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Autore: Elissa_Bane    15/09/2014    1 recensioni
"Sebastian Moran era figlio di un uomo potente.
Sebastian Moran era stato un uomo potente, in Afghanistan.
Sebastian Moran era un assassino.
Il migliore in circolazione, naturalmente.
Non mi sarei accontentato di meno."
*******************************
Storia scritta a quattro mani con seeyouthen.
[SebastianMoran/JamesMoriarty]
Genere: Angst, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim, Moriarty, John, Watson, Sebastian, Moran, Sebastian, Moran, Sherlock, Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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ECHO.

Capitolo quarto.

Gave me no warning,

I had to be on my way.


 


 


 

JM

La casa di campagna di Sebastian era un edificio da dipinto: i muri, per metà di pietra e per metà bianchi, erano talvolta coperti da edera selvatica; piccole finestre facevano capolino sulla facciata della casa, ma sapevo che dietro, al piano terra, un'ampia vetrata si apriva sul giardino rigoglioso, al centro del quale vi era una grande piscina, ora inutilizzabile per il brutto tempo dei giorni precedenti. Era la prima giornata di caldo e sole da una settimana.

Sebastian aveva anche riarredato all'interno, sostituendo i vecchi mobili in decadimento e la tappezzeria rovinata dal tempo.

Il tutto era un piccolo paradiso che Sebastian si era voluto concedere per staccare tra un lavoro e l'altro. Possedeva il terreno solamente da qualche mese e, per la prima volta, avevo accontentato il suo desiderio di passare una giornata con lui in quel fazzoletto di terra, lontano dal resto del mondo. Era venuto a prendermi un'ora prima raggiante.

Ora stava spalancando le finestre, facendo arieggiare gli ambienti serrati da qualche giorno, mentre io mi appoggiavo al tavolo, aspettando in un silenzio pesante.

Erano passate due settimane dalla morte di Chris.

Due settimane e il tentativo di allontanarmi da Sebastian era andato in fumo. Avevo avuto sbalzi d'umore e lui li aveva notati, momenti in cui lo rifiutavo e altri in cui lo cercavo: un'altalena troppo veloce per qualsiasi persona, tranne che per lui. Accettava quel comportamento senza problemi. Non mi capiva, ma gli andavo bene comunque. Probabilmente lo riteneva una conseguenza della morte di mio fratello, un trauma che aveva bisogno di tempo per svanire. In realtà era solamente la frustrazione derivata dalla mia incapacità di evitarlo.

Ciò che mi legava a lui non era amore, ma necessità. Una necessità che mi rendeva irascibile, facendomi sentire debole.

Quel giorno, però, era diverso. La rabbia nel suoi confronti aveva tutt'altra origine. Lo attesi impaziente, mordendomi un labbro.

Quando ebbe finito di sistemare versò da bere il suo solito whiskey in due piccoli bicchierini e me ne porse uno. Fece segno di seguirlo in giardino e si avviò, ma io non lo seguii.

«Sebastian», iniziai con un tono che voleva attirare la sua attenzione. Volevo guardarlo negli occhi mentre il groppo in gola si scioglieva, liberando parole colme di delusione. «Perché hai detto a Sherlock Holmes che avrei mandato Irene Adler in Arabia?».

Ecco, avevo dato finalmente voce al pensiero che mi assillava da quella mattina.

Sebastian spalancò gli occhi, sorpreso, e per la prima volta vidi un velo d'imbarazzo calare sul suo viso. «C-cosa?», domandò recitando malamente la parte di colui che non sapeva nulla.

«So che Irene è viva. So che è stato Sherlock a salvarla. Ora, solo noi sapevamo del piano, quindi voglio sapere perché hai detto a SHERLOCK HOLMES DI SALVARE LA VITA DI QUELLA DONNA!».

Psicopatico: punto uno, scarso controllo comportamentale.

Sebastian trasse un profondo respiro. «Non volevo che ti macchiassi le mani di un altro omicidio. Sono io l'assassino tra noi». Non mi guardava negli occhi, non ci riusciva. La sua voce era piena di tristezza e rassegnazione, ma il suo stato emotivo non mi toccava minimamente.

«Cosa? Tu stai scherzando, vero? Questa donna è un pericolo per me e tu le salvi la vita? Da che parte stai? Non m'interessa se volevi proteggere la mia dannatissima anima o qualsiasi altra cosa tu credessi stare proteggendo da un altro omicidio perché – novità! - ho ucciso tante di quelle persone che ho perso il conto!», gridai sbattendo il bicchiere sul tavolo. Del whisky si rovesciò, gocciolando per terra.

