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Autore: stereohearts    16/09/2014    4 recensioni
Carter Harvey è un concentrato di rabbia, acidità e dolore. Dopo un passato – che non sembra essere poi così ‘passato’ - particolarmente tormentato, un incendio misterioso alle spalle ed un fratello in carcere sta cercando di spostare la sua vita su una strada più rettilinea e con meno dossi possibili, concentrando l’attenzione su scuola, amici ed un secondo fratello, Elia, spesso assente per lavoro.
Justin Bieber - che ha il suo bel da fare con una famiglia, residente a Stratford, decisamente assente ed una zia, vedova, caduta nel baratro di alcool e fumo - è un ventenne dalla bellezza disarmante, incline al perdere molto facilmente il controllo della situazione ed un caratterino pungente, corroso dai segreti che porta con sé ed una, poco salutare, dipendenza dalle sigarette.
 
San Diego.
Un incendio misterioso.
Due vite che si scontrano irreversibilmente.
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'Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera di questa persona, né offenderla in alcun modo'
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In revisione.
Genere: Mistero, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Justin Bieber, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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4.






Justin









 
“Justin, per favore, cerca di lasciarmi spiegare”  mi implorò per l’ennesima volta, con la voce bassa e impastata, facendo l’azzardato gesto di mettermi una mano sulla spalla.
“No” mi affrettai a scrollarmela bruscamente di dosso, sentendo la mia voce insinuarsi prepotentemente anche nelle mie orecchie, facendomi rabbrividire. “Non voglio più stare a sentire le tue stronzate, il mio limite è arrivato.”
Mi abbassai al livello del letto, sfatto, e scostando leggermente il lenzuolo che sporgeva riuscì ad individuare la valigia che stavo cercando. La trascinai sul materasso, ignorando la coloratura grigia che aveva assunto a causa della muffa; la aprii il più velocemente possibile, scaraventandovi dentro il pacco di sigarette che avevo dimenticato sul comodino - come se quel gesto bastasse a farle capire che facevo sul serio, quella volta.
“Tesoro, lo sai che posso sistemare tutto, lo sai che ne sono capace” riprese il suo discorso, accennando ad avvicinarsi ulteriormente. “Devi solo essere paziente ancora un po’, devi fidarti di me un’altra volta.”
Mi scostai dal bordo del letto, giusto in tempo per evitare che le sue braccia tentassero di avere un altro approccio con me, sentendo poi il tonfo sordo con il quale - non riuscendo a reggersi ulteriormente in piedi - era atterrata sul letto, facendo rimbalzare anche la valigia.
“Ma guardati, non ti reggi in piedi” sbottai improvvisamente, aprendo le ante del vecchio armadio in legno - scricchiolarono fastidiosamente a causa della poca cura ricevuta; iniziai ad afferrare quei pochi vestiti che vi tenevo ancora dentro, buttandoli dentro la valigia, scaricando in quei gesti tutta la mia rabbia. “Sei già ubriaca alle cinque del pomeriggio, cazzo. Come diavolo dovrei fare a crederti? Pensi che mi sia fottuto il cervello, per caso?” urlai quella volta, allargando il braccio destro e usando l’altro per scaraventare un pantalone dentro la valigia. “No, io con questa merda non ci voglio più avere niente a che fare!”
“Justin, ti prego, non lasciarmi anche tu” continuò imperterrita nel suo, decisamente inutile, tentativo di tenermi a casa con lei. Cercò di darsi un minimo di dignità alzandosi la spallina della vestaglia leopardata che indossava - e che lasciava decisamente poco all’immaginazione. “Lo sai che è difficile per me, lo sai che ci sto provando per davvero, questa volta.”
