Put your hands on my body
Passare
la notte con Jonathan non era esattamente in cima
alla lista dei suoi desideri, ma in mancanza di meglio avrebbe dovuto
arrangiarsi. Mentre frugava alla ricerca della sua camicia da notte, si
ricordò
che in effetti lei ce l’aveva eccome
un’alternativa. Un’alternativa alta,
snella e decisamente affascinante.
Mise
via la camicia da notte, recuperò il fodero della spada
e lo allacciò alla cintura. Stava giusto per scavalcare il
davanzale e uscire
quando Jonathan varcò la soglia. Gli occhi scuri sembrarono
capaci di
immobilizzarla, neanche fosse stato un coniglietto abbagliato dai fari
di una
macchina.
-
Dove stai andando? –
-
Non mi pare che siano affari tuoi, no? – ribattè.
Jonathan
inarcò un sopracciglio, sprezzante. – Voglio solo
essere certo che tu non mandi a rotoli la missione solo per andarti a
rotolare
tra le lenzuola con mio padre. –
Beccata
in pieno.
-
Non stavo andando da Valentine, volevo solo prendere un po’
d’aria – mentì rapidamente, ma persino
alle sue orecchie suonava come una bugia
molto poco convincente.
Le
si avvicinò con l’andatura sinuosa di un serpente,
continuando
a fissarla negli occhi. Un ghigno gli increspò le labbra
sottili mentre scuoteva
la testa fintamente deluso.
-
Pensavo che sapessi mentire meglio di così, Katherine.
–
Si
fermò a pochi centimetri da lei, le labbra che quasi si
sfioravano mentre parlavano. Eppure in quel momento, ipnotizzata
com’era da
lui, non trovò nulla di male nel fatto di averlo
così addosso.
-
Se anche fosse non è un tuo problema, no? –
trovò la forza
di ribattere, maledicendosi mentalmente per come suonavano titubanti le
sue
parole.
Una
delle mani alabastrine di Jonathan si posò sulla sua
guancia, giocherellando distrattamente con un’onda corvina.
Mai come in quel
momento le ricordò così tanto Valentine. Si
chiese distrattamente se lo stesse
facendo apposta. Farla fremere dal desiderio per poi ridere di lei
sembrava
proprio il genere di cosa che avrebbe potuto fare Jonathan Christopher
Morgenstern.
-
No, non è un mio problema – confermò,
abbandonando i
capelli per seguire il profilo della mandibola, del collo e soffermarsi
sulla
clavicola. – Bè, perché non stai
uscendo? – chiese, fingendosi innocentemente
sorpreso, ma il luccichio nei suoi occhi lo contraddiceva.
Katherine
posò una mano sul suo petto, saggiando la
consistenza dei muscoli celati dalla divisa da combattimento, scendendo
verso
il basso fino ad arrivare alla cintura. Indugiò sulla
fibbia, osservando come
quegli occhi già così scuri
s’incupivano ulteriormente.
-
Pensavo che non ti piacessi – osservò, decisa a
prendere
in mano il gioco.
-
Infatti non mi piaci. Sei testarda, arrogante, inso … - si
morse la lingua, distratto dalla mano della ragazza che si era spostata
ancora
più verso il basso.
-
Sì? –
-
Insopportabile – concluse, prendendola per il bavero della
maglietta e spingendola contro il muro.
Prese
d’assalto le sue labbra, leccandole e mordendole fino
a farla sanguinare. Katherine reagì d’istinto,
artigliandogli le spalle e
cingendogli i fianchi con le gambe. Trovarono il letto a tentoni,
continuando
quella furiosa lotta a base di lingue e denti. I vestiti finirono a
terra,
sparpagliati per la stanza, ormai completamente inutili.
Affondò in lei,
sorridendo davanti al suo gemito. Spinse nuovamente, guardandola
sospirare di
nuovo e chiudere gli occhi.
Si
fermò a metà spinta, improvvisamente furioso.
-
Apri gli occhi. –
Katherine
obbedì, perplessa.
-
Che accidenti ti prende? –
-
Sono Jonathan, non Valentine, e non ti permetterò di
pensare a mio padre mentre sei con me. –
Una
spinta più forte, rabbiosa, che le mozzò il fiato
per il
dolore. Continuò a muoversi così: rapido,
brutale, inesorabile, finchè non
giunse all’apice del piacere. Rotolò su un fianco,
voltandole le spalle.
Rimasero
in silenzio per un po’ finchè non
avvertì la mano
fredda di Katherine che si posava sulla sua spalla.
-
Jonathan. –
-
Che c’è? – chiese, gelido, sforzandosi
di non lasciar
trapelare la strana sensazione che lo attanagliava. Collera, delusione,
dolore …
sentimenti noti che in quel momento lo punzecchiavano inesorabilmente.
Sua
madre gli aveva preferito Clary, suo padre Jace, Katherine vedeva in
lui solo
una pallida copia di Valentine. Non importava quanto forte fosse,
quanto
migliore di tanti altri sapesse essere, non era la prima scelta di
nessuno.
Non
doveva essere stato tanto bravo come credeva, perché
Katherine
gli si mise a cavalcioni per costringerlo a guardarla negli occhi.
C’era un
pizzico di comprensione e dolcezza nelle sue iridi argentee.
-
Per la cronaca, non stavo pensando a tuo padre. –
Emise
un verso sprezzante.
-
Strano, visto che sembra essere il centro dei tuoi
pensieri. Neanche fossi davvero sua
figlia. Non sei una Morgenstern, sei una Herondale, e non sarai mai
nulla più
che una ragazzina orfana e impaurita che ha raccolto come avrebbe fatto
con un
cucciolo randagio e ha portato a casa – concluse, con
bruciante soddisfazione.
Finalmente
era riuscito a ferirla, lo vedeva da come quegli
occhi d’argento lo fissavano impietriti.
-
Va’ all’inferno, Jonathan. –
Scivolò
via, indossando una vestaglia sopra la camicia da
notte e uscendo dalla stanza.
Si
chiuse la porta alle spalle con forza, incurante dell’ipotesi
di svegliare qualcuno degli ospiti dei Penhallow.
Lei
che aveva persino provato a rincuorarlo. Oh, per l’Angelo,
che razza d’idiota che era stata. Jonathan Morgenstern era
uno stronzo incapace
di provare anche un minimo barlume di riconoscenza. Paragonarlo a suo
padre?
Impossibile, perché Valentine non era neanche lontanamente
inumano come suo
figlio.
Jonathan,
intento a fissare il soffitto della stanza, scosse
la testa. Non era capace di
guadagnarsi l’amore delle persone e quella ne era stata la
riprova. Non sapeva perché
le aveva detto quelle cose, malgrado fossero vere, soprattutto in un
momento
come quello in cui le divergenze sembravano essersi appianate.
La
verità è che tu non vuoi
essere amato, sussurrò malignamente la vocina nella sua
testa. E sì, probabilmente
aveva ragione lei.
Spazio
autrice:
Rieccoci
qui. Nessuna recensioncina? Non vorrete fare di me un’autrice
tanto ma tanto
triste, vero? Alla prossima.
Baci
baci,
Fiamma
Erin Gaunt