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Autore: HuGmyShadoW    03/09/2008    3 recensioni
[...]"Quel giorno mi svegliai. Dato che circa sei miliardi di persone ogni giorno trovano la forza di aprire gli occhi e di trascinarsi lungo la giornata la potrete ritenere un’informazione irrilevante. Il mio risveglio però non è un avvenimento così ordinario"
Una ragazza, lei. Un ragazzo, lui. Il loro particolare incontro, lì, in ascensore. Proprio Lei e Lui. Loro, insomma.
Genere: Generale, Romantico, Demenziale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L.o.c.k.e.d.



1^ Parte

No, quella in cui mi trovavo decisamente non era una situazione normale. Anzi, era l’impossibilità fatta persona.
Eppure, pensai torturandomi il piercing che occhieggiava dal mio labbro inferiore, mi trovavo proprio lì. E con “lì” intendevo bloccata in un ascensore del centro commerciale da quasi un’ora, sommersa di borse stracolme, in compagnia di Tom Kaulitz. Se di “compagnia” si poteva parlare. Non è che avessimo fatto questa grande conversazione.
Comunque io l’avevo detto all’inizio che non era una circostanza da ricercare sotto la categoria “ordinaria”.  Ed ero abbastanza vicina da sentire il suo profumo...
Ma forse è meglio cominciare dall’inizio.

