3.
Un James Bond disperato
Nel
pomeriggio, Davide aveva telefonato a sua madre
per dirle che non sarebbe arrivato quel giorno, a causa di un problema
di
lavoro. La donna, seppur poco convinta, non aveva fatto troppe storie.
La
ramanzina gliel’aveva fatta lo stesso, però. In
realtà, c’era stata davvero una
complicazione: lo smoking. Non aveva mai partecipato ad eventi
così formali in
Irlanda e di certo non se lo era portato da Torino. Non che
là ne possedesse
uno, intendiamoci. Trovarlo, e soprattutto della sua taglia, era stata
un’impresa:
in quel momento comprarlo non era esattamente nei suoi piani e in quel
Paese i
“dress-rent-shops”, i negozi dove gli abiti vengono
affittati, non esistevano
proprio. Aveva quindi cominciato un giro di telefonate a tutti i suoi
amici
nella speranza che uno di loro potesse aiutarlo, ma niente.
Così, alla fine,
era uscito di casa, rassegnato all’idea di doverne acquistare
uno. Proprio davanti
al portone, però, aveva incontrato Anthony, uno dei suoi
vicini. Come lui, Anthony
aveva dovuto lasciare per motivi di lavoro la sua nazione,
l’America, e si era
portato dietro l’intera famiglia, composta da moglie e due
gemelli di sei anni,
Andrew e Josh. Quando Davide gli aveva raccontato il suo problema,
l’altro
aveva annuito, squadrandolo pensieroso dalla testa ai piedi. Lo aveva
poi
trascinato nel suo appartamento, con grande gioia dei bambini che lo
adoravano,
e lo aveva lasciato con loro, tornando pochi minuti dopo con una grossa
custodia copri-abiti nera in mano. L’aveva aperta e ne aveva
tirato fuori lo
smoking più bello che Davide avesse mai visto. Si era
scusato per il fatto che
avesse ormai qualche anno, in quanto suo abito da nozze, ma poi aveva
alzato le
spalle dicendo che poteva funzionare ancora. Glielo aveva gettato fra
le
braccia e, senza tante cerimonie, lo aveva chiuso nella sua camera da
letto per
provarlo. A dirla tutta, non si sentiva del tutto a proprio agio dopo
averlo
indossato, gli dava un’aria un po’
troppo… adulta. Lui che a trent’anni era
abituato a guardarsi allo specchio e vedere la stessa faccia di quando
ne aveva
diciotto. Quando era tornato in salotto, aveva trovato Anthony intento
a
mostrare le foto delle nozze ai bambini che, incuriositi dalla
situazione, lo
avevano supplicato di tirare fuori il vecchio album. Si erano poi
lanciati
incontro a Davide e avevano iniziato a urlare quanto fosse elegante e
soprattutto a ridere del fatto che sembrasse un pinguino. Ma il padre
glieli
aveva staccati di dosso, gli aveva piazzato disordinatamente i suoi
vestiti fra
le braccia e gli aveva chiuso la porta in faccia. Letteralmente.
Ed
ora se ne stava là, davanti all’ingresso del
teatro, indeciso sul da farsi. Erano
le ventuno meno pochi minuti, presto lo spettacolo sarebbe cominciato.
Per la
prima volta nella sua vita, Davide non solo era in perfetto orario, ma
avevo
persino dovuto aspettare dieci minuti prima di partire,
benché già pronto per
uscire. Sia fuori che dentro l’edificio era pieno di gente
raffinatamente
vestita che conversava sui più disparati argomenti. Decise
di entrare, per
levarsi almeno dal raggio d’azione di un’elegante
signora sulla sessantina,
fasciata in un tailleur viola, che sembrava averlo classificato come un
bel
bocconcino.
“Questo
smoking funziona fin troppo bene” pensò
leggermente preoccupato.
«Davide!»
Lui si voltò appena in tempo, prima di vedere
un’indaffarata Aberdeen
afferrargli il braccio e allontanarlo dalla folla.
Quand’ebbero raggiunto un
angolo un po’ più tranquillo, si concesse qualche
secondo per squadrarla. Aveva
i capelli rossi raccolti in uno chignon basso, un paio di ciuffetti che
ricadevano
sulla fronte costringendola a sbuffare per spostarli. Indossava un
lungo abito
verde, molto scollato, un paio di sandali dorati sbucavano dalla
stoffa,
abbinati alla lunga pochette che stringeva nella mano sinistra. Un paio
di
orecchini a pendente abbinavano il tutto, riprendendo i toni del
vestito e
degli accessori. Un risultato elegante e molto raffinato, ma
c’era qualcosa che
non gli tornava. Il prezzo complessivo, ad esempio.
«Stai molto bene» le disse.
Lei gli rivolse un sorriso di gratitudine.
«Grazie. Di solito è una noia
venire qui, ma questa sera sarà diversa, abbiamo una
missione da compiere!» esclamò
determinata.
«Già
– concordò lui –
c’è solo una cosa non mi
quadra…» chiese dubbioso.
«Cioè?»
chiese Aberdeen guardandolo confusa.
Lui
la indicò con un ampio gesto della mano. «Tutto
questo… dev’essere per forza
firmato e non credo che con un semplice lavoro al botteghino tu possa
permetterteli…» le spiegò lasciando la
frase in sospeso. Lei per un attimo non
capì, poi scoppiò a ridere, portandosi una mano
davanti alla bocca. «Accidenti,
devo essermi dimenticata di dirtelo: mio padre è il
direttore del teatro!»
Davide la guardò
sconvolto: «Tuo padre è il direttore del
teatro… e noi abbiamo organizzato
tutto questo? Non ti bastava portarmi come… non so, un
amico?» chiese
sbalordito.