Afferrai un paio di scarpe nere, buttando anch’esse sopra il resto degli indumenti, lanciandole un’occhiata sprezzante. “Non abbastanza, a quanto mi sembra” ribattei acidamente, chiudendo l’armadio prima di fiondarmi con foga sul comodino dei boxer, bisognoso di avere altra roba tra le mani da lanciare - per non usare altri oggetti meno consigliabili.
Lo aprii velocemente, notando con disappunto che era una di quelle parti che avevo già svuotato completamente, -  come il cassetto sottostante dei calzini. E così come lo doveva essere il comodino che affiancava l’altra sponda del letto.
Alzai lo sguardo, passando velocemente in rassegna la stanza, cercando di ricordare qualche possibile cosa che avessi dimenticato di prendere con me; ma l’unica cosa che i miei occhi riuscirono a scorgere fu la sagoma immobile e rilassata del corpo, molleggiato sul letto, di mia zia. Era così da sempre, con lei; sin dal primo giorno in cui avevo lasciato che mi spedissero a San Diego per viverci insieme. Quando ad aspettarmi in aeroporto, al posto di una bellissima donna quarantenne che la mia testa ricordava, avevo trovato gli avanzi di un dopo-sbronza mastodontica. E dopo l’infinitesimale quantità di ‘ti prometto che mi lascerò aiutare’ e di ‘è difficile, lo sai’ che erano usciti dalla sua bocca, che ormai sembrava vivere solo per quella stupida imboccatura delle bottiglie di alcolici che si scolava come fossero acqua, mi ero stufato.
Mi ero stancato di alzarmi la mattina e trovarla priva di sensi sul divano - mezza nuda molto spesso -, circondata da preservativi e bottiglie vuote; mi ero stancato di rivestirla, farla stendere nel suo letto e prepararle quantità industriali di caffè ed aspirine per farla ‘stare meglio’.  E se poi la vedevo uscire in uno di quei stomachevoli ‘vestiti’ - che nemmeno una quindicenne con il corpo di Beyoncè avrebbe osato indossare -, per poi rincasare con un aspetto che andava peggiorando di volta in volta, quello voleva solo dire che lei, di provare a stare meglio la mattina dopo, non ne avrebbe mai voluto sapere. E allora, io, di starci in quella merda che si trascinava dietro e che prima o poi avrebbe provato a convincermi non fosse così male, non ne volevo più sentir parlare.
Mi passai una mano sulla faccia, distogliendo la mia attenzione da quella visione; infilai una mano nella tasca dei jeans e ne estrassi il cellulare, che proprio in quell’istante iniziò a vibrare insistentemente. Il nome di Blake era  impresso a grandi lettere sullo schermo.
“Ci sei?” domandai appena accettata la chiamata, ignorando i soliti preamboli ai quali le altre persone accennavano prima di arrivare al nocciolo della conversazione.
L’unica risposta che arrivò alle mie orecchie fu un flebile mugugno d’assenso prima che la chiamata terminasse improvvisamente.
Infilai il cellulare in tasca, guardandomi lentamente intorno alla ricerca anche di un solo e minuscolo motivo per il quale disfare quella valigia e non sbattermi quella porta dietro le spalle, definitivamente . Ma quando i miei occhi si soffermarono nuovamente sul corpo immobile, immerso nel sonno, di mia zia,  tutti i dubbi che come sempre mi assalivano si volatilizzarono in qualche secondo, lasciando spazio alla fermezza che avevo usato nel prendere quella decisione - che quella volta avrei portato avanti.
Mi chinai verso il letto, non curandomi di fare rumore visto che lei comunque non avrebbe sentito niente, chiudendo la valigia con un giro secco della cerniera. La poggiai a terra sulla mia gamba, per avere le mani libere di portare il lenzuolo sul suo corpo infreddolito, sistemandolo meglio che potessi così da tenerle caldo almeno fino a suo risveglio.
Frugai tra i cassetti del bagno ed afferrai un pacco di aspirine, poggiandolo sul comodino di fianco al letto assieme ad una bottiglietta d’acqua.
