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Autore: Silvana Uber    18/09/2014    0 recensioni
Questa è la storia di una giovane donna,abusata all'età di 13 anni, che cerca disperatamente di superare la sua repulsione verso il sesso per non perdere il ragazzo che ama. Sa bene che la sua paura esiste solo perchè permette ai ricordi di alimentarla. Ciò che non sa, è che proprio l'amore è la fiamma che non le permetterà di guarire.
Genere: Drammatico, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
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La luce ambrata del mattino filtra tra le tende mosse dal vento, scivolando come un’intrusa contro le pareti ed incurvandosi verso il mio volto come dita affusolate di un pianista.
Apro gli occhi appesantiti dalle scarse ore di sonno e vago con lo sguardo in cerca della sveglia. Sono appena le sei e mezza del mattino, ma da sotto la finestra aperta della mia camera mi raggiungono già le urla di richiamo dei fruttivendoli, il rumore delle cassette di legno che si spezzano sotto le suole delle scarpe, la musica del bar dell’angolo. Il mondo ha ripreso vita, una nuova giornata è cominciata e nulla è cambiato, nonostante questa notte una bambina è morta nella stanza dove da sempre vi si è nascosta per giocare con le sue bambole preferite.
Mi alzo dal letto e mi avvicino allo specchio a muro per osservare la mia immagine… tutta l’infantilità e l’ingenuità dei miei anni sono scomparsi dal mio volto lasciando il posto all’espressione dura e ostile di una donna che non è ancora in grado di esserlo per davvero. Sono goffa come una bambina che indossa le scarpe dal tacco della sua mamma per giocare a fare la grande.
Chiudo ostinata gli occhi e obbligo le labbra ad un sorriso meccanico e finto. Vorrei riavvolgere il nastro della mia vita e non dover così fingere di essere quella che non sono, solo per evitare che il mio dolore si propaghi di cuore in cuore.
Ma questo mio sorriso non è sufficientemente sincero per riuscire ad allontanare quel senso di vertigine che ti da alla testa quando non si ha più la consapevolezza di avere anche un solo lembo di pelle sano e inattaccabile. Non si può sorridere e non si può nemmeno fingere di sorridere quando si sente il dolore penetrare nella tua carne, nelle tue ossa. Quel dolore che non conosce rimorsi o pietà e che sembra beffarsi delle tue lacrime. Quel dolore che si riesce a mascherare col mondo intero, ma non con sé stessi.
E’ come se il mio cuore si fosse spezzato in due parti… E anche se un giorno riuscirò a rimetterle insieme, la crepa rimarrà sempre a ricordarmi che sono diventata una bambola rotta. Perché certi errori, non si smetterà mai di pagarli. E a volte, non basta un’intera vita per scontare le pene…
Ci sono tante cose che vorrei capire, una tra tutte è da dove viene questo dolore che mi pervade l’anima…questo dolore fulmineo, senza senso. Qualcosa è cambiato ma non così tanto da farmi capire cosa è rimasto uguale a prima.
 
 
Sono trascorsi otto anni da quel giorno.
Mi erano serviti otto anni per ritrovare il coraggio di tornare nel mio paese, a Port Angeles.
Per tutto questo tempo avevo vissuto a Port Townsend, una minuscola cittadina nell’estremo sud-est della penisola di Olimpia, con mia nonna, la quale, fin dai primi giorni della nostra convivenza, si era rivelata un’ottima cuoca e un’amabile confidente.
Lei era l’unica a sapere del perché i miei occhi da troppo tempo non sorridevano più.
“Telefonami quando arrivi”, mi abbracciò un’ultima volta, prima di lasciarmi salire sul treno.
“Non preoccuparti”.
“E se penserai di non farcela, ricorda che un posto per te qua ci sarà sempre. Fai una prova… sforzati un poco i primi giorni…”
“Tenterò”, tagliai corto, cercando di ritrarre la mano dalla sua.
Alcune persone mi urtano mentre salirono sul vagone. Mancavano pochi istanti alla partenza ed io me ne stavo ancora con una gamba ancorata a terra e l’altra sul gradino. Non volevo andarmene.
Odiavo Port Angeles, detestavo tutte le persone che ci vivevano, anche se sapevo che questo era solo un riflesso di ciò che mi aveva trasformato nella cosa più simile ad un vegetale.
