo cadono sottili su di lui, Noah giace accucciato sulla riva più lontana del Tamigi. Da quella parte del versante, Londra è ancora a pezzi, perciò la gente non s’accosta. Lì, tra macerie ancora sporche di sangue e vetri infranti, giacciono gli ultimi rimasugli della Grande Guerra. Noah vi giace sopra, accasciato come vittima sacrificale, inspirando l’odore di muffa e morte, di passato e presente. Chiude gli occhi, ricorda quei momenti ancora così vicini, ancora così tremendamente reali.
Lui, in quella battaglia, ha perso tutto. La famiglia, gli amici, la sua casa. Grazie ad essa, lui un infanzia degna di questo nome non ce l’ha. Quando era poco più che mero infante, perse i suoi genitori. Subito dopo, i suoi parenti l’abbandonarono e i suoi amici sparirono. Solo. Noah rimase solo alla mercé di una guerra senz’anima e senza motivi, battaglia sanguinaria di inconsapevoli automi volti semplicemente ad uccidere senza motivo. A volte si domanda ancora cosa provino quegli assassini rimasti in vita le cui zanne o semplici mani appaiono sporche di sangue innocente. Li ricordano, i volti di coloro che hanno ammazzato con tanta noncuranza? Li ricordano i pianti dei sopravvissuti? La ricordano, quella guerra? Per molti, è troppo facile dimenticare.
Improvvisamente, uno spostamento d’aria. Qualcosa di grosso e pesante taglia il vento e la pioggia, il cielo e l’acqua, il silenzio e l’immobilità della pace.  
Noah annusa l’aria, solleva lo sguardo nello stesso istante in cui il profumo di spezie e vaniglia gli sfiora le narici. Riconosce quell’odore, riconosce quella sagoma in lontananza… ma qualcosa non va. Non è da Sherlock sbattere le ali così in fretta, a meno che…
 
-Sherlock, queste non sono ferite da quattro soldi. Le hai praticamente su tutto il corpo.-
Molly Hooper si passa una mano tra i capelli sciolti, che malamente s’abbinano con la vestaglia legata in vita e l’espressione stravolta. Noah l’ha buttata giù dal letto all’alba, dopo aver quasi sfondato la finestra per trascinarsi dietro uno Sherlock gravemente ferito e coperto di sangue. Vederlo in quelle condizioni è stato il risveglio peggiore della sua vita, ma alla fine Molly ha dovuto sopprimere il terrore, l’insicurezza e la sensazione di essere finita in un incubo per poter ricucire pezzo dopo pezzo i brandelli sfasciati della pelle devastata di Sherlock.
Non ha mai visto niente di simile: è come se qualcosa di sottile ma affilato si fosse insinuato molteplici volte nella carne della Furia Buia per poi lacerarla violentemente, con rabbia animale, feroce, quasi inimmaginabile. Ha dell’assurdo che Sherlock abbia volato a lungo con quelle ferite addosso, ma a giudicare dal tremore che scuote i muscoli alari, il drago deve aver affrontato un viaggio abbastanza lungo da sfiancarlo davvero. Stupido? Sì. Assurdo? Anche.
Molly ricuce dolcemente una ferita particolarmente violenta che gli squarcia la spalla. Tocca quella pelle nuda, bollente, liscia e priva d’imperfezioni come mai quella di un umano potrebbe essere.
Non ha mai toccato Sherlock Holmes in quel modo. È strano, è… bello. È come toccare un frammento di sogno, uno splendido pensiero proibito e infine resosi tangibile. Per Molly, Sherlock è sempre stata la perfezione irraggiungibile, la creatura costruita da Dio stesso, il figlio di qualsiasi sogno nascosto. Lo ha sempre guardato da lontano, l’ha spiato come timida creaturina che s’accosta non vista al più splendido degli dei. Lei lo adora, lei lo ama. Respira la sua aria, il suo profumo, il suo mondo. E questo le basta. Ma nei sogni, almeno lì, non le è proibito sfondare barriere, sfiorarlo così come sta facendo ora. Mai in vita sua avrebbe pensato che un semplice desiderio potesse avverarsi, seppur in maniera tanto bizzarra.
