Devo scusarmi per questo immenso ritardo ma ci sono stati vari problemi,
tra cui uno anche familiare da parte di lalla, e
proprio non ce l’abbiamo fatta a pubblicare prima.
Vi ringrazio per la smisurata pazienza ;)
Ringrazio anche coloro che seguono questa storia
e soprattutto chi la recensisce, è sempre piacevole ricevere qualche commento
<3
Un piccolo ringraziamento anche a MelaChan che
mi ha aiutato con Lo Hobbit che io non ho letto *fugge*
Buona lettura!
Capitolo 2
Due anni dopo - John
John era sempre stato una di quelle persone che cerca la
vita, che cerca un motivo, un obbiettivo per vivere,
per trascinarsi avanti un giorno alla volta, senza rimpiangere il passato,
senza mai guardarsi indietro.
In Afghanistan aveva imparato a non ripensare mai alle
proprie scelte, a non ritornare mai sui propri passi e riconsiderare una via
negata in precedenza. Non pensava mai al se, al cosa
sarebbe successo scegliendo una diversa presa di posizione. Nell'esercito
viveva alla giornata, non sapendo neanche se si sarebbe risvegliato il giorno
dopo, e tutte le settimane perdeva svariati compagni, di cui molti, la maggior
parte delle volte, erano sotto il suo comando. Due volte su tre era lui a dover
combattere tra la vita e la morte, a dover prendere quelle decisioni che
avrebbero salvato il suo paziente o che l'avrebbero irrimediabilmente
condannato a miglior vita. E molte di quelle volte gli uomini morivano tra le
sue braccia, sotto le sue cure.
Riconsiderare le proprie scelte lo avrebbero portato
sicuramente alla pazzia e per questo John cercava, per quanto poteva, di tirare
avanti stringendo i denti. Quel è fatto, è fatto.
Eppure, ora che l'Afghanistan era solo un punto sulla
cartina appesa in sala, John non faceva altro che tornare indietro con i
ricordi, che cercare nelle sue scelte una via di fuga da quella vita grigia,
incolore, quella vita così priva di gioie, obbiettivi
e motivi per tirare avanti.
Lo aveva avuto quel motivo, un altro viveva proprio sotto
il suo stesso tetto, ma per la considerazione che ne riceveva più volte si era chiesto come avesse fatto a resistere per due
anni in quello stato, come facesse tutt'ora a vivere (sopravvivere).
Certo, aveva un appartamento, piccolo ma con un tetto
sotto cui ripararsi, aveva anche un lavoro che gli
permetteva di mantenersi e qualche amico con cui andare a bere una birra ogni
tanto, ma non erano poche le volte in cui si perdeva in strani desideri che
comprendevano lasciare Hamish dal padre, con il quale pareva così felice, e
rifugiarsi in qualche paese sperduto dall'altra parte dell'emisfero per
dimenticare tutto e iniziare una nuova vita. Per la terza volta.
Il destino sembrava essersi messo di traverso sulla sua
strada (non contro, ovviamente, una bella botta finale sarebbe stata troppo
magnanima in confronto all'incespicare, cadere, rialzarsi e inciampare
continuamente nella stessa situazione) e a John rimanevano ben poche alternative.
Non aveva mai desiderato la morte: gli sembrava la fine
più semplice e senza inventiva che potesse immaginarsi. E John ormai sapeva di
amare le situazioni più improbabili e rischiose, situazioni da cui qualcuno
sano di mente si sarebbe tenuto ben alla larga, ma
dalla quale lui sembrava essere inspiegabilmente attratto.
Prima c'era stato l'Afghanistan, poi era arrivato lui
e come se non bastasse John aveva voluto tirarsi il martello sui piedi e avere
pure un figlio. Un figlio che nella loro situazione era la cosa più lontana e
improbabile che qualsiasi persona al di fuori di loro (lui) avrebbe potuto
scegliere di avere.
Ma John aveva una vena masochista nella quale sembravano
cadere anche tutti coloro che avevano la sfortuna di
stargli intorno, e ora quello stesso figlio viveva una vita a metà tra due
case, due genitori separati che non si parlavano più da due anni e che vivevano
due vite completamente diverse. Il due era il loro numero preferito, a quanto
pareva. Un tempo lo era stato con orgoglio, due fedi da mostrare a tutti coloro che li circondavano anche se proprio non era il
momento. Quello stesso orgoglio che ora li faceva trascinare a testa alta
ognuno per la sua strada senza nessun limite, qualcosa che li obbligasse a
fermarsi.
«John…?»
Apre gli occhi di scatto, accorgendosi solo in quel
momento di essersi appisolato con un libro di cui non ricorda nemmeno il titolo
tra le mani. Si passa una mano sugli occhi, sbattendoli per tenerli aperti
nonostante il sonno che li appesantisce, e focalizza l'immagine di Hamish, suo
figlio, in piedi davanti a lui.