Amavo Port Townsend invece. Nessun brutto ricordo, nessun spiacevole evento.
Sollevai la pesante valigia e la depositai sul vagone. Non ci avevo messo dentro molte cose perché mia nonna mi aveva promesso che avrei potuto tornare da lei anche subito se non fossi riuscita a reintegrarmi con le persone della mia città. E considerando che reputavo questo cosa più che certa, avevo infilato in valigia solo un poco di intimo e qualche maglietta di ricambio.
“Agnes!!!” Mi chiamò ancora, un attimo prima che gli sportelli si chiusero. “La vita ti deve molto ma ricorda che se non sarai forte, continuerà a toglierti qualcosa”.
Le sorrisi, cacciando a fatica le lacrime in gola.
Già…la vita mi doveva molto. Mi doveva otto anni.
Poi il treno fischiò, i passeggeri si affacciarono ai finestrini per gli ultimi saluti, le porte si chiusero automaticamente in un boato e le persone a terra sollevarono le mani in segno di saluto. Posai la fronte sul vetro della porta e fissai il volto di mia nonna scomparire tra centinaia di volti, insieme ad ogni mia speranza.
Presi posto accanto al finestrino in uno scompartimento vuoto e aspettai rassegnata che il treno si allontanasse dalla stazione… portandomi lontana da quella che io ormai, consideravo la mia vera casa.
Erano già le cinque del pomeriggio ma faceva ancora indecentemente caldo. Sentivo le gocce di sudore imperlarmi la fronte e la mia maglietta era macchiata proprio sul davanti e sotto le ascelle. Cercai di portare l’attenzione sul libro di poesie che tenevo aperto sulle ginocchia, ma i miei occhi venivano attirati costantemente dal paesaggio esterno che sfrecciava accanto a me. Stavamo costeggiando un tratto dell’oceano quando sentii la porta dello scompartimento aprirsi.
“E’ libero?”
Diedi una rapida occhiata al ragazzo in divisa che stava in piedi davanti a me. Con entrambe le mani sorreggeva un borsone verde militare.
“Prego”. Risposi accennando un lieve sorriso di circostanza, per poi subito riportare l’attenzione al panorama. Avrei preferito restarmene da sola nello scompartimento, ma ebbi l’accortezza di non sbuffare quando quel ragazzo si voltò per sistemare il suo bagaglio nello scomparto sopra i sedili.
“Mi ricordi qualcuno”, disse, quando infine si sistemò di fronte a me.
Mi voltai pigramente verso di lui e dopo aver studiato il suo volto per non più di tre secondi, sollevai le spalle. “Come ha detto?”
“Oh…scusami. Forse era più educato se mi presentavo prima di…”
“Non ce n’è alcun bisogno”. Lo interruppi con foga. “Non ho alcuna intenzione di far conversazione con uno sconosciuto”.
Tossicchiò un paio di volte, imbarazzato, poi posò sulla testa il berretto della sua divisa militare, come volesse darsi importanza.
“Non era mia intenzione disturbarla. Mi scusi”. Passò educatamente al lei.
“Vorrei avere la certezza che questa sua intenzione non cambi durante il viaggio”, bofonchiai, voltandomi nuovamente verso il finestrino.
Con questa frase ero riuscita ad assicurarmi un tragitto silenzioso e tranquillo fino a destinazione.
Quando cominciai a riconoscere i vecchi palazzi della periferia di Port Angeles mi drizzai sulle punte dei piedi per togliere il mio bagaglio dagli appositi sostegni. Ero ancora intenta a sfilare la manica della mia giacca rimasta incastrata sotto la sacca da viaggio verde militare quando il treno frenò, facendomi finire proprio tra le braccia di quel soldato.
“Si è fatta male?”
“No…”, mi ritrassi disgustata, osservando la sua mano che non accennava a staccarsi dal mio avambraccio, “può lasciarmi ora”.
“Ha per caso qualcosa contro i militari?”, quando me lo chiese non mi stava guardando, perciò non riuscii a vederne l’espressione. Con mio grande orrore stava afferrando la sua borsa, segno che questa era anche la sua fermata. Dovevo liberarmene alla svelta.
“C’è l’ho solo con chi non capisce quando una persona non ha alcun interesse a fare conversazione”.
