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Autore: HuGmyShadoW    04/10/2008    4 recensioni
[...]"Quel giorno mi svegliai. Dato che circa sei miliardi di persone ogni giorno trovano la forza di aprire gli occhi e di trascinarsi lungo la giornata la potrete ritenere un’informazione irrilevante. Il mio risveglio però non è un avvenimento così ordinario"
Una ragazza, lei. Un ragazzo, lui. Il loro particolare incontro, lì, in ascensore. Proprio Lei e Lui. Loro, insomma.
Genere: Generale, Romantico, Demenziale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2^ Parte


«Kat, se non la smetti di fissarmi così manderai a fuoco il mio specchietto. Non vuoi che ci schiantiamo e facciamo un incidente, vero?».
Kat non rispose, si limitò a lanciarmi un’ennesima occhiata fiammeggiante da dietro il mio sedile prima di voltarsi dall’altra parte come una bambina di cinque anni.
«Su, smettila di fare la vittima! Ti ho già detto che adoro il tuo stile e che hai un ottimo gusto, ma se proprio non mi andava di mettere quella maglia, non mi andava, insomma!».
Nessuna risposta. Sospirai per la decima volta in dieci minuti e tornai a concentrarmi di nuovo sulla strada liscia e regolare, scoccando di tanto in tanto un’occhiata supplichevole al passeggero corrucciato del sedile posteriore. Svoltai a una curva e il sole caldo e luminoso di mi accecò, tanto che dovetti frugare nel cruscotto alla ricerca dei miei occhiali da sole. Li infilai e riuscii per un pelo a intercettare un’occhiata sprezzante di Kat rivolta ai riflessi di luce dorati della mia maglietta che si riflettevano sugli interni dell’auto prima che questa tornasse a fissare il paesaggio fuori dal finestrino. “Pacchiana!” le si vedeva svolazzare nella testa.
Alzai gli occhi al cielo. Quando a Kat non andava bene qualcosa era praticamente impossibile distoglierla dalle sue macchinazioni per rigirare ogni sensata controbattuta in suo favore, finendo per esasperare la “vittima” e costringerla ad assecondarla.
Rallentai in prossimità di un segnale di stop e non appena la mia Peugeot 206 si arrestò docilmente, mi voltai ostentando sul viso la mia più efficace espressione da “ti-sto-chiedendo-scusa,-non-vuoi-un-dolcetto?” e affrontai di nuovo la belva, approfittando del breve momento in cui potevo guardarla negli occhi.
«Kat» chiamai dolcemente togliendomi gli occhiali da sole. «Lo sai che mi fa star male vederti così... Ti prego, facciamo la pace! Non sopporterei di andare al concerto con un pezzo di pietra, dai!».
Il viso della bionda rimase girato di lato, impassibile. Mi scostai una ciocca di capelli dagli occhi e riprovai.
«L’avrei di certo macchiata o sgualcita, o le avrei potuto appiccato fuoco rovesciandole addosso una birra e facendo cadere l’accendino mentre mi fumavo una sigaretta...». Kat mi fissò ad occhi sbarrati perciò capii di aver esagerato.
«Ok, ok, è praticamente impossibile anche per me, ma come minimo avrei potuto strapparla! E come posso andare al concerto con la maglia a brandelli? Non posso, esatto». Vidi un angolo della bocca di Kat tremare nel tentativo di non scoppiare a ridere e sorrisi, sicura di riuscire a farla cedere a breve.
«Ti immagini la faccia di Bill? Il signorino “devo-stare-attento-che-non-mi-si-spezzi-un’-unghia” farebbe un colpo se mi vedesse! Cadrebbe sicuramente ai miei piedi, anche se privo di conoscenza...».
Kat sbuffò forte dal naso mordendosi le labbra per non lasciarsi sfuggire nemmeno un risolino e io, approfittando della ridarella facile della mia amica, rincarai la dose.
«E Tom? Ah, per lui non farebbe differenza, anzi, se mi presentassi al concerto direttamente in reggipetto scoppierebbe di gioia! O di qualcos’altro...».
Ormai non ci trattenevamo più, ridevamo come imbecilli!
«Aspetta, aspetta! E non hai pensato a Georg? Lui...». Un clacson mi fece sobbalzare, distogliendomi dalle mie allegre fantasie. Mi girai di nuovo verso il semaforo, accorgendomi seccata che era già verde. Il tipo dietro, un ometto sulla cinquantina abbarbicato al volante della sua Multipla grigia, continuava a suonare, incapace di aspettare anche solo che infilassi di nuovo gli occhiali e ingranassi la marcia, mi stava facendo innervosire! Stavo per aprire il finestrino per fargli ammirare lo strato di smalto nero accuratamente steso sull’unghia del mio dito medio quando Kat mi precedette. Premette con violenza il tasto che regolava l’abbassamento dei finestrini e si sporse fuori con tutta la testa e perfino le spalle.
Nei secondi che seguirono cercai di ricordarmi più volte che Kat era mia amica e che le volevo bene, eppure non riuscii a non sprofondare sempre più nel mio sedile fin quasi a schiacciare col naso l’acceleratore, tentando invano di ignorare il fiume in piena di improperi e maledizioni che il mio passeggero sputava addosso all’ignaro conducente dietro di noi. Infine, dopo una grandine di accidenti che avrebbe ridotto in macerie tutta Bologna, Kat ritirò la testa e si sedette composta borbottando qualcosa come “certa gente dovrebbe girare solo in triciclo”, mentre io mi raddrizzavo quel tanto che bastava per riuscire a vedere la strada. Senza aspettare nemmeno che chiudesse il finestrino, misi la prima e mi allontanai sgasando, terrorizzata che l’uomo alla guida della Multipla grigia riuscisse a prendere il mio numero di targa.
«Lisa, dove sei finita?» sentii chiedere da dietro il mio sedile. Aspettai di essermi allontanata ancora qualche metro prima di agitare una mano per segnalare la mia posizione e riemergere.
«Che ci facevi là sotto?».
«Mi erano caduti gli occhiali» borbottai. Inutile discutere della spiacevole faccenda appena conclusasi.
«Ma hai visto quel tipo? Chi si credeva di essere?! Meno male che gliene ho dette quattro, altrimenti avrebbe di certo aggredito altre povere fanciulle innocenti al semaforo, e non avrei potuto tollerarlo, sai quanto odio i tipi così!, mi fanno venir voglia di...».
«Kat, ci ha solo suonato dietro perché il semaforo era verde» bofonchiai senza riuscire ad attirare l’attenzione della mia amica, troppo infervorata del suo racconto.
«... e non ha nemmeno saputo rispondere! Un codardo, quindi, oltre che un molestatore di donzelle indifese!».
Ecco, ci mancava pure la donzella indifesa. E Kat si stava accanendo in quel modo solo perché quel tizio non aveva avuto troppa pazienza! Se mai un qualcuno dalla disperata voglia di suicidarsi l’avesse superata alle casse del supermercato, sarebbe scoppiata una guerra atomica!