Infilai la mano sotto il manico della valigia e scesi il più velocemente possibile le scale, prima che quello stupido sentimento chiamato ‘compassione’ prendesse il sopravvento sulla mia razionalità e mi convincesse a restare.
Sulla porta  di casa afferrai la chiave che portavo al collo - che avevo fregato da sotto al tappetino all’entrata per riuscire ad entrare in casa quando lei mi ci chiudeva fuori per non essere vista con i suoi ‘fidanzati’ - , per poi staccarla con un gesto secco e rimetterla sotto allo zerbino bordeaux.
Lanciando un’ultima occhiata all’enorme villa che mi stava di fianco, visibilmente poco curata dopo la morte dello zio, mi portai dinanzi al bagagliaio della macchina di Blake; aprendo il cofano ci gettai dentro la valigia prima di entrare in macchina, sui sedili posteriori che profumavano di fresco e menta. Allungai i piedi, per quanto mi fosse possibile, ed appoggiai la schiena allo sportello; lasciai scivolare la testa sul finestrino mentre con le mani tastavo la stoffa dei miei jeans, alla ricerca delle sigarette -  che solo dopo ricordai avevo dimenticato in quella maledetta valigia.
“Fanculo” bofonchiai frustrato, sporgendomi in avanti tra i due sedili in pelle; sottrassi a Blake il suo pacco di Merit, fregandogli due sigarette e l’accendino.
“E’ okay, amico” tentò di rincuorarmi il moro, cercando di intravedere qualcosa della mia espressione attraverso lo specchietto retrovisore, che era contor0nato da una sottospecie di verme di peluche multicolore con la faccia più sorridente che avessi mai visto su un pupazzo.
Annuì distrattamente - non preoccupandomi di assicurarmi se Blake mi avesse visto o no -, infilando la sigaretta tra le labbra e chiudendo gli occhi, sperando che ad avvolgermi, quella volta, fosse finalmente solo il nero.



 
 
 
 
 
 

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Appoggiai bruscamente la bottiglia di birra sul bancone,  spaventando la ragazza dai capelli aranciati che me l’aveva servita poco prima. Mi lanciò un’occhiata ammonitrice, grazie alla quale mi accorsi del liquido che avevo fatto cadere sul piano in legno – e che probabilmente sarebbe stata lei a pulire.
Ma di quello poco m’importava, sinceramente.
Con altrettanta velocità schiacciai con il palmo della mano i soldi che le dovevo per l’ordinazione sotto il naso, e senza aspettare quei pochi spiccioli di resto che mi sarebbero spettati mi alzai dallo sgabello alla ricerca di un posto qualunque. Purché mi tenesse lontano da Jared e dalle sue frecciatine, che con l’aggiunta dei quattro o cinque bicchieri di drink super alcolici che aveva bevuto risultavano particolarmente irritanti. Senza nemmeno rendersene conto, mi stava con il fiato sul collo da quella mattina. Ma, nonostante ne avessi perfettamente intuito il motivo, non ero completamente certo che sarei riuscito a non esplodere fino al termine della serata; la massa di persone sudaticce e disattente che si spintonavano l’un l’altra di qua e di là, tra l’altro, non contribuivano di certo a migliorare la situazione. Sentì la voce di Jared dietro di me confondersi con il volume troppo alto della musica, che fece risultare ciò che stava dicendo un semplice mix di parole inesistenti.
Il mio cervello offuscato dall’alcool, però, non ci impiegò molto ad ipotizzare almeno una parte di ciò che fosse uscito dalla bocca del biondo.
Strinsi i denti contro l’urgenza che mi faceva desiderare di arrestare i miei passi e prenderlo a pugni lì in quell’angolo buio,  dove quasi nessuno si sarebbe potuto accorgere di niente - e quei pochi che comunque ci avessero fatto caso avrebbero semplicemente pensato ad un’innocua scazzottata tra amici ubriachi. Nonostante sapessi che fosse solo ed unicamente grazie all’alcool che la piccola e remota parte di lui che credeva fossi stato uno stronzo ad abbandonare mia zia, fosse riuscita a prendere il sopravvento.