-Ecco, non ti muovere. Sei bravissimo.- si lascia sfuggire dolcemente mentre infila l’ago nella pelle morbida della mandibola. Tira con cura, lascia che il filo scorra sottopelle e ricucia quella ferita dilaniante, che mai avrebbe dovuto sfiorare un essere tanto bello.
-Non sono un cane, Molly. Sono padrone del mio corpo, e se devo impedirmi ogni movimento per consentirti di curarmi, così sarà.-
Molly arrossisce, pudicamente abbassa lo sguardo sulle mani che lavorano per tagliare il filo e liberare l’ago.
-Sc… scusami.-
Sherlock non risponde, ma nota con la coda dell’occhio che Noah, appoggiato allo stipite della porta, stringe i pugni. Punta i quattro occhi violetti sulla parete di fronte, ingombra di mensole e libri, contrae la mandibola, ma non parla.
-Ecco, ho finito.- interviene dolcemente Molly, spingendo indietro la sedia per lasciare a Sherlock un margine di spazio che gli consenta di alzarsi.
Molly non l’ha mai invitato a casa sua ma, adesso che lui è lì, la cosa le fa uno strano effetto: è abituata ad avere Noah alle costole, certo, ma essendo ancora cucciolo, il piccolo drago a due teste non ha una coda così spessa né ali così imponenti da oscurare l’intera casa, seppur ripiegate. In effetti, la differenza tra un piccolo e un adulto, è assolutamente lampante, adesso che Molly può confrontare il suogiovane drago a Sherlock.
-Sherlock… quanti anni hai?-
Dovrebbe chiedergli cosa gli è successo. Dovrebbe chiedergli come si è procurato quelle ferite. Invece, la domanda che fuoriesce è ben diversa.
Vuole conoscerlo. Vuole conoscere Sherlock per davvero, soltanto una volta. Non azzarderà molto perché, oltre a piacerle, la Furia Buia la intimidisce. Però, almeno per una volta, vorrebbe trovare il coraggio di parlargli come una sua pari.
-Perché me lo domandi?-
Sherlock la guarda, trapassandola coi meravigliosi occhi di vetro. Molly si sente impalata, studiata, come se qualcosa le scavasse nevriticamente nell’anima. Stringe forte i bordi della sedia per farsi coraggio prima di parlare di nuovo.
-Per curiosità, niente di più.-
Sherlock continua a fissarla, e per un attimo Molly pensa che non risponderà alla sua domanda. Troppo personale, forse? Non avrebbe dovuto azzardare tanto…
-Troppi. Di certo, supero i trecento.-
A Molly va la saliva di traverso. Comincia a tossire convulsamente, piegata in due dallo sforzo mentre Sherlock inarca un sopracciglio e sbuffa infastidito in attesa che la ragazza si calmi.
-T… trec… ento?-
-Sì. E non sono il più vecchio.-
Molly tossisce ancora, poi inspira lentamente, con cautela, cercando invano di mantenere la calma.
Trecento anni. Anzi, più di trecento.
-Più di… aspetta, non sai quanti anni hai esattamente?-
-A un certo punto, smettiamo di contarli.-
-Ma… insomma, voi non invecchiate?-
Sherlock non risponde e abbassa lo sguardo, finalmente esausto. Rilassa i muscoli, avvolge la coda intorno alla sedia come barriera protettiva. Vorrebbe chiudere le ali, riposare, lasciare che il sonno compensi la violenta perdita di sangue, ma non può: John lo aspetta, e forse si è già svegliato. Cosa avrà pensato nel trovare il gelo della sua assenza accanto?
-Penso che tu debba riposare, Sherlock. Hai perso molto sangue, e…-
-No. Devo tornare a casa.-
Da John. Sempre da John. Molly non può impedirsi di sospirare. Non riuscirà a trattenerlo, questo lo sa bene. Ma sa che Sherlock non riuscirà a mantenere troppo a lungo un equilibrio stabile. Rischia di perdere i sensi durante il volo, e questo non la rassicura.