La giornata era splendida, non c’era nemmeno una nuvola in cielo. Il concerto sarebbe stato fantastico, lo sentivo. Provai a continuare a prestare attenzione ai vaneggiamenti di Kat, ma la mia mente si rifiutava di collaborare e il dolce dondolio dell’auto induceva meravigliosamente alla meditazione. Ancora una volta mi ritrovai a fantasticare su di Loro, attendendo impaziente ogni curva come se dietro di essa fossero appostati tutti e quattro con un cappellino a cono in testa pronti a farmi “buh!”. Lo ammetto, la mia immaginazione è decisamente infantile e assolutamente fuori controllo. Un difetto dovrò pur averlo, no?
Così, persa nella mia testa, lasciavo che fosse la macchina a guidarmi invece del contrario, permettevo alle ruote di svoltare su vie familiari, congeniali ai pneumatici e rilassanti per il motore. Senza rendermene conto imboccai la solita strada che facevo per andare a scuola.
«Fermati, Lisa! Dove stai andando? Dovevi andare dritta invece che girare a destra! Il centro commerciale è per di là!» sbraitò immediatamente Katia, allungandosi a scrollarmi una spalla. Tornai alla realtà così bruscamente che d’istinto inchiodai e per poco non tamponai la vettura che mi precedeva. Non stavo guidando a velocità troppo sostenuta eppure il contraccolpo della cintura di sicurezza mi tolse il fiato per un momento. Anche Kat fu sbalzata all’indietro ma non ebbe troppi problemi a recuperare altra aria da espellere.
«Porca... Ma dove hai la testa? Volevi farmi morire di paura? Cazzo, se vuoi che sia io a guidare non farti problemi a dirlo, metti da parte un momento il tuo orgoglio, ma non farci ammazzare tutte e due!».
Non la stavo ascoltando. Avevo lo sguardo fisso nel vuoto e il cervello, compresso e narcotizzato, sparato alla velocità della luce nello spazio. Prima di riuscire a formulare di nuovo un pensiero mi ci vollero alcuni minuti, durante i quali Kat non la finì un momento di blaterare e la coda di auto dietro di noi di suonare i clacson all’impazzata. Infine, lo stesso lampo che mi era balenato nella testa, la causa della mia frenata così brusca, riaffiorò dalle pieghe della mia memoria.
“Ho visto qualcosa...”, fu la prima cosa che mi passò per la mente. Non appena accettai questo fatto, il mio cervello, schizzato indietro a velocità ancora più elevata dall’universo alla mia scatola cranica, parve decomprimersi e sospirare di sollievo. Misi di nuovo a fuoco la realtà che mi circondava e trovai perfino la lucidità per aprire la portiera a Kat, che prese il mio posto da guidatore, e infilarmi, malferma, di nuovo in macchina, stavolta dalla parte del passeggero posteriore. Prima di ripartire accennai un gesto di scuse attraverso il lunotto alla donna corrucciata e impaziente che guidava una Mini verde polveroso a pochi centimetri dalla mia Peugeout 206.
Con uno scatto rabbioso, Kat ingranò la prima e si lasciò alle spalle la coda insofferente di uomini in scatola.