Mi infilai tra un paio di ragazzine visibilmente fuori luogo, infrangendo prontamente il piccolo prototipo di catena umana che avevano formato nel stringersi l’una all’altra; non prestai nemmeno troppa importanza all’apparire uno stronzo patentato - anche perché quasi certamente lo ero stato; ma anche di quello m’importava ben poco.
Lasciai la mia camminata assumere un’andatura più lenta mentre salivo la quindicina di scale in acciaio che portavano al piano di sopra, che doveva essere diventato una sottospecie di area fumatori. Lì ricordavo d’aver visto esserci vari balconcini quando, un paio di giorni prima, avevamo aiutato Tyreek a fare qualche modifica al locale.
Dopo la partenza improvvisa di suo padre per Lisbona assieme alla sua nuova fidanzata Finlandese ed il cane di quest’ultima, Chanel, era stato lui ad assumere il ruolo del capo in tutto e per tutto.
Infilai una mano nella tasca del jeans estraendone il pacco di sigarette e l’accendino giallo di Blake, che avevo dimenticato di restituirgli un paio di giorni prima; a pensarci bene, avevo perso di vista lui ed i ragazzi da un paio d’ore ormai.
“Justin.”
Sobbalzai leggermente nel sentire la voce di Jared così vicina a me. Lasciai scivolare l’accendino in una tasca a caso, lanciandogli una veloce occhiata. “Cazzo, Jared, dammi tregua” borbottai, senza alzare di troppo il tono di voce, sapendo che sarebbe riuscito in qualunque caso a sentire le mie parole. Voltandomi verso il balcone, pronto a mandarlo via anche a pugni se necessario, mi trovai costretto a bloccarmi sulla soglia.
Osservai ammaliato la figura esile di una ragazza che sedeva sulla ringhiera del balcone, con una birra che faceva dondolare tra le gambe leggermente divaricate ed una sigaretta tra le labbra piene, tinte di viola.
Scossi la testa lasciando fuoriuscire dalla mia bocca una piccola nuvoletta di fumo che s’infranse contro i suoi improbabili capelli, procurandole una smorfia appena accennata mentre con la mano sventolava l’aria di fronte al naso. “La mia vita non è affar tuo, Grant” continuai, poco disturbato dalla sua presenza lì in quel momento. Spostò i capelli scuri, assurdamente tinti di blu per metà della lunghezza, su una spalla, inclinando la testa in direzione di un punto aldilà della mia spalla dove sicuramente c’era ancora Jared. Potevo sentire il suo respiro pesante sulla nuca.
“Nemmeno la mia lo era, Bieber” ribatté lui, acido. Riuscì a voltare la testa giusto in tempo per ricambiare l’occhiataccia rancorosa che mi aveva lasciato, prima che girasse i tacchi e sparisse tra la folla.
Nonostante ciò, la dura consapevolezza che lui avesse effettivamente ragione si fece largo un istante dopo in me, lasciando indietro rabbia ed irritazione. Ma io ero troppo orgoglioso e lui troppo ubriaco perché una nostra eventuale e successiva conversazione potesse definirsi effettivamente tale, perciò non lo rincorsi come lui aveva fatto con me.
Sbuffai rumorosamente passandomi una mano tra i capelli, sentendomi addosso lo sguardo di Carter.
Ricordavo perfettamente quando ieri Ian me l’aveva indicata, seduta su un dondolo in un ridicolo - e alquanto adorabile su di lei - pigiama  a fantasia di coniglietti. Ricordavo come mi fosse sembrata dannatamente bella e tenera con le guance rosse per l’imbarazzo.