«Ti ha accompagnato la signora Linnane?»
Hamish storce il naso. «Lise.»
Un sospiro. «Sì, Lise…»
«L'acqua per la pasta ormai è per metà evaporata.»
mormora, poi gli volta le spalle e si rifugia in camera sua.
John non si stupisce neanche del mancato saluto: i salti
al collo con baci ricambiati mille volte per scherzo sono solo un lontano
ricordo. Hamish ha solo dieci anni, è ancora un bambino, sia dentro che fuori. Lo vede sempre quando lo porta alle partite di
calcio e lo osserva giocare con tanta euforia, lo vede alle feste di compleanno
dei suoi compagni di classe e da come gioca e parla,
lo vede alla sera quando apre la porta della sua stanza per dargli la buonanotte
e lui fa finta di dormire, o dorme già, e lo osserva con tenerezza mentre si
stringe su se stesso nel lenzuolo, il viso rilassato e gli occhi chiusi. Hamish
è un bambino, ma con lui non lo è più. Si comporta come un uomo bello e fatto,
lo guarda sempre storto e dall'alto in basso, forte della sua spietata
intelligenza e di quelle tecniche di deduzione che Sherlock gli ha insegnato
fin da piccolo. Molte volte John si sente a disagio in sua presenza, lui che
invece dovrebbe educarlo e coccolarlo, così come aveva fatto per anni prima di
tutto quel casino.
Ci sono giorni in cui Hamish è di cattivo umore: si
piazza davanti alla televisione tutto il pomeriggio e si addormenta durante la
pubblicità tra un cartone animato e l'altro. John lo sveglia sempre con
dolcezza e ignorando le sue proteste lo prende in braccio e lo porta in camera
sua: lo aiuta ad indossare il pigiama, a lavarsi i
denti e poi gli rimbocca le coperte, depositandogli un bacio in fronte. Hamish
sembra sempre evitare quei contatti, sembra sempre cercare tutti i motivi più
stupidi o inventarsi scuse di sana pianta per ignorare
il padre. Quel padre che si prende cura di lui nonostante tutto, che cerca
ancora di aiutarlo a crescere come può (non come vorrebbe).
Certe volte (poche), Hamish si abbandona a lui e si
lascia cullare nel sonno, o lo stringe un po' più forte rimane in quella
posizione per ore sul divano, rifiutando di muoversi.
È in quei momenti che John si pente dei suoi pensieri
nelle giornate storte, che si vergogna della sua fantasia di lasciarlo da
Sherlock e andarsene. In quei momenti si chiede che cosa farebbe senza suo
figlio, quel bellissimo bambino dai riccioli bruni e gli occhi azzurri che lo ha tenuto in piedi nottate intere con i suoi pianti, che
da anni lo fa svegliare venti minuti prima solo per lasciargli libero il bagno
appena si sveglia e la colazione pronta appena entra in cucina. È lui che lo ha mantenuto con i piedi per terra nonostante tutto il
loro dolore, è lui quel motivo per cui John deve trascinarsi avanti, un giorno
dopo l'altro, sempre nella stessa monotona routine.
Durante i weekend, quando non esce con nessuno (la
maggior parte delle volte) si lascia cadere sul divano e lascia
la televisione su un canale a caso mentre cade preda dei suoi pensieri. Si
raggomitola come un bambino, a volte perfino piange in silenzio (troppo poche).
Immagina sempre di fare la stessa cosa con Hamish al suo fianco e di farsi
raccontare come è andata la giornata, come sono i suoi
amici e per quale motivo la maestra gli ha promesso di regalargli la sua edizione
scolastica di un libro di fisica per gli ultimi anni di scuola superiore. Quei
libri che, almeno questo è quello che immagina, Hamish
divora uno dietro l'altro nella sua cameretta. Immagina e, senza volerlo,
scivola in ricordi lontani, legati ad una vita che
sembra essere distante decadi e vicina di pochi giorni. Si lascia abbracciare
da Sherlock, che, annoiato e assonnato, si accoccola vicino a lui in cerca di
calore e attenzione (Sono meno interessante di un insulso gioco per pensionati?») e si lascia raggiungere da Hamish che, ridendo, balza
loro in grembo. Ci sono loro due che gli fanno il solletico e poi lo fanno sedere in mezzo finché non si addormenta e lo portano
nella sua stanza, dalla quale poi lui scende assonnato e si butta nel lettone.
Ci sono loro tre, una famiglia perfetta, e niente a poterli dividere.
Quando si sveglia, invece, la realtà
è sempre quella. Una televisione ancora accesa e un telecomando a terra mentre
dalle finestre entrano le prime forti luci del mattino. E quando tutto svanisce
John si tira in piedi a fatica e si mette a fare
qualunque cosa, anche pulire per la decima volta in una settimana il mobile
dietro al divano, pur di non pensare, di cacciare indietro ogni rancore.