Nei seguente dieci minuti nell’auto non volò una mosca. Poco più avanti, Kat scovò un parcheggiò e praticò una disinvolta inversione a U che ci riportò nella direzione giusta, imboccò con decisione la svolta adatta e proseguì ad un’andatura meno sciolta del solito ma in ogni modo naturale. Il tutto nel silenzio più assoluto. Per un certo verso non mi dispiaceva: avevo il tempo e la concentrazione adatta per pensare e cercare di ricordare quello che avevo visto, un’immagine sempre più sfocata e confusa che man mano si stava ritirando verso gli angoli della mia memoria, ma d’altra parte sentivo il bisogno di parlarne con Katia, e subito, nonostante ancora non me la sentissi di aprire bocca.
«Insomma, che ti è successo?» sbottò di punto in bianco Kat mantenendo la testa rigidamente voltata in avanti. Provai inizialmente un tiepido moto di gratitudine verso la mia amica dovuto al sollievo che fosse stata lei a prendere la parola, un sollievo che subito la fiamma fredda della risposta che mi bruciava dentro spense.
«Non mi crederesti» mugugnai spremendomi il cervello per ricavarne ancora almeno un invisibile filamento di ciò che stavo lentamente dimenticando.
«Prova a spiegarmelo lo stesso. Un colpo di sonno? Hai riposato male? O forse un malore?». Lo sguardo azzurro che si rifletteva nello specchietto anteriore si fece improvvisamente cupo. Scossi la testa.
«Sei fuori strada. Io sto bene. È stato come... un flash. Un lampo. Un’immagine, credo, che si è sovrapposta alla realtà e mi ha spaventato. Non so come descriverlo, faccio fatica a riviverlo...». Un gemito di frustrazione mi rimase incastrato tra i denti mentre
strizzavo gli occhi, concentrata al massimo. Un dolore acuto alla tempia mi perforò il cranio da parte a parte. Mugolai.
«Cioè, hai avuto una specie di visione? Giusto?» azzardò Kat, strascicando le parole una a una come se dovesse ricredersi subito dopo.
«Sì, probabilmente. Un’apparizione, una manifestazione di un qualcosa fottutamente trascendentale, che ne so. Non riesco a ricordare bene...».
«Smettila di pensarci, allora. Vedrai che ti tornerà in mente prima o poi» consigliò saggiamente la mia amica. Sospirai volgendo il mio sguardo al paesaggio sfocato fuori dal finestrino, in cerca di qualcosa che potesse tamponare quel buco nero che era la mia memoria a breve termine. Centinaia di automobili sfrecciavano al mio fianco, chi più chi meno veloci, o nuove, o sfasciate, o impolverate, o tirate a lucido, ognuna comunque attirava su di sé i raggi di sole e rifulgeva di essi... rifulgeva... riful...
Una fitta alla testa. Luce. Tanti piccoli dischi di luce. Anche dei numeri, forse. Pareti luccicanti... Ah, se solo non mi fosse girata tanto la testa! Annaspavo. Delle mani mi tiravano, mi toccavano con prepotenza, mi martellavano nella testa con le loro calde voci silenziose...
Buio.