“Oh, ma io lo capisco benissimo”, riuscì a sorridermi nonostante tutto. Si fece da parte e con un gesto del braccio mi invitò ad uscire dallo scompartimento prima di lui.
C’era qualcosa di profondamente irritante nella bellezza del suo volto. Il suo sguardo era quello di chi è abituato a vincere e a prendere senza chiedere. L’unico suo pregio era la divisa che indossava e che in un modo o nell’altro mi rassicurava. Era come se fosse un’etichetta di presentazione: “sono un militare quindi non uccido la gente. O almeno, non i civili”.
Quando scesi dal treno notai che non c’erano molte persone in attesa ma solo qualche famigliola che si ricongiungeva probabilmente dopo le vacanze estive. Alcuni uomini in giacca e cravatta trascinavano il loro minuscolo bagaglio accanto alle rotaie, verso l’uscita. E fu proprio in quel punto che scorsi mia madre.
 
Le andai incontro lentamente, sforzandomi da lontano di intuire quello che stava provando a nascondere dietro un sorriso tirato. Quando anche lei mi vide si sbracciò per attirare la mia attenzione e le feci segno con la testa che l’avevo vista.
“Ti rivedrò?” Mi ero completamente dimenticata che quel ragazzo mi stava ancora camminando accanto. A quanto pareva, nessuno era venuto in stazione a prenderlo e per un momento ebbi l’assurda tentazione di offrirgli un passaggio sulla famigliare di mia madre.
“Port Angeles è molto piccola”, borbottai allontanandomi, poi aggiunsi sprezzante. “Purtroppo!”
“Al posto di “purtroppo” preferirei dire “per fortuna”!”
Gli lanciai un’occhiataccia che ignorò e che ricambiò con una strizzatina dell’occhio.
Appena raggiunsi mia madre sentii il cuore balzarmi nella bocca dello stomaco, il sangue cominciò a scorrere più veloce e a martellare nelle tempie. Da più vicino, il suo sorriso appariva ancora più falso, ma del resto ci avevo fatto l’abitudine perché era identico a quello che vedevo ogni volta che mi guardavo allo specchio. Una madre è una donna ferita a morte senza il suo bambino! Io ero lì, la stavo abbracciando, le baciavo la guancia, ricambiavo il suo sorriso con la stessa, identica falsa allegria, eppure la vera me stessa era scomparsa, sradicata per sempre alle sue origini. Di me era rimasto solo il nome, tutto il resto era morto e nessuno voleva piangerlo e ricordarlo.
Il destino può prendersi l’anima delle persone per un semplice sfizio personale e lasciare il corpo a marcire e confondersi tra la gente, in balìa di sentimenti che non gli appartengono più. Ma quando lo fa, non tiene mai in conto che quando una persona è dilaniata dal dolore, quest’ultimo si affaccia meccanicamente sulla vita di altri, marchiandola in modo definitivo e totale.
Osservai l’auto di mia padre posteggiata in seconda fila con le quattro frecce. Mi domandai se anche le auto avessero una certa loro “forza di volontà”, perché questa famigliare aveva resistito a così tanti anni da diventare quasi un oggetto di antiquariato. Vendendola non ci avremmo fatto nemmeno cento dollari, anzi era più probabile che avremmo dovuto offrire del denaro al folle che avesse in qualche modo dimostrato interesse per quel reperto preistorico. Va a capire del perché mia madre vi era tanto affezionata!
“Le ruote sono un po’ sgonfie”, le feci notare quando per imboccare la provinciale sentii il rottame sbandare sull’asfalto.
“Hai ragione”, rise di gusto, neanche ci fosse qualcosa di divertente nel finire fuori di strada. “Avrei dovuto cambiarle la settimana scorsa…”
“O dieci anni fa!”, polemizzai, parlando contemporaneamente a lei.
Mia madre finse di non avermi sentito e continuò: “Sai, c’è stato qualche problema dal carrozziere”.
Corrugai la fronte. ”Tipo?”
“Tipo…”, abbassò la voce e si sporse verso di me con fare cospiratorio, come se dentro la macchina avessero piazzato dei registratori. Tutta questa sua messinscena aveva l’aria di pettegolezzo. “Tipo che la figlia del signor Northon si è fatta mettere incinta da un forestiero e…”
“Chi è il Signor Northon?”