E ricordavo perfettamente la sensazione che mi aveva lasciato addosso, come se l’avessi già vista, come se la conoscessi da tempo. Una sensazione di familiarità che mi aveva seguito per le ore successive sino a quando non l’avevo ricordata: Carter Harvey. La più piccola degli Harvey. La sorellina stronza di Dante, dannazione.
Lì, nel realizzare ciò, mi ero reso conto che la mia permanenza a San Diego si sarebbe prolungata più del previsto.
All’improvviso l’atmosfera serena e rilassante che avevo trovato sul quel balconcino assieme alla piccola Harvey dai capelli blu si guastò, costringendomi ad abbandonare il ricordo. Il rumore dal piano inferiore arrivò improvvisamente, come un lampo a ciel sereno, alle nostre orecchie; quelle che inizialmente avrei potuto scambiare per risate di qualche ragazzino che non reggeva abbastanza l’alcool, in seguito si rivelarono per ciò che erano in realtà - grazie alla musica che stava diminuendo gradualmente: urla. Carter  strabuzzò gli occhi lasciando che il collo della bottiglia di vetro le scivolasse tra le dita, rotolando vicino alla punta delle mie scarpe.
L’istante dopo sentì il suo corpo oltrepassarmi velocemente diretto verso il punto in cui si concentrava la maggior parte della ressa.
“Che diamine di intenzioni hai, eh ?” le urlai dietro capendo al volo quello che stava pensando davvero di fare, iniziando - per qualche indefinito ordine da parte del mio cervello - a seguirla giù per le scale, costretto a saltarne tre alla volta per non rischiare di perderla in mezzo alla folla. La maggior parte delle ragazze si stava rifugiando, chi abbracciata alla propria borsa, chi all’amica e chi alla prima persona o cosa a portata di mano, ai lati della pista. Nel frattempo una folla di persone - uomini precisamente - continuavano a spingersi l’uno contro l’altro come onde del mare sugli scogli, provocandosi con spintoni e piccoli schiaffetti che sapevo perfettamente in cosa si sarebbero trasformati di lì a pochi istanti.
“Justin. Diavolo, amico, dove cazzo vuoi andare?” mi urlò allarmato Sal, piazzandosi completamente di fronte a me e spezzando la linea visiva che avevo tenuto per tutto il tempo con il corpo di Carter - che adesso avevo perso.
“Dannazione, Sal” urlai, cercando di sorpassarlo. “Lasciami passare, cazzo!”
“Devo ricordarti che cazzo è successo l’ultima volta che ti sei immischiato in cose che non ti riguardavano?” mi ringhiò lui in risposta, poggiando la mano sulla mia spalla, stringendola più forte che riuscisse per cercare di farmi stare fermo. In quel momento, però, non riuscivo nemmeno ad assimilare correttamente ciò che mi stava urlando, perché l’unica cosa che riuscì a cogliere fu un pugno in aria ed il corpo di un uomo dai capelli scuri arretrare di qualche passo, barcollando. Questo si riprese qualche secondo dopo, scuotendo la testa prima di stringere le mani, pronto a contrattaccare; e lo avrebbe davvero fatto, lo sapevo, se non fosse stato per il corpo piccolo ed esile di quella stupida ragazzina dai capelli blu che si frappose tra di loro. Urlò qualcosa, lanciando ad entrambi occhiate rabbiose, probabilmente sperando che ciò bastasse per calmare gli spiriti. Questo non sembrò funzionare perché un istante dopo varie urla riempirono l’aria ed un ragazzo dai capelli biondi, sui venticinque anni, e che mi risultava vagamente familiare, si fece avanti con il braccio teso e le mani strette.
E poi tutto successe talmente in fretta che dovetti sbattere gli occhi un paio di volte prima di riuscire ad assimilare che l’urlo di dolore che aveva gelato l’aria fosse di Carter. I
Carter che in quel momento era distesa a terra, con la testa girata di lato e il volto coperto dai capelli, mentre la folla ricominciava a spintonarsi, questa volta con più decisione ed ignorando la ragazza.