_

Lisa! Lisa! Oh, Santissimo... Lisa!».
Riemersi sputacchiando e inspirando profondamente. Due mani mi schiaffeggiavano leggermente le guance e due occhi azzurri mi fissavano preoccupati. Katia.
Mi rizzai a sedere tanto in fretta che mi girò di nuovo la testa.
«Che è successo?» domandai con un filo di voce. Mi accorsi di essere stesa sul sedile anteriore della Peugeout. La macchina era ferma ad una piazzola di servizio con le quattro frecce accese e tutte le porte aperte. Kat mi ricacciò indietro.
«Per piacere, stai giù! Hai avuto un mancamento perciò ho mi sono fermata il prima possibile. Hai gridato qualcosa mentre eri svenuta, sembravi posseduta! Mi hai fatto morire di paura...». E per la prima volta dopo anni e anni, Kat non seppe più cosa dire. Rimase senza parole, un avvenimento talmente raro cui temevo non assistere mai.
Nota: svenire più spesso. Se portava a quegli effetti...
Sbattei gli occhi, confusa, tentando di ricostruire l’accaduto.
“Allora, cominciamo dall’inizio. Stamattina svegliata presto, andata in cucina per terrorizzare Daniel, mangiato nutella con peperonata di zia Lidia, preso macchina per andare al centro commerciale con Kat, avuto visione allucinante... Ecco, ci siamo. È stata quella visione! L’ho avuta di nuovo. O forse era solo una specie di richiamo, come col vaccino... L’ho dimenticata e per questo loro me l’hanno fatta ricordare. Efficace, certo... Ma... Un attimo... ‘Loro’ chi?”.
«Come stai? Lisa, ti prego, parlami, sono davvero terrorizzata!» mormorò Kat con un filo di voce. Mi sollevai, più lentamente di prima, su un braccio e la fissai. Aveva gli occhi sbarrati e lucidi, il mento le tremava e sembrava non riuscire a smettere di arrotolarsi un lembo della sua maglia bianca Hello Kitty attorno al dito. Mi faceva una tenerezza incredibile.
«Kat, tranquilla. Sto bene. Ho avuto un mancamento, mica sono morta. Capitano a tutti, giusto? E poi con questo caldo è più che normale... Contando che stasera andiamo al concerto, poi, era praticamente inevitabile!». Tentai di sorridere per sdrammatizzare e i muscoli del mio viso si tesero dolorosamente, come se fossero stati anni che non aprivo bocca.
«Vuoi tornare a casa?» mi domandò apprensivamente Katia, tastandomi la fronte per sentire se avevo la febbre. Scostai dolcemente la sua mano, mettendomi dritta.
«Ma no, sto bene. A te serve una maglietta nuova e quindi andiamo a comprarti una maglietta nuova!».
«Però...».
«Taci! Niente ‘però’! Non voglio sentirti protestare! Non ho niente che m’impedisca di consigliarti a dovere come una buona amica dovrebbe fare, perciò metti in moto prima che ti spedisca al centro commerciale a pedate!».
Kat mi sorrise, mormorò un grazie e corse a sedersi al posto del guidatore asciugandosi di nascosto le lacrime.