Eppure ogni volta si chiede che cosa Sherlock stia
facendo fare ad Hamish, se sono entrambi sani e salvi o
se il detective l'ha trascinato in una delle sue scene del crimine e, cazzo,
forse dovrei chiamarli per sapere se stanno bene. Non lo fa mai.
Hamish non racconta nulla, John non sa niente, e vanno
avanti così.
Quando può (quasi sempre) John
chiede di fare il turno anche nel weekend, preferendo rimanere a casa durante
la settimana dove, almeno, c'è Hamish di cui prendersi cura.
Quella sera, quando si siedono a tavola, John tenta il
solito approccio: chiede com'è andata la giornata e se la squadra è pronta per
la prossima partita.
Le risposte sono laconiche, prive di argomento, e cadono
nel nulla e nel silenzio, quel silenzio che ormai si è
impossessato della sua vita.
Hamish non parla, ma questa è l'unica punizione che gli
affligge. Per il resto è sempre educato - e di questo, nonostante tutto, John è
orgoglioso: sparecchia, anche per lui, e quando non è il padre ad insistere lava pure i piatti (non hanno una
lavastoviglie, per due persone è praticamente inutile).
John tenta sempre di aiutare, di coinvolgerlo in
qualcosa, ma è sempre la solita storia: il rifiuto, le scuse, e Buonanotte,
John.
Non lo chiama quasi mai “papà”. Una cosa che lo irrita
più di ogni altra e che non manca mai di ricordargli nei momenti di buio,
quando si arrabbia, quando non sa più cosa fare e urlare un po' contro quel
bambino che lo tratta come uno sconosciuto nonostante tutto quello che ha fatto
e continua a fare per lui sembra una buona scusa per
svuotarsi di quel peso che lo opprime, schiacciandolo a terra.
Hamish rimane sempre con gli occhi bassi per tutta la
sfuriata, poi mormora uno "Scusa" e si ritira in camera, tranquillo.
Ci sono momenti come quello in cui John non riesce a far
altro che lasciarsi scivolare a terra in ginocchio, prendersi la testa tra le
mani e soffocare tra le labbra un urlo di impotenza,
rabbia e dolore.
Vorrebbe essere circondato da due braccia esili ma forti,
vorrebbe essere riscaldato da quel petto piatto e compatto sulla schiena,
vorrebbe le sue labbra vicino all'orecchio a mormorargli che va tutto bene, che
è solo tutto un brutto sogno dal quale basta aprire gli occhi per uscire. Ma John spalanca sempre le palpebre e non vede nessuna iride
cristallina a fissarlo, non avverte nessun abbraccio se non quello del silenzio
assoluto, nessun calore se non quello che sale dal pavimento, l'aria riscaldata
dell'appartamento di sotto.
Si chiede perché, a volte, e non trova mai risposta. Si
chiede perché Hamish lo tratti in quel modo e una risposta la trova eccome, ma
fa di tutto per raggirarla e non pensarci.
Si chiede che cosa gli abbia detto Sherlock in proposito perché
lui non ha detto proprio niente e un po' se ne pente.
Forse Hamish ha una visione diversa di come sono andate
le cose, forse lo incolpa di colpe non sue (almeno non tutte).
John sa che non ha mai sopportato Mary. Si ricorda i primi litigi, quando le aveva urlato addosso che
non avrebbe mai fatto parte della famiglia, che lei non era nessuno per poterlo
trattare come il proprio figlio.
«Io non ho una mamma! Io ho DUE PAPÀ.» erano state le ultime parole che Hamish le aveva
rivolto, prima che Mary li lasciasse definitivamente. John aveva provato ad incolpare suo figlio per quella seconda rottura, per
averli trascinati in un vortice da cui non sarebbero mai più usciti. Ma la verità
era che non aveva mai creduto di avere possibilità con lei, che Hamish la
volesse o meno. Non l'aveva neanche amata: era
semplicemente stata uno scoglio a cui aggrapparsi e da
cui ricevere una parvenza di vita in un momento difficile. Se ne era andata come era venuta, un sorriso dolce e rassicurante. «Non è colpa tua, John. E non ha colpa neanche
Hamish. So che non prenderò mai il suo posto e non avrò neanche l'arroganza di
provarci.»
Avevano condiviso la stessa casa per un mese scarso prima
di capire che non sarebbero andati a parare da nessuna parte, ma a John quel
mesetto era servito a mettersi in pari con la sua nuova vita, a fare i conti
con quanto successo e a tentare di trovare un modo per tirare avanti.
«Buonanotte John.» la sua voce lo risveglia dai propri
pensieri e l'uomo sorride al figlio, un sorriso debole, privo di forza.