-No.-
Molly si blocca nell’atto di sollevare una mano per attirare l’attenzione di Noah, ancora appoggiato allo stipite della porta. Inaspettatamente, ha mantenuto il silenzio per tutto quel tempo, e questo sorprende Molly.
-C… cosa no?-
Sherlock scuote il capo e lentamente si alza sulle zampe possenti, muscolose, animali. Gli artigli graffiano il pavimento, la coda scudiscia per mantenere un equilibrio stabile mentre il suo proprietario raggiunge la finestra.
-Non c’è bisogno che Noah mi accompagni. Non ho bisogno di una balia.-
Sherlock appoggia una mano sullo stipite della finestra, s’immobilizza. Ha i pantaloni lacerati in più punti, la pelle coperta di sangue e ferite ricucite. Eppure, anche in quelle condizioni non può che apparire bellissimo.
-Grazie, Molly Hooper.-
È un sussurro, un basso mormorio di labbra che si schiudono, ma a Molly sembra quasi un sogno sentire quella voce profonda sussurrare il suo nome.
Molly. Molly Hooper.
Vorrebbe rispondere, vorrebbe stringergli la mano. Ma, quando schiude le labbra per parlare, Sherlock Holmes è sparito e con lui, anche Noah, che tuttavia ha sbattuto la porta uscendo di casa.
 
Sbattere le ali è faticoso, pesante, difficile. I muscoli bruciano, la pioggia lo riempie di un ingente peso supplementare che si accumula sulla pelle, tra i capelli fradici, sul pantalone lacero e ancora sporco di sangue. Eppure, nonostante questo, Sherlock non si è mai sentito meglio. Ha bisogno di John, ha bisogno di vederlo e di sentirlo al sicuro in sua presenza. Allontanarsi da lui gli brucia l’anima, gli accorpa la sensazione di abbandonarlo a un destino incerto dove il mondo intero potrebbe calare su di lui e ferirlo prima del suo ritorno.
Accelera ancora, sbattendo le ali con forza. Taglia l’aria, la sottomette al suo volere di signore del vento. Infine, lascia che il corpo scivoli verso la meta, laddove casa sua, posta in cima a una cascata i cui riflessi cristallini si specchiano sui massi che la confinano, compare ammiccando, grazie alle pareti bagnate dalla luce del sole.
Ci è voluto del tempo per rimetterla a nuovo, ma alla fine, Sherlock ce l’ha fatta. Non ha chiesto aiuti, non ha accettato assistenza da parte di nessuno. S’è piegato al peso della fatica, rimettendo insieme i cocci distrutti di un passato irrecuperabile. Ha raccolto ogni pietra, spostato ogni memoria, osservato come la sua vita cambiava del tutto lì, dove ogni cosa era iniziata.
Aveva ricostruito la cupola pezzo dopo pezzo, incastrando i vetri con minuziosa precisione, senza badare ai tagli che gli coprivano le dita. Sua madre Nevora aveva amato quel pezzo della casa.
Aveva innalzato nuovamente il portico di marmo bianco, adesso abbracciato da fiorenti tralci d’edera e sostenuto da colonne a forma di draghi impennati che circondano l’intera casa d’una protezione quasi arcana. Il giardino è curato, le mura dell’abitazione tinte del verde dei rampicanti che armoniosamente abbracciano il marmo, senza tuttavia soffocarne le decorazioni d’oro e d’argento. 
Le finestre d’indubbio stile gotico s’innalzano verso il cielo, sottili ed eleganti, decorate da splendide vetrate colorate. Accanto al portone d’accesso, pesante ma inciso di morbide volute, vi sono altre due statue, nuovamente di draghi, che sorvegliano l’entrata. Accucciati, colli ricurvi, un’unica zampa a testa sollevata verso l’alto a sostenere una lanterna adesso spenta.
Casa, finalmente.
