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Autore: A li    03/10/2008    3 recensioni
Dopo Death Note 12.
Una seconda possibilità.
L'ultima, per riscattare le proprie colpe.
- Allora, l’unica risposta…
Una reincarnazione? –
In una delle rare volte, mi sorrise. – Esattamente ciò che pensavo. – disse.
Genere: Malinconico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: L, Light/Raito, Ryuuk
Note: OOC, What if? (E se ...) | Avvertimenti: Spoiler!
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Over The Mu

Grazie MILLE a:

Matta_Mattuz

kokuccha

che hanno commentato! XD

Grazie, siete la mia gioia!

E a:

retsu89

che ha messo da poco la mia figlietta nei suoi preferiti!

Spero commenterai! XD

 

E sono arrivata al terzo capitolo!

Scusate il ritardo… La scuola m’impegna non poco…

Spero che la trama della storia cominci a piacervi! Il finale e tutto il resto sono già scritti, perciò non rimarrà di sicuro inconclusa, ma nemmeno potrà cambiare secondo i vostri consigli.

In questo terzo capitolo, alla presenza di Mihael si oppone quella di Ryuk e, nella mente di Nate, Light comincia a farsi vedere… Finalmente!

Ed ora non mi resta che augurarvi buona lettura!

 

Over The Mu

- Oltre Il Nulla -

 

Prima o poi, tutti gli esseri umani muoiono.

Dopo la morte, non vi è nulla.

 

 

III. Possibilities (Possibilità)

 

Rimasi a fissare il punto in cui era sparito l’essere, ancora per un momento, poi distolsi l’attenzione. Forse mi ero semplicemente immaginato tutto. Ma quel volto dal ghigno orribile rimaneva impresso nella mia mente e, per qualche strano motivo, non riuscivo a liberarmene.

Mihael mi guardava curioso, senza capire perché mettessi tanta concentrazione per osservare il paesaggio incantevole del lago: era evidente che non aveva visto il mostro.

Mi sentii tremendamente stupido. Oltre a quelle assurde sensazioni di dejà-vu, ora mi mettevo anche ad avere le visioni.

- Stai bene? -

Tornai ad incrociare lo sguardo di Mihael, che attendeva una mia risposta.

- Certo… - replicai, cercando di esternare una specie di sorriso.

Lui alzò le spalle, liquidando la questione, con mio sollievo.

Ricadde quel silenzio di quiete che la presenza di Mihael ispirava sempre e mi godei quella sensazione stupenda, sperando che non finisse mai. Dal canto suo, il ragazzino sembrava non accorgersi della pace che infondeva e se ne stava semplicemente accovacciato come suo solito, abbracciando le gambe, fissando un punto indefinito dell’orizzonte.

Mi sembrò quasi che cercasse di scoprire qualcosa del suo futuro. Ma probabilmente non era affatto così, meditai. Era molto più facile che tentasse di far riaffiorare il suo passato.

- Vorresti conoscere davvero il tuo passato? -

La sua domanda m’incuriosì, perché non ne capivo la motivazione.

- Penso di sì. – risposi, quieto, - Tu no? -

- Io credo che ignorare il proprio passato consenta una libertà enorme. Perdere la memoria significa ricominciare a vivere, ad imparare, a conoscere. Significa avere una seconda possibilità. – spiegò.

Riflettei un secondo e non riuscii ad essere in disaccordo. I ragionamenti di Mihael erano sempre così logici, che cercare di andarci contro sarebbe stato come tentare di spegnere il sole.

- Una seconda possibilità… - mormorai, saggiando sulla lingua la dolcezza e il valore di quelle parole.

Avere una seconda possibilità di nascere e vivere. Una chance ulteriore di crescere e comprendere la vita. Forse, un modo di provare a migliorarsi, di smettere di fare errori.

- Andiamo. – disse ad un tratto – E’ tardi. -

Alzai lo sguardo, che avevo tenuto puntato sui piedi, e mi accorsi che il sole aveva compiuto metà del viaggio e ora picchiava sulle nostre teste, scaldandoci.

Annuii e mi affrettai a seguire Mihael che si era già alzato e aveva cominciato a risalire, verso il sentiero. Non ci mettemmo molto a raggiungerlo: qualche minuto, poi lo sterrato ci portò su fino all’asfalto e entro una mezzora eravamo tornati al limitare del villaggio.