Hamish indugia un attimo, aspettando, poi se ne va. Solo
dopo qualche minuto si rende conto di non avergli risposto. È tentato di
seguirlo e rimboccargli le coperte ma il pensiero del suo volto corrucciato che
si volta dall'altra parte per non guardarlo lo fa desistere con una stretta al
petto.
Rimane a fissare la parete dietro la televisione per una
buona mezzora, oppresso da decine di pensieri che si affollano senza un ordine
logico nella sua mente, prima di decidersi e trascinarsi nel letto, dove rimane
supino a osservare il soffitto fino all'una passata.
Sdraiato con gli arti spalancati a stella
non si accorge neanche del tempo che passa, secondo dopo secondo, inghiottendolo.
Ascolta il silenzio della notte, il suono del proprio respiro, senza riuscire a
chiudere occhio.
Si immagina la dolce melodia di un violino spargersi
nell'aria, le note di Brahms risuonare nel salotto,
fino ad arrivare deboli nella sua stanza.
Si ricorda le prime notti di
Hamish, quando si svegliava piangendo e lui passava le ore a cullarlo e a
raccontargli storielle sconnesse per addormentarlo con il suono della propria
voce. Ricorda quando, una settimana dopo, Sherlock lo aveva visto stanco, gli
occhi cerchiati per le ore di sonno perse e aveva insistito per alzarsi lui,
non ricevendo proteste dal compagno. Poco dopo (o forse erano
passate un paio d'ore?) il violino aveva cominciato a produrre quelle note
conosciute, fino ad arrivare alle sue orecchie, e quasi di colpo gli strilli
disperati si erano placati, fino a quando anche John si era lasciato andare a
quel suono melodioso, addormentandosi seduta stante.
Quella notte, spinto da quei bellissimi ricordi,
sprofonda in un sonno senza sogni.
~*~
«Papà?»
Una voce squillante e un grosso scossone lo riportano
alla realtà con un sussulto e John spalanca gli occhi di colpo e balza a
sedere, spaventato da quell'improvviso risveglio. Si ritrova Hamish con gli
occhi spalancati di fianco al letto, la mano ancora stretta con vigore al suo
braccio. Apre e richiude la bocca due volte, calmando il respiro, poi si stacca
facendo qualche passo indietro.
«Che cosa è successo?» mugugna John, guardando
interrogativo il figlio.
Lui lo guarda di rimando e una lacrima sfugge al suo
controllo. «Sei in ritardo.» mormora, e fugge dalla stanza di volata.
John guarda accigliato la sveglia,
poi balza in piedi.
Le otto e un quarto. Non è in ritardo, di più.
Si veste in tutta fretta e, rinunciando al bagno e alla
colazione, si precipita fuori dalla stanza, intercettando Hamish proprio mentre
sta aprendo la porta con le mani tremanti.
John lo nota, come ha notato il
suono stridulo della sua voce e la lacrima poco prima, e poggiando una mano
sulla porta lo blocca del tutto.
«Hamish?» Cosa succede?
è la domanda sottointesa.
Il bambino non lo guarda e John si accorge solo in quel
momento del forte tremore che lo scuote da capo a piedi.
Si inginocchia, preoccupato, e lo costringe ad alzare lo sguardo
verso di lui con la mano. Uno sguardo velato di lacrime.
«Hamish…» mormora, mentre il bambino si spinge verso di
lui e si stringe tra le sue braccia, lasciando cadere a terra lo zaino che
teneva in mano fino a poco prima.
John lo abbraccia di rimando, passandogli una mano tra i
capelli, stupito. «Che cosa succede?» questa volta lo dice davvero, facendo
forza perché Hamish si stacchi e lo guardi in faccia da pari a pari.
«Non ti sei svegliato.» afferma, mostrando una sicurezza
e un'arroganza che in quel momento non reggono.
«La sveglia non deve aver suonato.» sorride John, cauto.
Scuote la testa con vigore. «Ha
suonato. Pensavo che ti fossi riaddormentato ma quando ha suonato la seconda
volta…» singhiozza e tira su col naso.
John corruga la fronte e lo stringe nuovamente
nell'abbraccio, nel tentativo di rassicurarlo. Con la stanchezza accumulata
negli ultimi giorni e le ore piccole del giorno prima,
non si stupisce più di tanto se non l'ha sentita, ma evidentemente Hamish
deve essersi spaventato.
«Non- non voglio che voi moriate.»
A quell'affermazione spalanca gli occhi, e, tenendolo
stretto a sé, si alza in piedi, lasciando che il bambino si aggrappi a lui,
circondandogli la vita con le gambe.
«Si può sapere che cosa è successo?» dice poi, quando si
è un po' calmato tra le sue braccia. «Ero stanco e dormivo talmente bene che non
ho sentito la sveglia.» ridacchia, cauto. «Perché devi
pensare a queste cose? Sono un medico, lo saprò se qualcosa non va. Uhm…?»