Sherlock sbatte ancora le ali, talmente grandi da oscurare l’intera sporgenza rocciosa. Atterra quasi con malagrazia, zoppica leggermente, esausto, ma quando la porta si apre e John compare nel suo campo visivo, ogni fatica sparisce dal suo corpo.
-Dove cazzo sei st… Sherlock! Che ti è successo?!-
John lo raggiunge, scruta con occhi sbarrati la sua pelle ancora sporca di sangue, le sue ferite ricucite, i graffi che gli percorrono le ali. È un medico, John Watson, e sa riconoscere certe ferite: sono identiche a quelle che durante la guerra causavano gli arpioni ricurvi, quando i militari colpivano un drago tra una scaglia e un’altra, ferendolo.
Hanno usato degli arpioni su di lui? No, quelle ferite sono troppo piccole. Quindi… uncini? Forse.
-Sherlock…-
John lo fissa in viso, improvvisamente si rende conto dell’umana stanchezza che lo pervade.
Sherlock non si stanca mai. Sherlock ha una resistenza stoica, imbattibile, senza tempo. Eppure adesso, qualcosa lo lacera dall’interno, e gli effetti di quel qualcosa si scorgono solo nei suoi occhi, quando tra un battito di palpebre e un altro, scintille d’anzianità s’attardano a sparire. C’è qualcosa che non va, John lo percepisce. E alla fine, John si arrende perché semplicemente, non riesce a vedere Sherlock in quello stato.
Allunga una mano bagnata di pioggia, gli sfiora i capelli fradici, appiccicati sulla fronte. È un tocco gentile d’angelo caritatevole, che né accusa né ferisce. Scorre lungo gli zigomi, sulle labbra, giù per il collo, spingendo il drago ormai esausto a chiudere gli occhi, ad inspirare la stessa aria del suo John, mista a quel profumo così umano e così familiare che per lui significa solo e soltanto casa.
Lentamente, gli incubi della notte trascorsa si dissipano, svaniscono al tocco gentile dell’unico angelo tra le cui mani Sherlock rinasce ogni volta, sbocciando come fiore delicato i cui tralci mai avvizziscono, mai appassiscono.
Senza rendersene conto, inclina la testa e lascia che il suo peso gravi sulle mani esperte di John. L’umano lo tocca, lo riscopre, sfiora quelle ferite ancora così giovani, così dolorose. Capisce che Sherlock è stanco, che non riesce a parlare, a spiegarsi, ma a John va bene così: potrebbe aspettare in eterno, se solo si trattasse della nobile creatura che ha dinanzi.
Dolcemente, fa scivolare il braccio intorno alla vita di Sherlock, aiutandolo a raddrizzarsi. Lo conduce verso casa, ben attento a non scivolare sul fango e sull’erba bagnata di pioggia battente. Sono fradici tutti e due, John ha freddo, ma la sua prima preoccupazione è Sherlock.
Entrano, e John si chiude la porta alle spalle con un calcio. Trascina Sherlock al piano di sopra, fino al bagno che personalmente, l’umano adora con tutto se stesso: quello è un piccolo angolo di paradiso dove finanche lavarsi i denti può racchiudere una sottile scintilla di serenità. Sherlock l’ha costruito secondo i gusti del suo popolo, che ha sempre visto l’intrecciarsi di natura e artificio come una delle più grandi opere d’arte. Bizzarro che il risultato finale non si allontani mai da questo pensiero corrente, perpetrato nei secoli e giunto fino ai giorni odierni.  
La stanza ha una forma circolare, con pareti intarsiate di volute vitree e cristalli di ogni genere, piccoli ma lucenti come minuscole stelle strappate al cielo. L’edera sbuca dal soffitto, intrecciandosi intorno all’unico grande cristallo la cui luce racchiusa all’interno illumina di bagliori naturali l’intera stanza, riflettendo morbidi scintillii su ogni pietra, su ogni voluta di vetro, fino ai pezzi effettivi del bagno, anch’essi costruiti in vetro e argento intarsiati di cristalli. Al di sopra del lavandino vi è uno specchio sagomato, in un angolo un piccolo sgabello di diamante che poggia le sue tre stilizzate zampe leonine su un pavimento di marmo decorato.