_

«Sai, non lo ricordavo così grande».
Kat seguì il mio sguardo lungo la costruzione scrostata fino ad arrivare alla cima in vetro, che ammiccava invitante agli affannati compratori. Finalmente, dopo tutte le peripezie che avevamo affrontato durante il viaggio, eravamo arrivate a destinazione. Quasi non ci credevo!
«Già, anch’io me lo ricordavo più piccolo... Sarà perché non ci veniamo mai. Dobbiamo organizzare più spesso missioni esplorative qui dentro, che ne dici?», ridacchiò la biondina punzecchiandomi i fianchi con le dita. Mi scansai di lato e le afferrai i polsi per impedirle di attaccarmi di nuovo.
«Sono perfettamente d’accordo, ma se ora non ci sbrighiamo non troveremo nemmeno un calzino bucato! Muoversi, dentro!», ordinai fingendo imperiosità.
«Agli ordini, mio despota!», esclamò Kat mettendosi sull’attenti. Ci prendemmo a braccetto e ridendo e barcollando come una coppia di ubriache attraversammo le doppie porte scorrevoli.
«Allora, è di là, vero?».
«Be’, se non hanno scambiato i reparti, sì, è di là».
«Eccoci. Ah, il mio paradiso... Dunque, io avevo in mente un qualcosa come questa qui. Che ne pensi?».
«Non male, non male... Ma non ti sta meglio qualcosa di più chiaro, con la tua carnagione?».
«Nooo, questa va benissimo! Perfetto, poi ques... Oh mio Dio, Lisa! Guarda chi c’è!».
«Chi?».
«Marco! Il tipo della festa! Quello moro, davanti al camerino, hai capito chi, no? Oh, cazzo. Si è girato da questa parte! Vieni qua, scema, nascondimi!».
«Ahia, Kat, che mi tiri?! Si può sapere perché non vuoi vederlo?».
«Alla festa è successo un casino, ti spiegherò più tardi. Ti dico solo che è colpa sua se non ho più la mia maglia nera...».
«Vuoi dire che ha provato a...?».
«Shhhh! Shhh! Smettila di parlarmi! Oh, no, viene verso di noi... Ecco, è stata tutta colpa tua!».
«Scusa, ma non è tanto facile comportarsi naturalmente con una che ti tira tutta la maglia da dietro!».
«Insomma, ti lamenti sempre! Adesso comportati con naturalezza, mi raccomando, non voglio far brutte figureeecciaaaaaaao, Marco!».
«Salve ragazze! Anche voi a far compere?».
«Sì, ci dobbiamo addobbare per bene per il concerto di stasera, giusto, Lisa?».
«Ahiu! Eh, eh sì, abbiamo tante cose da comprare...».
«Allora vi lascio, ci vediamo in giro. Ciao!».
Non appena Marco sparì alla vista, mi voltai con uno sguardo che uccideva (letteralmente) e fulminai Katia.
«Che bisogno c’era di darmi un pizzicotto del genere? Mi avrai lasciato il livido, cretina!» piagnucolai massaggiandomi la schiena. Katia incrociò le braccia al petto e mi polverizzò con un’occhiata altrettanto letale.
«Sembravi un baccalà, ho dovuto farti reagire! Sapevi che avevo bisogno di aiuto, e...».
«Sì, tu e il tuo “addobbare”, mica siamo alberi di natale!».
«Insomma, ero in imbarazzo, per la miseria! E tu non mi hai dato una mano per niente!».
«Ok, ok, time out. Stare a litigare per quello non ne vale la pena. Dobbiamo concentrarci sulla nostra missione!».
«Hai ragione, pace... Dunque, ti dicevo, una maglietta del genere...».

. . .

[Moooolto tempo dopo]