Hamish annuisce contro la sua spalla e poi si allontana
da lui, stropicciandosi gli occhi. «Sono in ritardo.» borbotta, tirando su col
naso.
John lo guarda per qualche istante, poi gli stampa un
bacio in fronte. «Sai cosa ti dico?»
Hamish guarda in basso.
«Oggi rimaniamo a casa tutti e due
e ci riposiamo, ti va?»
Il bambino lo guarda, incredulo, poi annuisce e John si
sente riscaldare il cuore. Lo porta nel piccolo salotto e lo adagia sul divano,
coprendolo poi con la sua coperta di lana preferita, mentre afferra il telefono
e chiama la scuola e l'ambulatorio per prendersi un giorno di malattia,
dopodiché torna in salotto e lo guarda dall'alto in basso, sorridendo
dolcemente.
«Che cosa vogliamo fare? Guardiamo un film?»
Hamish si morde un labbro e annuisce. «Ma
solo se guardiamo Lo Hobbit.»
Il sorriso gli si gela sulle labbra mentre suo malgrado annuisce e lo cerca nel cassetto del mobiletto.
«La desolazione di Smaug.» dice
poi Hamish dal divano, e John solleva gli occhi al cielo. Ovviamente.
È il film (nonché libro)
preferito di Hamish e non sembra far altro che ricordarglielo tutte le volte.
Sa che nel ricordarglielo c'è un secondo fine, e John si chiede se non lo
faccia apposta.
Fa partire il film e si siede sul divano anche lui,
lasciando che il bambino, un po' titubante, gli si rannicchi di fianco con la
testa poggiata in grembo. John gli passa una mano tra i riccioli ribelli e
sorride lievemente al ricordo di quelle stesse dita tra i capelli di un uomo
ben più grosso di Hamish, ma altrettanto fragile e magro, su un divano che non
è quello.
John era sempre stato un appassionato dei libri di
Tolkien, fin da bambino, e quando era arrivato Hamish aveva fatto di tutto per
trasmettergli quella stessa passione, non del tutto approvata da Sherlock per
la grande quantità di idiozie raccontate in esso, a
quanto diceva lui. Tuttavia il piccolo se ne era innamorato e si era
affezionato in particolare al gigantesco drago rosso di nome Smaug. La sera, prima di andare a letto, Hamish li costringeva
quasi sempre a leggergli qualche capitolo qua e là del
libro, facendogli alternare le voci. A John toccava sempre Bilbo,
mentre Sherlock, con la sua voce profonda e penetrante, rivestiva le parti di Smaug. Hamish si divertiva come mai a sfidare il drago e
finivano sempre per improvvisare delle parti, nelle quali chissà per quale
motivo il bambino finiva sempre per volare via in groppa all'enorme bestia.
John guardava sempre i suoi due preziosi amori stretti
l'uno all'altro girare per la stanza, con Sherlock che a momenti si divertiva
quasi più del figlio. Era praticamente certo che il
detective fosse follemente innamorato di quel suo cucciolo d'uomo e che avrebbe
fatto qualsiasi cosa per lui. Forse John qualche volta ne era stato anche
geloso.
Il film si conclude con la voce
di Ed Sheeran e John sbadiglia tra sé e sé, notando
solo in quel momento che il piccolo si è addormentato.
Sorride e, dopo un attimo di indecisione,
si sistema più comodo stando attento a non svegliarlo e si appisola anche lui.
~*~
Hamish rimane un po' cupo per il resto della settimana,
quasi John è tentato di tenerlo a casa con sé un giorno in più, ma poi lui insiste
per andare a scuola e si lascia convincere.
Il weekend arriva quasi subito e John nota con meraviglia
che il bambino non ha quell'impazienza che lo accompagna sempre il venerdì alla
prospettiva di passare due giorni a Baker Street.
Quel pomeriggio, quando John lo va a prendere a calcio
per portarlo da Sherlock, Hamish se ne sta accucciato sul sedile con la fronte
appoggiata al finestrino, l'espressione triste, tanto che si sente in dovere di
chiedergli se vuole rimanere a casa con lui. Il bambino scuote la testa, senza
troppa convinzione, e aspetta paziente di arrivare. Quella volta John scende
dalla macchina e prima di lasciarlo andare lo stringe in un abbraccio, dandogli
un buffetto sulla guancia. «Ci vediamo domenica sera, ok?»
Lui annuisce e John lo guarda fino a quando non sparisce
dietro la porta del 221b.
Intravede solo un'ombra scura sulla porta, poi sospira e
torna a casa, pronto a passare due interi giorni in completa solitudine.
~*~
Non fa che pensare ad Hamish, in
quei giorni, al suo viso abbattuto e preoccupato e alla rivelazione di qualche
giorno prima.
«Non voglio che voi moriate.»
Per quale motivo? Cosa intendeva
dire? E perché voi?