Infine, vi è la vasca: sfonda il pavimento, affossandosi come una grossa conca profonda un metro. I bordi sono ricoperti di violetti fiori di vetro soffiato, che morbidi intrecciano i gambi in un’armoniosa decorazione che abbraccia l’intero perimetro della vasca, la cui superficie liscia di diamante si decora di tante decorazioni luccicanti.
Alla finestra, vi è una tenda di seta argentata che momentaneamente copre la visuale della pioggia che dolcemente batte contro il vetro.
John trascina Sherlock fino allo sgabello, costringendolo poi a sedersi. Lascia che appoggi la schiena contro il muro, perdendosi qualche istante a osservarne il viso esausto, che raramente si abbandona a quegli atti di debolezza.
Se possibile, in quelle condizioni Sherlock appare ancora più bello e triste di quanto sia mai stato in passato, come un meraviglioso angelo dalle ali spezzate.
-Resta qui. Mi occuperò di te.-
John gli bacia la fronte bagnata, poi corre ad aprire il rubinetto della vasca. Lentamente, mentre l’acqua mormora placida il suo pallido quanto arcano sciabordio, John torna da Sherlock: lo trova con gli occhi chiusi, la testa appena reclinata all’indietro, le corna che quasi affondano nella preziosa parete alle sue spalle. Pare dormire, ma John sa che Sherlock non si addormenta mai realmente. Si è sempre domandato il perché, ha sempre cercato di spiegarsene il motivo, ma la verità… la verità è che lui non conosce affatto il suo compagno. Sa quando qualcosa si agita nella sua mente preziosamente strutturata, ma non capisce mai di che si tratta.
Anche adesso, John sa che Sherlock sta visitando il suo Mind Palace. Quasi riesce a sentirlo sfilare tra i corridoi, oltre le soglie di molteplici camere ricolme di dati, informazioni, immagini. Eppure, pur sapendo ciò, John non potrà mai capire quale porta avrà aperto la Furia Buia. A cosa sta pensando davvero?
-Sherlock?-
John posa una mano sul braccio per metà squamato del compagno, spingendolo ad aprire lentamente gli occhi. Sherlock lo fissa con fare assente, ed è allora che John capisce che in realtà, la Furia Buia non è più lì.
John sospira. -Va bene, ho capito.-
Lentamente, gli sfila i pantaloni sbrindellati e li getta con malagrazia sul pavimento. Non si ferma ad osservare il corpo gloriosamente nudo del compagno per semplice timore di incantarsi come ogni volta. Conosce a menadito quei pettorali ampi, quegli addominali appena accennati, quei fianchi stretti, quelle cosce possenti d’animale che morbidamente intrecciano le squame al liscio avanzare di pelle pallida di madreperla. Ama ogni parte di quel corpo, ogni anfratto di quell’anima di ghiaccio che più di una volta s’è azzardato a sfiorare.
Sherlock, il suo Sherlock.
Dolcemente, John fa scivolare il corpo di Sherlock nella vasca. Guarda la lucentezza dei cristalli riflettersi sulle scaglie nere, intrise di un infinito quanto prezioso spettro di colori, e ricorda quando conobbe Sherlock la prima volta. Allora John lo trovò bellissimo come un angelo e nobile come il più antico e potente degli dei. E adesso, dopo due anni, nulla è cambiato. Anzi. Se è possibile, Sherlock appare ancora più abbagliante.
John fa scorrere le dita bagnate tra i capelli del compagno, lascia che pallide goccioline d’acqua scivolino benedette su quel viso apparentemente addormentato. John vorrebbe baciarlo, lo vorrebbe davvero. È quasi una tentazione irresistibile, e per questo John deve lottare con se stesso per impedirsi di compiere eventuali sciocchezze: sa che Sherlock non gradirebbe un eventuale contatto fisico, adesso che è nel suo Mind Palace.