Le strade erano praticamente deserte, così come lo erano state la mattina: la gente, dopo aver lavorato, si ritirava nelle case per pranzare e riposarsi.

Attraversammo vicoli stretti e strade lastricate, fino al vialetto acciottolato in cui abitava Deborah. Mihael prese dalla tasca le chiavi di casa che portava con sé e aprì la porta. Il color pesca mi rilassò ed entrai senza accorgermene, sorpassando Mihael.

Quello, sulla soglia, non accennava a muoversi.

- Io vado da Deborah. – disse, quando mi voltai verso di lui, - Le avevo detto che saremmo passati. In cucina trovi della pasta, se vuoi farti pranzo subito, altrimenti torno presto e faccio io. -

Gli sorrisi e annuii, assicurandogli che me la sarei cavata. Lui non rispose, chiuse la porta e se ne andò.

Restare solo in quella casa mi fece uno strano effetto. Era come se fossi vissuto lì da sempre, perché infondo era l’unico edificio che potessi chiamare casa scolpito nella mia memoria. Il resto l’avevo sepolto nel passato dimenticato.

Cercando di orientarmi (e non fu difficile, perché la casa era piccola), mi mossi alla ricerca della stanza da letto che avevo occupato evidentemente per una settimana. La trovai subito, in fondo al corridoio, di fronte ad altre due che dovevano essere quelle occupate da Deborah e Mihael. Vi entrai con un certo timore, come se all’interno potessi trovare il caos infernale.

Ma era tutto esattamente come lo ricordavo: il letto candito, le pareti color pesca e l’armadio di legno, i quadri dai paesaggi marittimi e la sedia davanti alla finestra. Solo, mancava Mihael seduto sopra. Quell’assenza era palpabile: senza di lui, l’aria aveva un altro sapore, la luce un altro aspetto.

Ignorando i morsi della fame che cominciavano a farsi sentire, mi sedetti sulla sedia e cercai di guardare fuori come faceva Mihael. Ma ero sicuro di non riuscirci: nessuno sarebbe stato capace di assumere la sua espressione quieta, la sua posizione così particolare e il suo sguardo lontano.

Sorrisi tra me e me, ripensando al suo passato: era talmente evidente che fosse troppo intelligente rispetto alla sua età! Non ci sarebbe stato bisogno che me lo dicesse: lo avrei comunque capito io stesso.

Mentre riflettevo, osservavo con curiosità la stanza. Anche se la conoscevo, c’era una strana atmosfera di novità: sentivo che non avevo ancora scoperto tutti i suoi segreti. Ero certo che ne nascondesse.

Svogliatamente, mi accomodai meglio sulla sedia, con le braccia dietro la nuca e i gomiti aperti. Mi sentii sereno: forse avevo trovato una casa, qualcosa che sarebbe stato mio per sempre.

- Che strana cosa… -

Mi voltai di scatto verso il letto, da cui avevo distolto lo sguardo un attimo prima. Seduto sopra le coperte, ora, stava il mostro che avevo visto al lago, con quel perenne ghigno che sembrava deridere i miei gesti.

Saltai in piedi, facendo cadere la sedia. La pace parve spezzarsi proprio quando questa si rovesciò.

Ryuk. Ryuk. Ryuk.

Mentre fissavo con gli occhi spalancati quell’essere comodamente appoggiato al mio letto, la mia testa ripeteva incessantemente quel nome assurdo. Non sapevo da dove venisse, ma rimbombava nel mio cervello come una pallina da golf impazzita che rimbalzasse sulle pareti di una stanza. Mi afferrai le tempie, premendoci le mani sopra, tentando di far cessare l’eco insopportabile della parola.

- Ryuk… - sussurrai.

Non so perché lo feci. Forse perché speravo che, gettandolo fuori, quel nome avrebbe smesso di tormentarmi.

E in effetti lo fece. L’eco si placò all’istante. Feci un profondo respiro, cercando di calmarmi.

- Uhm… - mormorò l’essere, - Ti ricordi? -

Non capii le sue parole. Non risposi. Ma forse si riferiva alla sua apparizione giù al lago.

- Eri… - tentai di dire, ma mi uscì solo una specie di rantolo e rinunciai.