Per quanto ne sapeva nessuno dei compagni di Hamish era rimasto orfano nell'ultimo anno, e neanche gli
articoli di cronaca nera degli ultimi mesi avevano parlato di genitori uccisi
nel sonno o cose del genere. Deve capire il perché delle sue preoccupazioni, se
lo appunta mentalmente.
Neanche Sherlock aveva risolto un caso simile. Sapeva
cosa combinava l'ex marito grazie ai giornali che non riusciva mai a evitare di
comprare o di leggere, ed era l'unico modo per avere informazioni su di lui.
Hamish non ne parlava mai, ovviamente, e l'ultima volta che lo aveva visto di
persona era stato più di due anni prima, alla festa dei suoi cinquant'anni,
dove Hamish lo aveva trascinato a forza anche se lo
stesso Sherlock non aveva voluto organizzare niente né invitare nessuno, men
che meno lui. Avevano passato l'intera serata ad
ignorarsi, lì in quello stesso salotto che era stato spettatore della nascita
della loro amicizia, del dolore di John, della felicità del ritorno di Sherlock
e del loro amore improvviso e irruento. Lì Hamish aveva passato i suoi primi
anni, disteso sul tappeto a giocare, Mycroft aveva bevuto il the con una felice
signora Hudson al suo fianco che parlava del più e del meno, Harriet aveva
fatto la conoscenza dei signori Holmes e Lestrade aveva avuto la sua cotta per
Molly.
Ma era anche lì che tutto era finito, così come un giorno
era iniziato.
Dio, no…
Il cielo quella sera è nuvoloso,
John si aspetta che piova da un momento all'altro.
Si prepara una misera cena a base di pasta, poi va direttamente
in camera sua e si siede sul letto, sfogliando un paio di album di fotografie.
Li ha trovati per caso mentre sistemava la camera di Hamish e sospetta che il
bambino le abbia rubate a Baker Street quando Sherlock
ha, quasi sicuramente, pensato bene di buttarle via.
Non hanno mai fatto molte foto, Sherlock non amava molto
l'idea. In tutte quelle in cui compare anche lui ha
una faccia a metà tra il disgustato e l'annoiato, mentre solo John e, dove è
presente, Hamish, sorridono alla fotocamera. Si ritrova a sorridere tra sé e sé
quando vede le foto delle feste di Natale, con il piccolo che guarda
gioiosamente il padre mentre barcolla con in mano un
pacco regalo quasi il doppio di lui.
In una Sherlock sorride, gli
occhi che gli brillano mentre tiene per mano un adorante bambino che gli indica
il grande albero di Natale al centro di Trafalgar Square.
John si abbandona a quei ricordi lontani e così felici e
non si accorge ancora una volta del tempo che passa.
Raggiunge le foto del loro matrimonio quasi con avidità.
Guarda se stesso, felice come non mai stringere Sherlock e allungare il collo
per baciarlo, le fedi nuove scintillanti alle loro dita. Scivola con gli occhi
sui loro abiti lindi ed eleganti, neri, così come la sarta aveva loro
consigliato, guarda le loro mani unite durante il breve pranzo che avevano
organizzato da Angelo con i parenti più stretti e gli sguardi innamorati che si
scambiano.
E si chiede nuovamente perché.
Perché dopo tutto quello, dopo
tutto il dolore per la sua perdita e quell'amore infuocato che li aveva scossi
entrambi dal torpore dopo il suo ritorno, si fossero ridotti così.
Non sapeva com'era cominciata, non lo sapeva
proprio. Ricordava soltanto con certezza le coltellate al petto nel rendersi
conto della sua assenza, il dolore arrivato come pugnalate con il suo silenzio
e il letto vuoto alla sera prima di addormentarsi. I messaggi senza risposta,
le domande ripetitive di Hamish, le litigate e le occhiate indifferenti che
quegli occhi cristallini gli avevano rivolto.
E John, ripensandoci, soffre ancora, per la seconda (millesima)
volta.
Passa due interi giorni a ricostruire passo dopo passo i
giorni poco prima della catastrofe, a ricomporre nella sua testa i primi
sorrisi di Mary sul lavoro, le deduzioni sprezzanti in proposito di Sherlock, e
quel dolore e quella delusione che non facevano altro
che crescere di giorno in giorno.
Finché non arriva, chiaro come il giorno.
«Dove sei stato?»
Sherlock ha appena acceso la luce del salotto, John è
seduto nella sua poltrona con una tazza di the in mano e lo sguardo puntato
sulla porta. Sono le tre di mattina passate e le occhiaie intorno agli occhi di
John sono ancora più pesanti a causa dell'espressione dura e adirata con cui lo
guarda entrare in casa.
«Un caso.» risponde sul vago, mentre si toglie con
tranquillità estrema il cappotto e lo attacca dietro la porta.