Punto due: mancanza di empatia.

Punto tre: impulsività.

Sebastian si passò le mani sul viso, sfregando forte, come se questo potesse cancellare qualcosa. «Non volevo farti del male, James. Non volevo», ripeteva. «Non pensavo dovesse morire, non volevo che lo facessi. Non volevo che tutto questo ricadesse su di te

«Non importa, Sebastian. Sei passato dalla sua parte, per un attimo... oh, non ci credo, sei passato dalla sua parte, l'hai aiutato a salvare quella sua stupida puttana».

Si avvicinò e posò le sue mani sul mio viso. I suoi occhi imploravano perdono. Era sul punto di crollare, oppure lo aveva già fatto. Non lo sapevo e forse non volevo saperlo.

«James, io starò sempre dalla tua parte. Non ti farei mai del male. Io ti amo, James».

Scacciai le sue mani, che rimasero a mezz'aria, sfiorando l'aria anziché la mia pelle.

Punto quattro: affettività superficiale.

«James, ti prego, perdonami».

«Voglio stare da solo ora. Non mi cercare» dissi uscendo in giardino. Non era una richiesta brusca, era un ordine e lui l'aveva capito. Non mi seguì.

Spirava una leggera brezza, che faceva sussurrare le foglie. Il profumo dei fiori era inebriante.

Non sentivo nulla. Era come se non provassi emozioni, come se fossi quasi estraneo al mio corpo.

Punto cinque: assenza di rimorso o senso di colpa.

Passarono trenta minuti. Trenta minuti in cui cercai di far scivolare via da me il pensiero dell'accaduto. Mano a mano che riprendevo il controllo, iniziavo a far caso a ciò che era successo. Mi si strinse leggermente il cuore al ricordo del viso straziato di Sebastian, mentre diceva di amarmi. Non volevo che mi amasse, non l'avevo mai voluto ma era inevitabilmente accaduto. Non si meritava di amare uno psicopatico, perché era quello che ero io.

La mano di Sebastian strinse improvvisamente il mio polso, costringendomi a girarmi verso di lui. Mi baciò come mai aveva fatto, come se quello fosse l'ultimo bacio della sua vita. Le emozioni tornarono, eccome se tornarono.

Le mie labbra tremarono contro le sue, mentre tra i nostri corpi la distanza si accorciava fino a non esistere più. Eravamo un groviglio di braccia, mani, pelle. Eravamo tutt'uno.

Crollammo sull'erba. Sentii un gemito di dolore nella gola di Sebastian, per colpa della caduta. Nessuno dei due, però, voleva separarsi dall'altro.

Non so per quanto tempo rimanemmo così, avvinghiati nell'erba, forse un'eternità o forse solo qualche minuto.

Mi ritrovai sdraiato tra le sue braccia, la testa appoggiata a lui. Il suo respiro era regolare, il petto si abbassava e rialzava lentamente. Sentivo i battiti del cuore rimbombare nel mio orecchio. Non mi sarei mai stancato di stare lì sdraiato a tenere il tempo del suo cuore.

Alzai gli occhi su di lui, sollevando la testa. Il sole gli baciava la pelle bianca, i capelli prendevano striature ramate, gli occhi scintillavano di gioia. Li chiuse, lasciando che il calore lo avvolgesse completamente.

«Così bello...» sussurrò impercettibilmente. Sorrisi e gli diedi un leggero bacio sulle labbra. «Potrei stare qui per sempre».

«Anche io», dissi, labbra contro labbra.

Rimisi la testa sulla sua t-shirt bianca e mi lasciai andare. Non pensai più a nulla se non a noi, al giardino, alla casa, al sole. Passò una mano nei miei capelli una, due, tre volte. Sembrava che non avessimo mai litigato.

«Sai», iniziò, «quella cosa che ho detto prima... Non l'ho fatto per farmi perdonare. Lo penso davvero. Ti amo davvero, James».

Feci finta di dormire. Non riuscivo nemmeno a pensare di rispondergli. Lui sospirò tristemente, poi si rassegnò.

Mi addormentai con il suo ti amo nelle orecchie, e lui con me. Ci risvegliammo a causa della pioggia, forte e improvvisa.

Bagnati, corremmo in casa, il respiro affannoso. Ci perdemmo tra le risate, testa contro testa.