“Il carrozziere”, mi rispose come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
“Non c’è più il vecchio Hugh?”
“Oh no…”,  fece spallucce, svoltando nel nostro vialetto, “è morto due anni fa… o erano tre, ora non ricordo”.
Sollevai un sopracciglio disgustata. In questa maledetta città nessuno era mai riuscito a dare una priorità alle cose o alle notizie. Per loro era più emozionante parlare di chi si era fatto mettere incinta e da chi, piuttosto che ricordare una persona che si era sempre fatta in quattro per noi.
Scaricai il mio unico bagaglio e le portai in casa, al piano superiore. La mia camera non mi era affatto famigliare, eppure notai che mia madre non aveva cambiato niente. C’erano ancora le solite tendine verdi di pizzo alla finestra, le mie fotografie appiccicate con lo scotch all’anta dell’armadio, il grande tappeto macchiato sull’angolo, proprio sopra uno strano ghirigorio che avevo disegnato da piccola con l’evidenziatore perché avevo finito i fogli, la sedia in vimini dove la sera ci gettavo i vestiti. Era tutto troppo uguale a prima perché potesse piacermi. Mi faceva sentire a casa ed io non avevo ancora deciso di restare.
Per un po’ mi guardai attorno in cerca di particolari nuovi ed estranei, infine mi arresi e lasciai cadere la valigia sopra il copriletto di Bambi che mia madre non aveva tolto.
“Vuoi che ti aiuti a disfarla?”, mi chiese, in piedi accanto alla porta.
Non mi voltai verso di lei. Non ero dell’umore giusto per fare conversazione né per fingere che fossi contenta di stare lì. Ero invece al limite della sopportazione, in balìa di una vera e propria crisi di pianto.
“Posso fare da sola. Ho portato solo poche cose con me”.
Per un po’ calò il silenzio. Sentivo solo il mio cuore tamburellare mentre sistemavo alcune mie magliette nel primo cassetto del comò.
“Tuo padre sarà qui verso le sette”, mi informò impacciata. “Hai qualche preferenza per cena?”
“Va bene qualsiasi cosa”.
“Ok, allora” sospirò, “io vado. Se hai bisogno di qualcosa mi trovi in cucina”.
Annuii e continuai a svuotare le mie ultime cose fin quando non percepii più la sua presenza alle mie spalle. Allora mi sposati verso la scrivania, accesi il mio computer portatile, posai la fronte sul monitor e mi permisi finalmente di piangere.
 
Alle sette in punto sentii la macchina di mio padre entrare nel vialetto e contemporaneamente la voce di mia madre che mi urlò dalle scale: “E’ arrivato! Scendi Agnes!”
Avevo avuto tutto il tempo per farmi una doccia e rifarmi il trucco. Le punte dei capelli erano ancora umide, così le frizionai con un asciugamano e le attorcigliai in un elastico che avevo trovato miracolosamente in un cassetto della scrivania.
Scesi le scale lentamente per ritardare il mio primo faccia a faccia con mio padre. Non ero mai riuscita ad entrare in sintonia con lui ma cosa più importante non ero mai stata capace di perdonargli lo scarso interesse che aveva avuto riguardo il mio allontanamento da casa. Nessuna domanda, nessuna spiegazione. Da sempre sosteneva che i figli dovevano essere lasciati liberi di scegliere con la propria testa, ma era un ragionamento un po’ troppo menefreghista considerando che me ne ero andata di casa a soli tredici anni.
“Agnes!”, urlò mio padre, allargando le braccia quando scesi l’ultimo gradino.
Indossava una vecchia tuta da lavoro e aveva le mani sporche di grasso. Ma per il resto era sempre lo stesso, con poche rughe in più attorno agli occhi che probabilmente non bastavano a convincerlo ad assumersi le proprie responsabilità.
“Ciao”, lo salutai con un mezzo sorriso.
Il fatto che ero rimasta impalata, ignorando il suo invito ad abbracciarlo, lo spiazzò. Ma fu una cosa momentanea perché subito mi fece cenno di seguirlo in cucina. Quella mossa ci aiutò a scioglierci.