«Un messaggio, Sherlock. Uno!» Si
alza in piedi di scatto, gli occhi che mandano scintille, e il moro rimane in
piedi di fronte a lui, impassibile.
«Si può sapere cosa ti prende? Si può sapere COSA SUCCEDE?» Neanche un battito di ciglia e ha già alzato la voce,
fatto quattro passi in avanti e preso Sherlock per il colletto.
Il detective si libera con uno scatto repentino, mandandolo
spalle al muro. Ed è lì, tra gli occhi lucidi e la voce tremante che lo urla.
«La nostra vita fa schifo.»
John si prende la testa tra le mani e fa due respiri
profondi, ricacciando indietro le lacrime.
Si rivede mentre rimane senza parole, mentre sente le
gambe improvvisamente molli e si accascia contro il muro. Lo rivede sgranare
gli occhi alle parole che ha appena pronunciato, lo vede fare alcuni passi
indietro, esterrefatto di averle dette ad alta voce.
Lo rivede mentre alza uno sguardo inorridito verso di lui e, dopo aver preso il
cappotto, scappa giù per le scale mentre John si accascia a terra, senza
respiro, gli occhi spalancati sulla stanza buia di fronte a sé.
Ricorda di essere rimasto lì tutta la notte, ricorda
Hamish scendere le scale al mattino e trovarlo ancora
lì; di averlo portato a scuola come in trance, di essere andato al lavoro ed
essersi messo a piangere dopo il secondo paziente della mattinata. Ricorda
Mary, la sua espressione preoccupata mentre gli chiedeva cosa era successo, gli
offriva un caffè e lo invitava a prendere qualcosa al bar sotto casa sua. I suoi sorrisi dolci, le sue parole rassicuranti, il suo cercare di
confortarlo.
Ricorda di aver chiamato Mycroft per chiedergli di
occuparsi di Hamish e poi di averla pregata di aiutarlo. Di averla baciata
disperatamente, di aver sentito il suo sapore in bocca, di averla spogliata e essersi fatto strada dentro di lei nel suo letto senza
smettere di piangere lacrime amare. Le sue carezze mentre lo abbracciava e si
faceva raccontare tutto, il proprio sollievo nell'essere compreso e
rassicurato.
Il volto di Sherlock che non lo abbandonava per un
secondo.
Quando torna non suona, sale le
scale con la testa altrove e si blocca sulla porta vedendolo seduto sulla
poltrona. Sherlock spalanca gli occhi, fa per alzarsi e dire qualcosa, forse
vuole scusarsi, ma poi i suoi occhi si posano su di lui, lo osservano,
deducono. La sua figura sembra afflosciarsi improvvisamente, il volto
trasfigurarsi, passare da agitato a sorpreso e
rabbioso nel giro di pochi secondi.
Lo oltrepassa senza una parola, il volto
una maschera di ghiaccio, e John non si volta per guardarlo uscire.
Sente solo la porta sbattere dietro di sé, e poi più
nulla.
~*~
La pioggia batte prepotente sulla finestra, uno scroscio
continuo, al di là solo buio, oscurità opprimente. Dal salotto sente i rumori
provenienti dal bagno e dalla cameretta di Hamish, che si prepara per andare a
dormire. Sono appena entrati in casa e John non si è nemmeno tolto la giacca
fradicia di pioggia, perso completamente nei propri pensieri. Hamish non ha
parlato per tutto il tragitto da Baker Street a casa,
quindi non ha avuto particolari intoppi.
In silenzio, ascolta, in piedi in
mezzo alla stanza, le mani in tasca e lo sguardo fisso sul vetro.
Poi sente dei passi felpati dietro di lui.
«Papà?»
La voce squilla incerta e John si volta, destandosi dai
suoi pensieri. Guarda giù verso il bambino che sta torturando l'orlo della
maglietta.
«Cosa succede?» chiede col tono
più dolce che riesce a trovare.
Il bambino distoglie gli occhi dai suoi e si guarda i piedi, muovendo le dita nude sul pavimento. «Io…»
esita. «Papà, Sherlock sta male.» alza la voce e scandisce bene le parole.
John per poco non si affloscia sulla sedia più vicina al
suono di quel nome: è da tanto che non lo sente pronunciare ad alta voce e si è
quasi dimenticato del suono che fa quando la lingua si arrotola sul palato.
Socchiude gli occhi e lo guarda, vede il disagio che ha regnato sovrano sul suo
volto per tutta la settimana scivolare via in un battito di ciglia.
Si chiede se ha imparato a leggere nel pensiero pure lui.
Sospira e guarda fuori dalla finestra, osservando il
proprio riflesso contro l'oscurità dell'esterno. «Si sarà preso
la solita polmonite dopo essersi buttato nel Tamigi.» esala con un filo di voce.
Non è più un mio problema, dice
un'altra voce nella sua testa.