-Mi stai fissando, John.-
John sussulta, quasi stringe il pugno mentre massaggia delicato il collo liscio di Sherlock, badando a tenersi lontano dalle squame taglienti che popolano la nuca.
-Sei…? Pensavo fossi nel tuo Mind Palace!-
Sherlock apre un occhio scintillante, dalla sottile iride verticale. Lo fissa indifferente, calcolatore, studiando le sue reazioni. –Questo non mi estranea completamente da ciò che succede nel mondo esterno, John. Posso essere sia qui che lì.-
John s’immobilizza, fissa quell’occhio di cristallo che lentamente trapassa più e più volte il suo animo. Si sente esposto, John, e non ama che Sherlock lo studi in quel modo.
-Smettila di guardarmi così.-
-Ti imbarazza?-
-Mi infastidisce.-
-E ti imbarazza.-
-SHERLOCK!!!-
Suo malgrado, John sorride. Per puro dispetto, gli scompiglia energicamente i capelli, facendolo grugnire infastidito. Sherlock fa scattare le ali, che seppur ripiegate, riempiono totalmente il bagno in altezza e ampiezza. John si sente spingere e, mentre un colpo alla schiena lo sbilancia, gettandolo nella vasca con tutti i vestiti, non gli sfugge il piccolo sorriso di soddisfazione che illumina il volto di Sherlock.
John cade nell’acqua troppo calda, ma che sa di Sherlock e profuma di lui, del suo essere, del suo corpo bollente. Si lascia avvolgere in vita dalla coda poderosa del drago e riemerge dall’acqua. Scrolla il capo, fissa Sherlock in viso… e gli schizza la faccia con una poderosa manata alla superficie bagnata che li abbraccia.
Per qualche istante, Sherlock lo fissa sorpreso, ma subito dopo la sua coda trascina John sott’acqua per qualche istante, prima di sospingerlo nuovamente verso l’alto.
Quando riemerge, trova Sherlock col gomito appoggiato al bordo della vasca, il capo inclinato sostenuto dalla mano e gli occhi puntati su di lui in uno sguardo di arrogante divertimento.
È bello da mozzare il fiato, come un dio lontano e irraggiungibile, sfuggente più dell’aria tra le dita. John vorrebbe toccarlo, ma non s’azzarda. China lo sguardo sui suoi vestiti bagnati, adesso appiccicati alla pelle e resta in silenzio, ascoltando l’umido sgocciolare dei loro corpi grondanti d’acqua.
-Non posso rispondere alle tue domande, John. Non adesso.- dice improvvisamente Sherlock, spingendolo a sollevare lo sguardo.
-Perché? Sherlock, cosa mi nascondi? Ti ho mai dato motivo di non fidarti di me? Ti ho mai spinto a dubitare, ad allontanarti? Se ho sbagliato qualcosa, ti prego, dimmelo. Ho bisogno che mi perdoni, se mai vorrai accusarmi di qualcosa. Ho bisogno che non mi nascondi più niente, così come stai facendo da quasi un anno, ho bisogno… ho bisogno di te. Per favore…-
John china il capo, dolcemente s’azzarda ad appoggiare la fronte sulla spalla ancora umida di Sherlock. S’avvale della sua solida presenza, respira il suo profumo, rilassa i muscoli semplicemente perché lui è lì, al suo fianco, e non l’ha ancora respinto.
Ma proprio in quel momento, Sherlock non appare presente all’ambiente in cui si trova. Fissa il muro davanti a sé, ragiona velocemente sulla situazione.
John ha capito qualcosa. John sa decifrarlo meglio di quanto abbia calcolato in precedenza. Non sa se sentirsi stupido per averlo sottovalutato o grato al suo umano per l’attenzione che gli riserva ogni giorno, pur mantenendo il silenzio in attesa che sia lui ad esprimersi.
Come può una creatura tanto gentile accostarsi da uno come lui? Come si sfiora realmente un cristallo delicato come John?