 

*.*.*


 

Eravamo sdraiati sul divano di pelle del salotto, coperti solo di un paio di boxer e di una t-shirt, infilati rapidamente dopo una doccia calda. Le nostre gambe erano intrecciate, esattamente come le nostre mani.

Sebastian aveva appena acceso la tv, facendo zapping qualche istante fino a quando non aveva trovato un programma che aveva visto mentre era in guerra. Disse che era il suo preferito. Io ancora non avevo capito né la trama né il senso.

«Lo guardava sempre anche Chris», mi spiegò con un sussurro in un orecchio quando gli domandai cosa fosse, «Quei due ragazzi sono fratelli e uccidono... cose sovrannaturali».

«Ora capisco perché ti piace. Ti basta vedere una pistola o un coltello e sembri un bambinetto a Natale».

«A te basta il wi-fi, ancora peggio», replicò con un sorrisetto.

«Controllo vite con il mio wi-fi», cercai di difendermi. Sebastian rise e non potei fare a meno di fare lo stesso.

«Io metto fine alle vite con le armi, siamo pari».

«Ricordi Paul Kelliher?», domandai tornando indietro di due mesi nel tempo con la mente. Sebastian arricciò il naso, ancora infastidito dal nome di quell'uomo, mentre io ridacchiavo.

«Sì, era una pessima persona. Ora gli altri sanno cosa succede a chi ti minaccia», commentò stringendo forte la mia mano. C'era un sottile senso di piacere proibito nel sentirsi protetto tra le braccia di un serial killer, soprattutto se era il secondo uomo più pericoloso di Londra.

Continuai a non capire lo show, ma Sebastian era felice e io mi ostinavo a guardare quelle repliche per illudermi di conoscere una parte in più di mio fratello. Quella serata sapeva di vita domestica, tranquilla. Sembrava che condividessimo casa insieme da sempre. Che fossimo felici insieme da sempre. Sebastian Moran mi rendeva più umano di quanto non fossi mai stato.

«Ma è così stupido. Non può davvero piacerti. Insomma, non hanno un minimo di capacità deduttive basilari, come può Dean non notare che il fratello -». Fui interrotto da un bacio.

«Ti prego, sta' zitto. È soltanto uno show. E il punto è proprio il legame tra fratelli. Ora taci e guarda: questo è il mio episodio preferito». Mi stampò un altro bacio e io gli morsicai piano il labbro inferiore, sorridendo. Lui tornò a guardare lo schermo, accarezzandomi lievemente un fianco.

«Mossa sbagliata, Tigre», mormorai voltandomi di scatto verso di lui.

Nessuno dei due vide la fine di quell'episodio.


 

*.*.*


 

Sebastian dormiva pesantemente, perso in un sonno tranquillo.

Sorrisi tristemente, osservando il suo viso rilassato. Avrei voluto sfiorargli una guancia o baciargli la fronte, ma non dovevo svegliarlo.

Presi le chiavi della sua macchina, e uscii senza voltarmi indietro. Era quasi mattino.

Misi in moto la macchina e automaticamente partì anche il lettore cd.

Now it's closing time, the music's fading out. Last call for drinks, I'll have another stout. I turn around to look at you, you're nowhere to be found. I search the place for your lost face, guess I'll have another round. And I think I just fell in love with you.

Quanto era vero.


 

SM

Mi svegliai, quella mattina, e il silenzio mi assordò.

James faceva sempre rumore: l’acqua della doccia, la macchinetta del caffè, la musica classica mentre studiava i suoi fascicoli. Se n’era andato. Avrei dovuto prendere l’altra auto.

Non me ne preoccupai, io dovevo portare a termine un incarico e probabilmente lui si era allontanato per il litigio del giorno prima. Nonostante si fosse risolto tutto, conoscevo James e sapevo che per lui era difficile dimenticare una tale insubordinazione.

Dopo una doccia veloce aprii la valigetta nella quale custodivo gelosamente le mie armi.

Quello assegnatomi era un caso facile, dovevo solo far capire a un grassone di Miami che non poteva permettersi di pestare i piedi a James. Osservai i fucili, le pistole e i coltelli con sguardo amorevole. Scelsi un fucile di precisione, delle granate ( una misura di sicurezza) e un coltello da caccia a lama liscia. Perfetto per scuoiare.

Ero molto selettivo anche nel vestire: in missione, meno ti fai notare e meglio è. Un paio di pantaloni neri, un maglione grigio e il mio immancabile cappotto nero, abbastanza ampio da coprire le armi.