«Tu non capisci!» strilla Hamish di colpo, e John sente
il cuore stringersi in una morsa dolorosa. Si gira, pronto a fronteggiare un
altro dei suoi pianti, ma lo sguardo che vede nei suoi occhi lo distrae: Hamish
ha il volto contratto dalla rabbia, gli occhi lucidi, le mani hanno abbandonato
la maglietta e sono strette a pugno lungo i fianchi. Una scintilla passa negli
occhi, una scintilla di pura paura.
«Non voglio che voi moriate.»
John rimane imbambolato a fissarlo, senza avere le parole
per replicare, ma ci pensa Hamish a portare avanti il discorso.
«È dimagrito, ha le occhiaie e gli occhi rossi, cerchiati
di nero! È pallido e quando l'ho abbracciato mi è
sembrato di sentire le ossa sotto la pelle!» urla, e comincia a piangere e
dirotto.
John si muove in avanti. Vuole abbracciarlo, vuole stringerlo e rassicurarlo perché quello che vede non è
uno dei suoi soliti piagnistei: Hamish è terrorizzato.
Il bambino fa un passo indietro e continua a parlare tra
le lacrime. «Non ha mangiato il take-away né venerdì né
sabato, quando sono andato da lui la prima notte mi ha cacciato.» qui tira su
col naso, forse ricordando quel momento e chiedendosi per quale motivo l'abbia
fatto. «La sera dopo quando sono sceso stava… stava piangendo…» conclude, stropicciandosi gli occhi per scacciare le lacrime
e abbassando la testa, come se si sentisse a disagio nel raccontarlo, come se
non volesse rivelare quella debolezza che aveva visto nel suo forte e
coraggioso papà. «È colpa tua! È solo colpa tua!» urla ancora, poi si gira e scappa per il corridoio verso
la sua cameretta.
John lo guarda andare via a bocca aperta. Ignora subito
la rivelazione del take-away (più volte si era chiesto cosa mangiassero durante
le loro sere, data la totale incapacità di Sherlock nel cucinare) e non si
chiede neanche per quale motivo Hamish dorma con lui. Si focalizza subito sulle
parole del malanno di Sherlock, chiedendosi che cosa diavolo stia facendo. E il
pianto. Sherlock non piangeva mai. Lo aveva fatto una volta sola in sua
presenza, quando lo aveva chiamato dal tetto del Bart's
per dargli quello che doveva essere il suo ultimo saluto.
«Non voglio che voi moriate.»
Si chiede se si è lasciato all'abbandono, se in assenza
di qualcuno che si preoccupi della sua salute abbia smesso di curarsi. Si
chiede chi potrebbe aiutarlo e a chi chiederebbe aiuto se non a lui. Sa che se
Hamish è così spaventato è perché Sherlock sta veramente male.
Improvvisamente ha paura anche lui.
Si aggira per la seguente mezzora per la casa, pensando a
tutto e a niente, poi prende una decisione.
Sale nella cameretta e bussa piano alla porta. Nessuna
risposta. Quando mai.
Apre con delicatezza e guarda la figura di suo figlio
avvolta tre le lenzuola, stretto in un bozzolo nel buio più totale.
Sa che non sta dormendo.
«Vado a vedere cosa sta succedendo.» mormora, e il
bambino si tira su di scatto. Ha gli occhi arrossati dal pianto e lo guarda con
sorpresa. «Vengo anch'io!» balza giù dal letto e ha già una mano sulla maniglia
dell'armadio quando John lo blocca.
«No, ho… ho bisogno di parlargli da solo. Io e tuo padre
dobbiamo parlare.» Sospira, osservando con stanchezza
l'espressione completamente persa di Hamish.
«Vai a letto, ne riparliamo domani
mattina. Non aspettarmi alzato, potrei fare tardi.» sussurra, poi, dopo un
attimo di indecisione, si gira ed esce. Sta per
chiudere la porta quando Hamish la blocca con un piede scalzo. Guarda in su verso di lui con gli occhi grandi, carichi di
aspettativa. «Digli che gli voglio bene. Un mondo di
bene.» dice, la voce tremante.
John lo guarda e qualcosa cade dentro
di lui. Lo guarda e vede tutta l'ammirazione che quel bambino prova per
quell'uomo singolare, dai modi bruschi e dagli occhi azzurri (grigi e verdi)
quell'uomo di cui si è perdutamente innamorato anni prima. Lo guarda e pensa
che a lui, quel ti voglio bene, non lo ha più detto.
«Va bene.» è la sua risposta, e sente il suo sguardo penetrante
sulla schiena fino a quando non svolta nel salotto.
Afferra la giacca e chiude la porta a chiave, due
mandate, poi esce alla ricerca della macchina che non si ricorda dove ha
lasciato.
Almeno, ha smesso di piovere.
*sbuca dalle
tenebre*
La verità è che
sono due idioti, diciamocelo…