“Cazzo, lasciami Sal. Lasciami” urlai, divincolandomi dalla sua presa, ed iniziando a correre verso il punto in cui era ancora immobile lei. Capì che Sal aveva seguito il mio sguardo, comprendendo la situazione, solo quando lo udì urlare a gran voce i nomi di Ian, Tyreek, Sal e Blake.
Ma oltre a ciò non riuscì a sentire nient’altro mentre mi fiondavo sul corpo inerme di Carter, piegandomici sopra per accertarmi delle sue condizioni. E feci probabilmente il miglior gesto avventato della mia vita perchè nello stesso istante un ragazzo inciampò all’indietro, rotolandomi sulla schiena mentre atterrava con una scarpa sulla mia mano, calpestandola. Mi morsi il labbro trattenendomi dall’alzarmi e prendere a pugni chiunque mi capitasse sotto tiro, rimettendomi in piedi e trascinando Carter con me. La avvolsi con entrambe le braccia facendomi spazio attraverso un paio di ragazze che ci guardavano - visibilmente preoccupate; la portai dietro al bancone della zona bar, dove la feci sedere su una sedia mal ridotta. Iniziai ad aprire ogni cassetto o anta alla ricerca di un qualche strofinaccio, che trovai qualche attimo dopo appeso su un chiodo al muro. Lo aprì per bene afferrando poi il contenitore del ghiaccio e buttandocelo sopra, in abbondanza, richiudendolo con un nodo. 
“Mettilo sulla guancia” ordinai alla ragazza, allungandole l’improvvisata ‘borsa del ghiaccio ’ - speravo che si decidesse finalmente ad alzare la testa e permettermi di osservare quando grave fosse il danno, anche se non ero completamente sicuro di volerlo sapere per davvero. Una cosa, però, la sapevo già: un gancio di quelli avrebbe lasciato il segno, e per un bel po’ anche.
Carter afferrò prontamente ciò che le stavo porgendo iniziando a tamponarsi il volto, ancora nascosto dai capelli, mordendosi le labbra per non lasciarsi sfuggire qualche gemito di dolore. In realtà, non si era lasciata sfuggire niente; una lacrima, una smorfia di dolore o un qualche tipo di parolaccia contro il ragazzo che le aveva tirato il pugno. E io dovevo ancora capire se quello fosse un bene o meno.
“Vieni” sussurrai, facendole segno con la testa di seguirmi. Iniziai a farmi largo tra le poche persone rimaste attaccate contro i muri, alla ricerca dell’uscita d’emergenza, che trovai quasi immediatamente dietro alle scale che portavano al piano superiore.
Le aprì la porta e la condussi verso la macchina di Blake, continuando a farle scudo con il mio corpo; si appoggiò sul cofano, tenendo ancora l’impacco ghiacciato sulla guancia, fissandosi le scarpe bianche piene di borchie.
Continuai ad osservarla, non sapendo cos’altro fare per lei; in realtà dovevo ancora capire per quale assurdo motivo avessi avvertito quell’urgente bisogno di impedire che qualcuno le facesse del male. Avrei cercato di aiutare qualunque altra ragazza si fosse trovata al suo posto, ovviamente, ma la rabbia e lo smarrimento che avevo provato nel vedere quel pugno colpirle la faccia, facendola cadere rovinosamente a terra, mi avevano sorpreso più di quanto mi sarei potuto aspettare.
E davvero non ne capivo il motivo.
Un rumore sordo, precisamente lo sbattere di una porta, mi fece sobbalzare costringendomi ad abbandonare il flusso dei miei pensieri; voltai la testa osservando stranito il ragazzo dagli occhi chiari avvicinarsi, barcollante e visibilmente ubriaco, con lo sguardo fisso sul corpo della ragazza che stava dietro di me.