«Kat... Uff... Una mano...».
Katia si girò guardandomi innocentemente dall’alto del suo metro e settantatre. In una situazione normale io superavo la mia amica di qualche, fondamentale, centimetro, ma sotto il peso eccessivo di cinque borse stracolme mi sentivo nettamente più bassa. Katia, dicevo, si osservò le mani pallide e affusolate.
«Cos’ha che non va la mano? È per la forma strana del pollice della destra, vero? Non ci posso fare nulla, ho cercato di correggerne la direzione, ma quello non ne vuole sapere!».
Sbuffai e mi sostenni al parapetto delle scale, riprendendo fiato.
«No, Kat, le tue mani sono bellissime. Ti stavo chiedendo se potevi darmi una mano a portare le borse. In fondo è roba tua» spiegai con pazienza. Inspirai a fondo e tossii. Ero tutta sudata e l’aria condizionata mi stava irritando la gola. Acqua, acqua!
«Lo sai che ti aiuterei volentieri, Lisa, ma sono appena andata a farmi la manicure, mi si creperebbe lo smalto. E non posso rischiare di avere un’unghia diversa dalle altre, non stasera!» spiegò la bionda con decisione.
Certo. Lei non doveva rovinarsi la manicure, ma io potevo tranquillamente già segnarmi sull’agenda tre anni di ginnastica correttiva per l’accenno di scoliosi che ero sicura mi fosse venuto quel giorno.
«Avanti, energia, andiamo!», trillò Kat saltellando giù per le scale. Una lunga rampa di scale. Una lunghissima rampa di scale. Un peso mi precipitò in fondo allo stomaco. Mai, mai ce l’avrei fatta ad affrontare quelle scale! Le conoscevo bene, e avevo già avuto la mia brutta esperienza dovuta a un gradino inspiegabilmente scivoloso e a un corrimano di cartapesta. Ma questa è un’altra storia.
Mai, mai ce l’avrei fatta ad affrontare quelle scale.
«Ehm, Kat?», chiamai, impalata sul primo scalino. Solo al secondo richiamo, più forte del precedente, Katia e circa qualche decina di persone si girarono. «Senti, sono distrutta, non credo di riuscire ad affrontare anche le scale... Facciamo così, io prendo l’ascensore e poi ci troviamo fra due minuti all’uscita, davanti alla macchina. D’accordo? Bene, ciao» affermai dirigendomi verso le due porte argentate che s’intravedevano fra un negozio di articoli sportivi e uno di alimentari.
«Ma dai, aspettami vengo con te!», esclamò Kat scapicollandosi di nuovo su per raggiungermi.
«No!» la fermai. Kat era deliziosa, una bella persona e molto piacevole, ma un intero pomeriggio non-stop con lei induceva a pensieri allettanti di lamette e cornicioni mooolto alti. Insomma, stavo rischiando l’overdose, e quei cinque minuti di silenzio dondolante nell’ascensore sembravano essere la mia unica cura.
«Stai tranquilla, vado da sola! Tu sei già a metà scala, non ha senso tornare indietro! E poi forse devo fermarmi anche in quella fumetteria...». Era la parola magica. Per Katia, la fumetteria del centro equivaleva all’acqua santa per il diavolo. Difatti, la sua espressione mutò completamente.
«Ah, devi passare in fumetteria? Perché non me l’hai detto subito? Allora ci vediamo fra dieci minuti alla macchina, ok? Ciao!». Svanì ancora prima che registrassi completamente il senso delle sue parole.
Più leggera di dieci chili (senza contare borse e borsette varie, ovviamente), trotterellai verso l’ascensore. Premetti il bottoncino luminoso e osservai deliziata le porte aprirsi, come per magia. Era vuoto. Mi infilai dentro il più agilmente possibile, stiracchiandomi deliziosamente non appena potei mollare le borse a terra, felice di essere felice. Schiaccia il bottone del piano terra, e aspettando che gli ingranaggi si mettessero in funzione, presi a guardarmi attorno, lieta che le pareti rivestite di metallo argentato non apparissero claustrofobiche come avevo immaginato e che le sbarre fissate ai lati sembrassero così sicure; presa dal mio test sulla solidità dei sostegni, quasi non notai che un attimo prima che le porte si chiudessero un altro passeggero s’era introdotto frettolosamente nella fessura rimasta aperta. Riuscì a passare per un pelo, perse l’equilibrio e si aggrappò alla sbarra dal lato opposto al mio imprecando in una lingua sconosciuta. Mi trattenei a stento dallo scoppiare a ridergli in faccia.
Era vestito in modo particolare, ricercato, mezzo rapper e mezzo metallaro, con quegli occhiali da sole che parevano coprirgli tutta la faccia, il cappuccio in testa e degli abiti in cui sarebbero potute entrare comodamente almeno altre due persone. Un tipo interessante, a mio parere. Magari, in un’altra occasione non avrei esitato ad attaccare bottone, ma scossa com’ero non mi pareva proprio il caso. Rimasi ad osservarlo mentre si lisciava frettolosamente la felpa e si rintanava disinvoltamente nell’angolo più lontano da me. Mi resi conto di ricredermi riguardo le mie supposizioni di conquista. Non era molto più alto di me, e nemmeno più grande o più intelligente (certe cose le capivo alla prima occhiata), eppure riusciva ad incutermi una paura quasi reverenziale nei suoi confronti. Non sarei mai riuscita a rivolgergli la parola.
L’ascensore fece un tremito e il piacevole senso di vuoto allo stomaco mi segnalò che finalmente stavamo scendendo. Scrollai le spalle per scacciare il brivido freddo corsomi lungo la schiena e mi affrettai a radunare tutte le borse rimanendo saldamente attaccata al corrimano.
Neanche un minuto dopo, quando più o meno ci trovavamo a metà strada, sentimmo dei rumori sinistri e preoccupanti, e fra cigolii e scossoni l’ascensore si bloccò.

*


Fine seconda parte.


   
 
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