Salii in macchina e accesi la radio.

Sorrisi, riconoscendo la canzone.

You touched my heart, you touched my soul, you changed my life and all my goals. And love is blind and that I knew when, my heart was blinded by you… I’ve kissed your lips and held your head, shared your dreams and shared your bed. I know you well, I know your smell, I’ve been addicted to you!

Era una bellissima canzone, che Chris canticchiava scrivendo le sue lettere. Stranamente, per quanto potesse essere triste un addio, riuscivo perfettamente a leggere nella musica che non c’era rimpianto. Avevano entrambi lottato fino alla fine per il loro amore.

Scossi la testa, imponendomi di non pensare a James. Poteva essermi fatale.

Fermai la macchina di fronte all’albergo dove alloggiava Nick Evans. Un uomo era di guardia sin dall’ingresso, cercando di sembrare naturale nonostante si vedesse perfettamente la sua ansia. Il palo era sempre il primo, a morire.

Mi accostai sorridendo. «Hey, scusa, hai un accendino?» domandai accostandomi la sigaretta alle labbra.

Mosse gli occhi intorno ansiosamente «No, levati».

Io odio le persone maleducate. E il ragazzo se ne rese ben presto conto, quando si trovò il mio coltello puntato alla gola.

«Chiama il tuo capo» sussurrai «Ora».

Con un gesto secco fece quello che gli avevo chiesto.

«Nick. Qui c’è qualcuno che ti vuole parlare».

«Che aspetto ha?» lo sentii chiedere.

Il ragazzo ansimò e una goccia di sangue scivolò sull’acciaio «Serio».

«Digli che sto salendo».

«Sta salendo» ubbidì. Il coltello gli perforò la gola, mentre entravo nel palazzo. Eliminate le due guardie salii sino alla stanza di Evans. Un uomo era sul pianerottolo a fare la guardia. Morì ancor prima di vedermi.

Altre sette guardie erano nella sala. Sparai otto colpi. L’ottavo era per l’allarme antincendio, che distrasse gli uomini mentre li uccidevo, uno a uno. Infine avanzai attraverso l’acqua, sino alla camera di Evans. Il grassone era nel letto con una ragazzina che non poteva avere più di diciotto anni.

Le feci cenno di andarsene.

«Cosa… cosa vuoi?» domandò tremante di paura.

Non avevo nemmeno la pistola puntata su di lui e già grosse lacrime scivolavano sul faccione flaccido.

«Questo è il tuo primo giorno a Londra, vero?».

Annuì.

«Ed è anche l’ultimo, o sbaglio?» l’uomo annuì ancora. «Molto bene. Non vorrei mai che te lo dimenticassi. O sarò costretto a rivederti. Comprendi?»

Mi voltai, andandomene. Evans, con la mano tremante cercò di spararmi con la pistola che aveva sotto il cuscino. Fui più veloce io e lo colpii al piede.

Lo lasciai lì, che sanguinava e piangeva, la sua vita che aveva preso una svolta inaspettata.


 

*.*.*


 

«Moran» risposi al telefono.

«Sebastian.»

«Peter. A cosa devo il piacere?» Peter era stato una delle mie tante serate passate a bere e cercare di dimenticare la guerra in un corpo caldo. Non aveva funzionato, ma ancora mi chiamava per passarmi informazioni su quello che accadeva intorno al Governo. Era una delle guardie giurate.

«Moriarty. Si è consegnato stamattina a Mycroft Holmes».

Improvvisamente mi divenne difficile respirare, ma finsi sicurezza. «Ah.»

«E’ nella stanza 01. Nel seminterrato. Nel caso, sai, avesse bisogno di una mano…»

«Grazie Pete.» risposi, la mente in subbuglio «Ma se James avesse bisogno, mi chiamerebbe.»

«Okay…era solo per… beh, lo sai.»

«Sì, certo. Ci sentiamo, Peter.»

Riattaccai sentendomi stranamente vuoto. James si era consegnato. Non mi aveva detto nulla.

Non mi faccio scrupoli a dire che quel pomeriggio distrussi mezza casa.

Mi aveva lasciato.

Tra i vetri rotti e i pezzi di legno mi sedetti, prendendomi la testa tra le mani.

Mi addormentai sanguinando.

Non riuscivo a capire se la ferita che bruciava di più fosse quella sulla mano o quella nel cuore.


 

  
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