Ter, Dio, che ti hanno fatto?” borbottò, incespicando nei lacci delle sue scarpe, tenendosi la pancia con la mano. E ne dedussi che sicuramente si conoscessero già, ma in quel momento non mi interessava; non volevo nessuno in mezzo ai piedi.
“Senti, amico, è meglio che tu te ne vada” lo avvisai, indietreggiando di qualche passo così da coprirgli la visuale su Carter; le sentì stringere la mia maglietta, ma non riuscì a capire se per ordinarmi implicitamente di darmi una calmata o come cenno d'assenso nel volerlo mandare via.
Non le avrei comunque dato retta, quindi perchè perdere tempo a cercare di capire?
Il ragazzino scosse la testa, facendo qualche altro passo in avanti; continuava a borbottare di cose a prima vista insensate, alle quali però lui sembrava seriamente dare un senso logico.
Era sbronzo marcio, e forse voleva solo fare il simpatico, o forse ancora non si rendeva nemmeno conto di ciò che stava facendo.
Ma io mi stavo comunque innervosendo; sentivo che tutta la rabbia repressa per Jared, mia zia, Dante, quella serata, Carter, me stesso, stavano venendo lentamente a galla nonostante cercassi in tutti i modi possibili di fermare la sua avanzata. E prima che potessi anche rendermene conto la mia mano si alzò velocemente, scontrandosi con lo stomaco morbido del ragazzo, che si piegò in avanti per il dolore.
Io iniziavo a sentirmi già meglio però, così riuscì ad impedire a me stesso di continuare il lavoro.
Mi voltai verso Carter, che mi guardava a bocca aperta con un’espressione che era un misto tra rabbia ed irritazione.  Quello con cui mi scontrai, però, mi lasciò senza parole: la sua guancia era gonfia e del colore del fuoco, le labbra avevano assunto lo stesso colore luccicante, anche a causa del sangue che le colava da un taglio sul labbro inferiore. Le gocciolava giù lungo il mento, per poi annidarsi sulla sua canottiera bianca, creando un contrasto di colore che mi diede alla testa. Impegnata però com’era ad ammonirmi con lo sguardo, non sembrò nemmeno accorgersi di quel ‘piccolo’ particolare.  
Probabilmente il biondino doveva essere il suo ragazzo, ma anche di quello mi importava ben poco. Volevo solo recuperare i miei amici, portare a casa la ragazza così che fosse al sicuro, e andare a dormire.
“Entra in macchina” le ordinai, porgendole le chiavi. Sfilandole dalle mani l’asciugamano con il ghiaccio, lo portai sul suo volto. Con la mano libera estrassi il mio telefono dalla tasca dei jeans e glielo infilai in mano. “Dammi il tuo. Se hai bisogno di qualcosa o qualcuno ti importuna, chiamami e arrivo” aggiunsi.  Passò qualche istante in assoluto silenzio, fissandomi la faccia come se stesse avendo a che fare con un fantasma.
Quello però non era il momento di ricollegare il passato con il presente; ce ne sarebbe stato, di tempo, per domandarsi cosa diavolo ci facevo di nuovo nei paraggi.
Stufo, infilai gentilmente la mano nella tasca posteriore dei suoi jeans – maledettamente aderenti, tra l’altro – facendola così ritornare bruscamente alla realtà. Le sfilai il telefono e, afferrando per il braccio il marmocchio, imboccai di nuovo il portone in metallo. “Entra in macchina e chiuditi dentro” le ordinai un’ultima volta, prima di rituffarmi nella confusione del locale.
Alla prima occasione, abbandonai il suo amichetto su una ragazza dai capelli rossi, raccomandandomi di farci ciò che voleva.
E solo dopo essermi liberato di quel peso, mi dedicai alla ricerca di Sal e gli altri.
Qualcuno stava ancora cercando di opporre resistenza scalciando l’aria, mentre i buttafuori che finalmente si erano decisi ad intervenire avevano provveduto a liberare la pista, che in quel momento era occupata solo da qualche bottiglia rotta e un mazzo di chiavi abbandonato, stretto ad un portachiavi a forma di scarpa.