 
-Cosa ti spaventa?- chiede una giovane voce di ragazzo alle sue spalle.
Lì, nel Mind Palace, dove Sherlock avanza lentamente tra porte e corridoi di dati importanti e insulsi, utili o inutili, qualcuno lo segue a distanza di sicurezza, muovendosi in silenzio ma con pazienza serafica, instancabile.
Sherlock riconosce il passo, ricorda chiaramente quell’odore, quell’incessabile palpitare di un cuore che ormai, nel presente e fuori dalla sua testa, ha smesso di battere anni fa. Ma per ora, Sherlock non può fermarsi. Non rallenta, non si ferma. Non ha tempo da perdere, adesso che si tratta di John.
Solleva una mano e con un deciso scatto del polso apre la porta alla sua destra di schianto, senza neanche toccarla.
-Perché non la porta di sinistra, Sherlock?- dice il ragazzo alle sue spalle. –Perché hai bisogno di voltarti anche solo per guardarla?-
Sherlock continua a ignorarlo. Imperterrito, oltrepassa la soglia della stanza e lascia che i ricordi in essa contenuta lo avvolgano.
Inutili dati… non servono in quella situazione.
Come reagirebbe una persona normale, adesso? Come si… abbraccia una creatura tanto bella quanto fragile come John Watson? Potrebbe spezzarsi? Potrebbe andare in frantumi lì, tra le sue braccia?
Sherlock cerca, scava, freneticamente si guarda intorno per trovare una disperata via d’uscita. Non ha dati, non ha informazioni. È tutto inutile; lui non sa cosa significhi confortare qualcuno, abbracciarlo, stringerlo al petto con dolcezza. Lui non è John, lui non riesce ad essere umano…
-Basta.-
Una mano artigliata, coperta di squame, si poggia sulla sua e la stringe. Sherlock china lo sguardo, fissa glaciale quelle dita ancora troppo corte, quel palmo ancora troppo piccolo che gentilmente s’azzarda a toccarlo. Lentamente, quasi reagendo per istinto a quel tocco così caldo, così familiare, rilassa i muscoli e chiude gli occhi, leggermente rasserenato.
-Tu sai come si fa.- mormora il ragazzo alle sue spalle prima d’appoggiare stancamente la fronte contro la sua schiena. Sherlock dilata le narici, inspira dolcemente il suo odore che gli riporta alla mente tanti ricordi di bambino, tante memorie del passato. Profuma di muschio e pioggia appena caduta dal cielo. –Mi hai abbracciato tante volte, Sherlock… non lo ricordi? Quando eravamo bambini e io avevo paura dei tuoni, o quando piangevo per essermi sbucciato il ginocchio… ti prendevi cura di me, nonostante avessimo la stessa età. Mi proteggevi, mi schermavi dal mondo intero, e le tue ali erano tanto grandi da respingere qualsiasi sofferenza, qualsiasi difficoltà… ricordati di me, Sherlock. Ricordati di noi e riconduci alla memoria ciò che già sai.-
-No, ho bisogno di dati. Devo sapere come muovermi, come impedirmi di ferirlo, come…-
-I tuoi dati ce li ho io, Sherlock. Sono io l’informazione che ti serve. Segui i miei, di ricordi.-
 
E stranamente, Sherlock ubbidisce. Reagisce automaticamente, ubbidiente, fiducioso in qualcosa che non sa spiegarsi, perché dopotutto, a dargli il giusto suggerimento è il suo Mind Palace, la sua coscienza. Ed è come risvegliarsi da uno splendido sogno per cadere infine in una realtà ben più gentile. Sherlock non apre gli occhi, non pare risvegliarsi dal suo stato attuale di trance, ma per la prima volta dopo secoli … ricorda che un tempo, lui sapeva esternare il suo affetto. Non è sempre stato tutto grigio, no. Qualcosa è cambiato in lui, qualcosa che non ha mai saputo affrontare.