«Mio
padre conosce molto bene i miei amici e la gente che frequento, non gli
piace
che io porti ad occasioni così formali persone che non ha
mai visto e di cui
non sa nulla. E poi, avrebbe sicuramente pensato che tra me e te ci sia
qualcosa di più dell’amicizia, conoscendolo, e non
mi andava di dovermi subire
una delle sue ramanzine in mezzo a tutta questa gente. Mi tratta
già troppo da
bambina» concluse con aria seccata. Doveva aver preso un
nervo scoperto e se ne dispiacque.
«Mi dispiace, scusa… va benissimo così,
ha già fatto anche troppo per
me, grazie» tentò di riparare.
«Tranquillo… diciamo
che questa era anche una scusa per non dover passare una di quelle
solite
serate noiose» confessò mordicchiandosi il labbro
inferiore. Si aggirarono tra
gli ospiti per pochi minuti, finché il padre di Aberdeen non
fece ingresso in
platea, seguito da tutto il resto degli spettatori. La ragazza
spiegò a Davide
che era lei ad occuparsi dell’ingaggio delle maschere,
perché era un lavoro che
molti svolgevano per poco tempo, quindi per lei sarebbe stato
più facile farlo
passare come uno di loro assunto all’ultimo minuto. Alle
maschere, però, doveva
sembrare il suo accompagnatore, perché si conoscevano tra
loro e di certo non
avrebbero creduto alla sua copertura; un duplice inganno, quindi.
Quando
l’atrio rimase completamente vuoto, eccetto le maschere, si
diressero
rapidamente verso il corridoio del botteghino, fino a raggiungere la
platea.
Davide aveva sentito dire che la galleria, o come la maggior parte
della gente
la chiamava, ovvero “i balconi”, era il posto
migliore da cui assistere ad uno
spettacolo, ma oltre a non esserci più un buco libero in
tutto l’edificio, lì
stava anche il padre dell’amica. “Posti in
piedi” si disse rassegnato.
«A
proposito, bello smoking. Molto alla James Bond» si
complimentò Aberdeen con un
occhiolino.
«Grazie». Proprio mentre si chiudeva la porta alle
spalle, le luci della
sala calarono lentamente, fino a circondarli del buio più
totale. Una melodia
dolce, soffice e accogliente si diffuse delicatamente, trasportando
tutti in un
mondo di danza, schiaccianoci, fate e topi, amori e battaglie, pericoli
immaginari. Quando Rebecca comparve sul palcoscenico,
all’inizio dello
spettacolo, indossava un semplice abito, quasi da bambina, rosa e con
un fiocco
sulla schiena. Ma alla fine del balletto, quando aveva scoperto di
essere la
Fata Confetto, portava uno splendido costume colorato, col corpetto a
cuore e
un tutù che risaltava le sue gambe flessuose. Qualsiasi
passo compiesse, grazie
a quel tessuto brillava come una stella, rubando la scena agli altri
ballerini,
persino allo Schiaccianoci. Era splendida in ogni suo movimento,
leggera ed
aggraziata, aveva rubato il fiato all’intera platea, che lo
aveva lasciato andare
solo nel momento in cui le luci si erano riaccese e, i ballerini prima
e i due
protagonisti dopo, si erano presentati sul palco per ricevere gli
applausi
scroscianti. Un bambino di circa dieci anni, uno di quelli che aveva
ballato ai
festeggiamenti finali per la Fata Confetto, le portò un
grosso mazzo di fiori,
che lei prese tra le braccia, dandogli un bacio sulla guancia.
«Andiamo, avanti. Usciamo di qui». La voce di
Aberdeen lo distolse dalla
sua contemplazione, mentre gli tirava gentilmente una manica della
giacca. Sapeva
che lo aveva osservato tutta la durata dello spettacolo, ma non gli
importava.
«Allora,
com’è stato?» chiese l’amica,
mentre scendevano le scale e raggiungevano
l’atrio. Lui si prese un attimo per riflettere, fermandosi in
mezzo alla sala:
aver rivisto Rebecca lo aveva sconvolto, ma osservarla ballare lo aveva
lasciato senza fiato. Non le aveva tolto gli occhi di dosso, il terrore
di
perdere anche solo un secondo di quello spettacolo era troppo grande.
Era stata
così vicino, eppure ancora così
lontana… il solo pensiero lo uccideva
dentro. Sentì
le lacrime che salivano
pizzicargli gli occhi.
«Indescrivibile, ho capito» rispose
Aberdeen per lui, voltandosi con un
ghigno. Poi, però, il suo sorriso lasciò posto a
un’espressione preoccupata,
non appena vide una lacrima scivolargli lungo la guancia. «E
molto dolorosa,
vero?» chiese poggiandogli una mano sul braccio. Davide le
strinse il polso con
forza, chiudendo per un istante le palpebre. «Un bagno. Mi
serve un bagno»
disse con un sospiro. Lei annuì in silenzio e sciolse la sua
presa, incastrando
le dita con quelle dell’altro. Lo accompagnò fino
alle toilette, trascinandolo
senza esitare in quello delle donne e contando sulla riservatezza del
genere
femminile, nel caso in cui fosse entrato qualcun altro. Non appena ebbe
chiuso
la porta, gli gettò le braccia al collo, stringendolo
più forte che poté. Lui
lasciò cadere finalmente tutte le lacrime, soffocando a
stento un urlo. Non ce
la faceva più…
Scivolò lungo il muro di marmo, sedendosi sul pavimento
freddo e
sfogando tutto il suo dolore. Aberdeen lo stringeva in silenzio, una
tacita
presenza che non lo avrebbe abbandonato.