Ovviamente non sapeva del perché avevo insistito tanto per andarmene di casa e non sembrava così interessato da scoprirlo ora, tra una forchettata di patate e una di insalata.
Per un po’ mangiammo tutti e tre in silenzio, lanciandoci occhiate interrogative, ma ormai l’imbarazzo era svanito. Purtroppo, ci stavamo comportando come se non me ne fossi mai andata e questo mi fece tremare di paura. E proprio in quel momento mi resi conto che, qualunque cosa io avessi fatto, qualunque cosa mi fosse accaduta, niente sarebbe mai cambiato. Erano tutti molto abili a fingere che niente fosse differente a prima. Nessuno si accorgeva che dentro di me c’era un vulcano di rabbia pronto ad esplodere. O forse, nessuno voleva accorgersene. Molto meglio ignorare i problemi piuttosto che affrontarli.
Venni colta dall’impulso di salire di corsa le scale e rifare la valigia. Ma avevo promesso a mia nonna che ci avrei provato almeno per un giorno. Ed erano trascorse sole tre ore.
“Allora?”, attaccò mio padre. “Come è andato il viaggio?”
Finii di masticare. “Bene. Breve! Port Townsend è a meno di due ore da qua”.
“Hai lasciato molti amici lì?” Suonava quasi un terzo grado sebbene fossi certa che non lo fosse dal momento che le domande uscivano dalla bocca di mio padre.
“Qualcuno.”, alzai le spalle, conficcando i denti della forchetta in un pezzo di carne al sangue. Non avevo fame. Non ne avevo per niente. “Ho legato molto con una ragazza, Sarah. Frequentavamo la stessa classe.”
Mia madre mi tolse il piatto e lo sostituì con una coppetta di macedonia. “Andrai a trovarla?”
“Verrà lei questo week-end”.
“Hai lasciato degli amici anche qui”, mi fece notare. Non sembrava molto soddisfatta della mia risposta.
“Non si ricorderanno nemmeno di me”.
“Già!” Sospirò, poi si voltò verso il frigorifero per riporre la macedonia. “Sei stata via così tanto. E sei cambiata molto”.
“A quanto pare il mio aspetto è l’unica cosa che è cambiata”, mormorai talmente basso che non mi sentirono.
“Dovresti provare a chiamarli. Stephen fino a qualche mese fa mi chiedeva di te, ora lavora al supermercato con sua madre, gli da una mano.” Annuii giusto per farla contenta. L’ultima cosa che desideravo era riagganciare le mie vecchie amicizie e riprendere la mia vita come se non fosse successo nulla.
“Potrei uscire questa sera e vedere se li trovo al pub”, proposi. Non volevo chiedere il permesso perché era scontato che poi si sarebbe creato un precedente.
“Sei appena arrivata”, fu il semplice commento di mia madre. Teneva gli occhi fissi sulla sua coppetta di macedonia, ruotando le spalle in un modo che mi fece capire che era sui carboni ardenti.
Mio padre non sembrava pensarla allo stesso modo. “Vuoi che ti accompagni?”
“No!”, cercai di nascondere il mio orrore tossicchiando e deviando il suo sguardo. “E’ a soli due passi”.
“D’accordo”.
“Grazie”, gli sorrisi.
“A che ora pensi di tornare?”
“Non farò tardi.”, guardai verso mia madre e mi sentii quasi in dovere di aggiungere: “Ma se preferite che resti…”
“No, no. Vai pure. Sarai ansiosa di rivederli dopo tanto tempo”, gli occhi di mia madre finalmente si alzarono dalla coppetta di macedonia. Una strana luce li riempiva.
“Non ho intenzione di salire sul primo treno che passa”, la rassicurai cauta.
Mi inviò un sorriso calmo. “Lo so”. Per un momento però i suoi occhi indugiarono nei miei, come a cercarne la conferma.
Terminato di sparecchiare mio padre mi ricordò che il giorno dopo avevano organizzato una specie di festicciola di benvenuto a casa nostra, poi mi augurò una buona serata e mi lasciò cadere nel palmo della mano le chiavi della sua macchina, in un momento che mia madre non stava guardando nella nostra direzione.
“Guida piano”, si raccomandò.
Non mi aveva mai vista guidare perciò apprezzai quel suo gesto.