 
-Ricorda come mi abbracciavi… ricordami, Sherlock. Tu sai già farlo.-
 
Lentamente, le braccia di Sherlock si risvegliano, scivolano da sole intorno alla vita di John. È quello il loro posto, quello il naturale incastro che Dio stesso ha affidato a quegli arti possenti, corazzati di scaglie luminose come polvere di stelle. Appare naturale per Sherlock appoggiare il mento sul capo di John, chiudere le ali su di loro, ritrovare quella scioltezza nello sfiorarsi che soltanto poche volte ha saputo riscoprire in se stesso.
-Sherlock?-
La voce di John è intrisa di piacevole sorpresa, ma Sherlock non vi bada. Pensa soltanto alle sue dita che sfiorano delicate quel corpo così fragile, eppure così forte. Il corpo che ama, l’uomo che… ama? Lui ama John? Non gliel’ha mai detto, e forse lo farebbe se solo non fosse così poco da Sherlock abbandonarsi a simili smancerie. No, per parlare ci sarà tempo, tanto, tutto quello che desiderano. Saranno sempre lì entrambi, perché niente potrà accadere alla piccola, fragile creatura che Sherlock proteggerà fino alla fine, oltre lo scorrere del tempo e delle ere, dal male del mondo e degli uomini.
 
Nel suo Mind Palace, qualcuno ride di una risata argentina, divertita, felice. Un ragazzo saltella sul posto, ma ancora una volta, Sherlock non s’azzarda a guardarlo.
-Te l’avevo detto!- urla, battendo forte le mani estasiato.
 
È un piccolo passo, un gentile tendersi di mano che Sherlock allunga verso John in uno sforzo che per lui appare quasi sovrumano. Ancora adesso, dopo due anni di serena convivenza, i sentimenti per Sherlock risultano ancora difficili, ostici, innaturali come sarebbe ai suoi occhi un grosso cane a sei teste. Eppure, lui si sforza perché è giusto così, perché John lo merita, perché John osserva, comprende e in silenzio si preoccupa per lui, evitandosi tuttavia di porgli domande che condurrebbero al litigio. Rispetta i suoi tempi e i suoi spazi, così come fece allora, quando si conobbero anni fa. Paziente, determinato, testardo. Umano.
Semplicemente John.
E, così come è da lui agire, ancora una volta l’uomo comprende lo sforzo di Sherlock, capisce le sue difficoltà e resta in silenzio, apprezzando ogni piccolo gesto così com’è. Semplicemente, sorride contro la sua spalla e lo stringe a sua volta con più forza, abbracciando con dita sicure quelle ali massicce adesso chiuse su di loro a formare uno splendido cielo incantato dove sogno e realtà si mescolano in un’unica benedizione di serenità che poggia leggiadra su di loro.
-Sherlock?-
-Mh?-
-Grazie.-
 
Angolo dell’autrice:
Foooorse sono un pelino in ritardo, ma questo imbecille di pc ha ben pensato di eliminarmi il capitolo il giorno stesso della pubblicazione. Dovevo pubblicarlo due giorni fa, porca miseria!
Sher: guarda che sei stata tu a cliccare per sbaglio sul tasto “No” quando è uscita la richiesta “Salvare le modifiche al capitolo?”
Silenzio! Ero distratta per colpa tua! Piantala di girarmi nudo per casa, mamma ha già avuto una sincope per colpa tua!!!
Ehm… ecco, torniamo a noi. Ringrazio di cuore coloro che hanno reso possibile il continuo di questa storia, con l’aggiunta di Carlo, un amico speciale che legge e commenta personalmente ogni mio capitolo con l’entusiasmo di chi ama davvero ciò che sta leggendo. Grazie a tutti voi:
Sonia_0911
Wibbly
Tony Stark
Luna moontzuzu
Grazie a voi che con pazienza avete recensito i miei capitoli con tanta gentilezza da farmi quasi piangere. Purtroppo mi commuovo facilmente a volte, ed è tutta colpa vostra, mannaggia a voi! Grazie e a prestissimo!

Tomi Dark Angel
 
 
 
  
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