- Oh! – sghignazzò il mostro – E pensare che eri un fenomeno con le parole… -

Ancora una volta non replicai. Non ne avevo la forza, ma nemmeno avrei saputo che dire. Non capivo il significato delle sue frasi enigmatiche, né le sue allusioni ad una nostra passata conoscenza.

Poi un’idea mi balenò alla mente, mentre lui giocherellava con un anello dorato che portava al dito.

- Ci siamo già conosciuti? – chiesi.

Mi guardò sorridendo, ma non rispose. Era evidente che mi avrebbe detto solo ciò che voleva. La cosa mi innervosì.

- Per favore – riprovai – Rispondimi. -

La mia frase lo divertì. Non capii perché, ma infondo non capivo un sacco di altre cose.

- Chiedi anche per favore, eh? – ridacchiò. – Sembri davvero cambiato… -

Si voltò verso di me, con gli occhi spalancati e rossi. Li vidi ardere di una prospettiva futura che ero sicuro di ignorare. Mi si avvicinò con lentezza e quando mi fu davanti sorrise.

- Ma sono sicuro che in realtà sei quello di prima. – affermò.

Deglutii. Le sue parole e il suo viso mi mettevano addosso un’inquietudine che aveva poco a che fare con la paura. Anche questa sensazione, come quella provata al buio e al gelo del lago, era una specie di tremendo dejà-vu. Questa volta però era diverso, era molto più intenso.

Per un attimo mi parve di ricordare un’altra stanza, un altro anno, forse, e un altro paese. Ma ero sempre io, una volta ancora davanti a questo mostro. Solo, mi sembrava di conoscerlo.

No, Ryuk. In effetti non sono affatto sconvolto.

La voce con cui quella frase venne pronunciata mi mise i brividi. Era apparsa nella mia testa all’improvviso, insieme a quella strana specie di ricordo che si era impossessato di me.

Ma tutto sparì in un attimo e mi ritrovai consciamente di nuovo di fronte a quel mostro. Anche se ora mi sembrava di riconoscerlo.

La cosa mi fece paura, questa volta: possibile che l’avessi incontrato, in passato? Forse prima di perdere la memoria?

Ma non era possibile: il ricordo che avevo di lui non corrispondeva a i miei anni passati. Mi sembrava più lontano e, in un certo senso, sentivo che non aveva niente a che fare con la vita che avevo dimenticato.

In realtà, mi sembrò che non fosse nemmeno mio.

Ryuk ridacchiò. Avevo capito che era il suo nome, ormai. Mi fissò come se potessi fare qualcosa si divertentissimo da un momento all’altro. Pareva che tutto lo divertisse, come se vivesse per quello.

- Vedrai, Nate, - pronunciò il nome come se non mi appartenesse e la cosa lo fece ridere – Ricorderai tutto, presto. -

Ridacchiò ancora, poi si allontanò. Raggiunse la finestra e uscì fuori con un balzo. Appena fu a mezz’aria, un paio di enormi ali nere spuntarono dalla sua schiena e si spalancarono, frenando la sua caduta.

Vidi il suo corpo stendersi e opporsi all’attrito dell’aria, poi librarsi in cielo, sopra le teste dei passanti che, nel viottolo, continuavano tranquillamente le loro attività.

Non potevano vederlo, così come era stato per Mihael? O forse non l’avevano notato?

Senza sapermi rispondere, notai solo che era passata mezz’ora da quando ero entrato in casa e che presto sarebbe tornato Mihael. Dovevo prepararmi pranzo prima che arrivasse. Avrei potuto cucinare anche per lui, magari.

Corsi in cucina, sperando che tardasse ancora un po’.

Attingendo da una parte della mia memoria che non era andata perduta, feci cuocere un po’ di pasta, sperando che Mihael non volesse altro e preparai il tavolo con quello che trovai nei cassetti.

Quando sentii la porta aprirsi, avevo appena preso la pentola di pasta dal fuoco e la stavo mettendo in tavola. Mihael entrò in cucina con passo lento, come al solito. Quando mi vide con la pentola in mano, fui sicuro di scorgere una scintilla di sorpresa nei suoi occhi, ma la sua espressione, naturalmente, non mutò.

- Hai cucinato? – chiese semplicemente.

- Sì. -

Posai la pentola sul tavolo e servii la pasta nei piatti. Lui si sedette e, dopo aver visto che avevo iniziato a mangiare, mi imitò. Restammo in silenzio, mentre finivamo in fretta quel semplice pranzo, tranquillamente.