 
Arrivare al centro di quella città non fu difficile, sebbene avessero cambiato qualche indicazione stradale e avessero costruito una decina di incroci in più. Qui a Port Angeles bastavano pochi minuti per raggiungere un punto dall’altro senza nemmeno servirsi dell’autostrada. Ogni posto che vedevo mi risvegliava ricordi piacevoli e meno, tuttavia non mi facevano sentire benvenuta. Mi sentivo un’estranea, una specie di forestiera di passaggio che aveva scelto di fare tappa in quel posto per riprendere il viaggio la mattina dopo. Riconobbi le luci del centro e il piccolo parco dove la sera mi incontravo con Susan, la mia vecchia migliore amica.
Per raggiungere il pub avrei dovuto svoltare a destra ma all’ultimo sterzai il volante e feci un’inversione di marcia. Le ruote anteriori sobbalzarono sul bordo del marciapiede e fecero perdere stabilità all’auto. Mi ci vollero una decina di secondi per raddrizzare l’auto e rimettermi in carreggiata. Ripresi a respirare con calma e accessi l’autoradio, sintonizzandola su una stazione che trasmetteva gli ultimi successi. Di lì a poco avrei raggiunto la mia vecchia scuola. Il respirò tornò a farsi rauco e istintivamente sollevai di poco il piede dall’acceleratore.
Fuori tutto era buio e immobile. I bagliori argentati della luna gettavano ombre nei cortili delle case e terminavano esattamente ai piedi di un grosso cancello grigio. Era assurdo come la mia mente fosse riuscita a ricordare praticamente ogni cosa tranne quel vecchio edificio. Se non fosse stato per il cartello che indicava la “Port Angeles High School” avrei continuato a proseguire lungo la strada.
Dopo aver parcheggiato lungo il marciapiede, fui costretta a restare seduta all’interno dell’abitacolo almeno dieci minuti per ricordare il motivo che mi aveva spinta proprio lì. Era la prova più grande che avessi dovuto affrontare. Superata questa, potevo forse cominciare a prendere in considerazione l’idea di restare a Port angeles per qualche giorno.
A peggiorare le cose c’era la strada deserta, le finestre spente delle case vicine, il silenzio quasi assordante che faceva sembrare quel posto il mio peggiore incubo.
Chiusi lo sportello e mi guardai intorno nella speranza di scorgere da lontano qualche passante. Ma ero sola, mi resi conto con una fitta nello stomaco.
Deglutii un paio di volte, ripetendomi fino allo sfinimento “ce la potevo fare”, infine, un passo dopo l’altro, attraversai la strada desolata. Più mi avvicinavo, più aumentava la sensazione di disagio. Il respiro aumentò al ritmo dei battiti del cuore, aprendo impietoso lo squarcio che avevo nel petto. Stavo quasi per tornare indietro, ma volevo mettere alla prova il mio coraggio. Sapevo di non essere più la bambina di tredici anni.
Raggiunto il cancello, afferrai le grate con entrambe le mani e guardai dentro. Al buio faticai a riconoscere i luoghi, le panchine lungo il viale asfaltato che portava all’ingresso, le scale d’emergenza sulla facciata ovest, le finestre bianche delle aule. Ovviamente non c’era nessuno, nient’altro che ricordi che avrei potuto rievocare anche se mi fossi trovata dall’ altra parte del Mondo. Assieme alla consapevolezza di essere giunta alla metà, mi travolse un’ondata di dolore che mi fece scivolare a terra, sulle ginocchia. Improvvisamente fui lieta del fatto che non ci fosse nessuno a guardarmi. Se qualcuno mi avesse vista in quelle condizioni, mi sarei trovata costretta a dare una spiegazione che la mia coscienza si rifiutava di affrontare. Come potevo spiegare a qualcuno che stavo raggomitolata a terra perché mi stavo sbriciolando? Quel luogo deserto scatenava in me un dolore troppo grande da sopportare, per questo quando ordinai a me stessa di rialzarmi, non ci riuscii.
Indietreggiai sull’asfalto strisciando sulle ginocchia, cadendo con la faccia a terra, sollevandomi di poco puntando i polsi sull’asfalto, scorticandomi le mani, imprecando tra i denti. Perché non ero riuscita a superare la prova: avevo ancora la stessa identica paura!
   
 
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