Le finestre erano tutte spalancate e l’aria era diventata gelata, tutto il contrario del mio corpo ancora accaldato e contornato da un leggero strato di sudore, che rabbrividì improvvisamente; lanciai una veloce occhiata all’enorme orologio digitale appeso al muro che segnava le quattro del mattino, e spostai in seguito lo sguardo sul bancone, dove riuscì a scorgere ciò che cercavo, o meglio chi. Mi avvicinai velocemente incontrando lo sguardo di Ian prima di tutti. “Dov’è?” domandò, guardando dietro di me cercandola, mentre continuava a sorseggiare una birra ormai al termine. “Sta bene?”
“E’ in macchina” risposi, afferrando un bicchiere pieno che Sal si rigirava tra le mani e bevendone il contenuto tutto in una volta, scuotendo la testa. “Vogliamo andare?” continuai, sbattendo il bicchiere sul bancone, facendolo tremare un po’ per l'impatto brusco e violento.
Sal fu il primo ad alzarsi, facendo strisciare lo sgabello sul pavimento, seguito poi a ruota da Ian e Blake, che aveva un piccolo ma visibile graffio sul sopracciglio. Strinsi i pugni e accennai un saluto con la testa a Tyreek, che continuava a fare avanti e indietro mentre discuteva con un’agente, troppo nervoso per poter dire altro.
Tutto quel casino solo perché una stupida ragazzina voleva fare l’eroina della situazione. E cosa ne aveva guadagnato? Metà faccia viola per una settimana, o nel caso peggiore, due al massimo tre.
“Justin” mi richiamò Sal, facendo sembrare il mio nome più che altro una domanda incerta; mi posò una mano sulla spalla e la strinse tra le dita per convincermi.
Eravamo ormai di fronte alla macchina, e da quella distanza riuscivo ad intravedere il corpo di Carter molleggiato sui sedili posteriori, con il cappuccio della mia felpa tirato su ed il cellulare stretto saldamente tra le mani. Sospirai rassegnato, passandomi una mano tra i capelli; sentivo che finalmente stavo iniziando ad assimilare ciò che realmente era accaduto nell'arco, non solo delle ultime ore, ma di tutta la giornata.
Mi voltai verso Sal, mentre i ragazzi prendevano posto in macchina facendo attenzione a non fare troppo rumore nello sbattere le portiere - cosa vana ovviamente -, in attesa che mi dicesse ciò che doveva. Ma, quando finalmente si decise a parlare, iniziai davvero a sperare che non lo avesse fatto.
“Era Travis, il ragazzo che l’ha colpita.”



 










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Author's corner:
Okay, sono decisamente in ritardo, perdono.
Avevo intenzione di pubblicarlo già Domenica, ma ho avuto problemi con la connessione, poi ieri è ricominciata la scuola e per colpa di un guasto al treno sono arrivata a casa decisamente tardi, ho mangiato e sono crollata, quindi eccomi qui, oggi, fresca come una rosa(?) lol
Beh, in realtà anche adesso andrei un pò di fretta. E più che altro mi interessa sapere cosa ne pensate voi di questo capitolo(?) che è dal punto di vista di Justin, del quale abbiamo scoperto un altro pò ouo ovviamente come gli atri ci sono alcune cose poco chiare, ma con l'andare avanti dei capitoli, sperando, si chiariranno.
E probabilmente, d'ora in poi, vista la scuola, dovrei aggiornare più che altro ogni fine settimana, tra Sabato e Domenica. 
E ci tengo a precisare che io sono assolutamente contro la violenza sulle donne, questa è solo una storia.
Ora, però, devo davvero andare ç.ç
E boh, che ve ne pare(?)



Sciao 


 
   
 
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