Ogni tanto, tornavo col pensiero all’incontro di pochi minuti prima, ma cercavo sempre di scacciarlo dalla mente. Non volevo arrovellarmi più di tanto sulle parole del mostro, perché sapevo che non avrei risolto nulla senza ulteriori indizi.

- Sei strano. – disse. E non era un dubbio, ma una constatazione. – E’ successo qualcosa? -

Deglutii l’ultimo boccone e negai, con un movimento del capo. Non mi andava di raccontargli dei miei nuovi dejà-vu, né di quella specie di ricordo che sembrava appartenere ad un’altra persona, e sicuramente non di Ryuk.

Poi ripensai alle parole che Mihael aveva pronunciato quella mattina, al lago. Qualcosa di irrazionale, di inspiegabile. In un certo senso, anche la comparsa del mostro e di quel nuovo ricordo non erano razionali. Come spiegare l’esistenza di un essere del genere?

- Tu credi davvero che la nostra situazione sia qualcosa di sovrannaturale? – chiesi.

Mihael mi fissò un attimo. E ancora una volta capii che stava decidendo come rispondere.

- C’è il 50% delle possibilità che lo sia, a mio parere. – rispose, - Tutto qui. -

Sorrisi. Sembrava proprio che non volesse mai sbilanciarsi, né dire qualcosa di sbagliato. Perché quella paura di commettere errori? Sembrava una cosa quasi patologica: una forma di malattia psicologica dell’insicurezza, o qualcosa de genere.

Ma mi pareva assurdo che uno come lui potesse commettere un qualche genere di errore.

Finito di mangiare, presi i piatti di entrambi e li misi nel lavandino, per lavarli. Mihael mi disse che sarebbe andato a lavorare un po’ al negozio dove Deborah era commessa, come suo solito e che io, il giorno dopo, avrei iniziato la scuola.

A suo parere, non ne avevo bisogno.

La sua affermazione mi stupì. Mi credeva così intelligente? Forse quanto lui?

Mi sentivo lusingato, ma allo stesso tempo faticavo a credere di poter essere alla sua altezza.

Ci avrei provato, questo era certo. Perché una strana forma di orgoglio, nata da chissà quale parte di me, aveva cominciato a farsi spazio e a reclamare il suo posto. Dovevo superare Mihael e batterlo, mi diceva.

Ridacchiai a quella mia strana affermazione. Forse ero nato per la competizione e la rivalità.

Dopo aver lavato i piatti e messo tutto a posto, tornai in camera. Controllai che la finestra fosse chiusa e mi coricai sul letto: mi sentivo ancora stanco (forse non ero ancora del tutto ristabilito), ma non volevo sorprese.

Cercai di chiudere gli occhi, ma l’assenza di Mihael e quel buio che mi ritrovavo a dover affrontare erano troppo intensi.

Ci rinunciai definitivamente già pochi minuti dopo. Mi alzai dal letto e mi misi in piedi accanto alla finestra, fissando la parte opposta della stanza. Appoggiata alla parete, seminascosta dal buio, c’era una scrivania. Incredibilmente, non l’avevo notata fino ad ora. Come se in realtà prima non ci fosse stata.

Mi avvicinai e la scrutai, perplesso. Sopra erano appoggiati solo un quaderno con la copertina nera e una biro. Sul quaderno era scritto il nome Nate River. Probabilmente era un regalo di Deborah perché avrei iniziato la scuola il giorno dopo.

Mi sedetti alla scrivania sorridendo. Iniziare la scuola, per qualche motivo, mi entusiasmava: era comunque una cosa nuova per me.

Con un gomito appoggiato al ripiano in legno, aprii il quaderno.

In quel momento un dolore lancinante mi trafisse la fronte. Portai le mani intorno alla testa, gemendo.

Ah! Gli ostaggi sono usciti!

Ci è appena giunta un’informazione! Dicono che il sequestratore è deceduto all’interno dell’asilo!

Pare proprio che il colpevole sia morto!

Sul quaderno che tenevo stretto, la mia mano scrisse un nome.

Kuro Otoharada.

 

Fine III

 

Spero che il finale abbia avuto l’effetto sperato…

Commentate, ok? XD

Alla prossima!

 

Aki

   
 
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