*

Quel giorno mi svegliai. Dato che circa sei miliardi di persone ogni giorno trovano la forza di aprire gli occhi e di trascinarsi lungo la giornata la potrete ritenere un’informazione irrilevante. Il mio risveglio però non è un avvenimento così ordinario. Per me il giorno equivaleva quasi sempre alla notte, da anima nottambula quale sono, per cui spesso mi addormentavo alle sei di mattina per svegliarmi alle sei di sera. Quando andavo a scuola non potevo permettermi questi ritmi di vita (anzi, mamma non me lo permetteva) e mi toccava immergermi a mia volta nella massa di pendolari diurni ooogni giorno. Ma adesso che era estate e avevo finito anche l’ultimo anno, potevo permettermi di diventare un tutt’uno col mio letto anche per tre giorni di fila, e guai a chi protestava! Quella Mattina fu la classica eccezione che confermava la regola.
La sveglia trillò per circa venti minuti prima che la mia mano intorpidita trovasse la forza di riemergere da sotto il cuscino per scaraventarla a terra e poi gettare all’aria le coperte. Sbuffando come un ciminiera mi misi seduta strofinandomi gli occhi e cercando le pantofole contemporaneamente: non sopportavo il pavimento gelato appena sveglia.
Mi alzai in piedi tutt’altro che cosciente cercando un buon motivo per non tornarmene a letto di filato e, probabilmente per pura inerzia, presi a zigzagare con l’andatura di uno zombie fra le innumerevoli cianfrusaglie che disseminavano il suolo tutt’attorno.
In origine, tutti quegli orsacchiotti sventrati, riviste scarabocchiate, libri e fumetti strappati e bambole mutilate abitavano innocentemente gli scaffali della mia cameretta color azzurro cielo, ma col tempo sembravano chiaramente aver designato il linoleum graffiato come loro nuova casa. E io non gliel’avevo certo impedito, anzi, mi andava bene così. Chiunque fosse entrato in qualsiasi momento nella mia stanza avrebbe, a ragione, pensato che come domestica avessimo un tornado impazzito al posto della nostra cara Ines.
Ines era una bella donna nera sulla cinquantina, tarchiata e molto materna, a cui avevo sempre invidiato quel sorriso caldo che sembrava avvolgere tutti; la sua voce profonda e autorevole aveva incondizionatamente fatto rigare dritta la sottoscritta, almeno fino all’indomabile età di diciotto anni. Negli ultimi tempi infatti aveva rinunciato a chiedermi di risistemare almeno quell’accozzaglia di roba sparsa sul pavimento al loro posto, forse stanca di ricevere come risposta le mie imprecazioni bofonchiate. Da mesi ormai si rifiutava di mettere piede nella mia stanza che, abbandonata a se stessa, ormai era governata dal caos e dalla polvere perenne.
Quella Mattina stavo appunto cercando di guadagnare la porta senza ruzzolare a terra affidandomi solo su quattro dei cinque sensi (senza contare il “sesto”), ma quando ormai sentivo di essere vicina alla meta inciampai in qualcosa di rigido e ingombrante, che quando fui col culo per terra identificai come uno scatolone colmo di vecchie foto. Foto che mai e poi mai avrei permesso abitassero in camera mia! Il colpevole poteva essere solo uno...
Ringhiai e imprecai per dei buoni minuti massaggiandomi il punto dolente, lasciando che la rabbia mi desse di nuovo la forza per alzarmi e scaraventarmi giù per le scale. Gli ultimi tre scalini li saltai direttamente ma persi l’equilibrio e per poco non mi ruppi l’osso sacro; fortunatamente, trovai come appiglio l’attaccapanni sovraccarico che sostava vicino alle scale e riuscii a riprendere la mia marcia furiosa senza danni.
Attraversai l’ingresso e quasi scardinai la porta della cucina per entrare e ruggire:
«Daniel!».
Una veloce occhiata alla stanza linda mi permise di individuare la mia “vittima”. Lasciai scivolare gli occhi lungo il frigo lucente, i fornelli incrostati, il forno ammaccato, la tavola strisciata e... eccolo!
Seduto tranquillamente su una sedia scassata, i gomiti appoggiati al ripiano di legno a sostenersi la testa, il pestifero bimbo biondo sogghignò socchiudendo gli occhioni verdi.
«Non ti è piaciuto il mio... regalino? Sai, dovresti trovare una sistemazione per quello scatolone: ficcarlo nel mio armadio non è stata una buona idea, lo sapevi, no? Certo che siete venuti proprio bene tu e il tuo ex ragazz...».
«Sei morto, pulce!» strillai saltandogli al collo per impedirgli di finire la frase. In uno scatto fulmineo, quello scarafaggio socialmente riconosciuto come il mio adorabile fratellino di nove anni sparì sotto al tavolo e le mie mani riuscirono solo a graffiare l’aria. Ringhiai come un animale ferito e mi tuffai anch’io in una sorta di battaglia sotterranea.
Già pregustavo la prossima punizione che avrei inflitto a quella specie di serpe che  stava cercando di divincolarsi dalla mia stretta ferrea quando... suonò il telefono, ovvio.
Non so come riuscii a sentirlo sopra gli strilli di quella peste, ma ad un certo punto, forse quando gli ficcai un pugno in bocca per farlo tacere, udii un familiare squillo in lontananza. Ansimante per la combattuta lotta, e pure un po’ contrariata (stavo vincendo!) mi spostai i lunghi capelli scuri dietro le orecchie e schiacciando Daniel a terra con un ginocchio per impedirgli di filarsela, gli mormorai:
«Questa volta sei stato fortunato, piccolo mostro, ma alla prossima che mi fai ti ritrovi appeso per i piedi al tetto. Nudo».
Rotolai in piedi con l’agilità di un gorilla e corsi a rispondere lasciando mio fratello pietrificato sul pavimento; stavolta la sua espressione sembrava sinceramente terrorizzata, constatai con piacere arricciando l’angolo del tappeto persiano durante una scivolata per una curva troppo stretta.
Il telefono riuscì a trillare impaziente un’ultima volta prima che lo afferrassi e me lo portassi all’orecchio.
«Pronto» esclamai chiaramente scocciata. Odiavo qualunque genere di telefonate mattutine, anche se ormai ero in piedi da un pezzo.
«Volevo solo assicurarmi che fossi riuscita a svegliarti».
«Ciao Kat!» cinguettai sorridendo come un’ebete.
Kat, anzi Katia, straordinario incrocio tra madre russa e padre italiano, era, ed è tuttora la mia migliore amica. Tra di noi c’è qualcosa di veramente forte, che ci lega a filo doppio, la mia vita alla sua. Non so dire cosa sia, però c’è! Ci conoscevamo dall’asilo e ancora dopo tutti questi anni non ci eravamo ancora stufate l’una di trascorrere ogni singolo minuto libero con l’altra; a lei potevo perdonare qualsiasi cosa, anche le odiate telefonate mattutine! Katia era così, mi bastava sentire la sua voce melodica per cambiare completamente atteggiamento e ritrovarmi a pensare che il mondo era meraviglioso.
«Sai, stavo per partire verso casa tua con l’artiglieria pesante ma credo che a questo punto non ce ne sia più bisogno», sghignazzò metallicamente dall’altra parte del filo.
Potevo immaginarmela perfettamente, appoggiata al tavolino traballante del corridoio, la cornetta bianca dal modello superato in una mano e una ciocca color miele attorcigliata nell’altra. Probabilmente stava anche masticando un chewingum alla fragola. Katia aveva sempre una gomma alla fragola in bocca, che fosse mattina o notte inoltrata, con la quale si divertiva a soffiare palloni profumati dalle dimensioni considerevoli che io puntualmente le scoppiavo.
Adoravo Katia ma non mi era mai piaciuto quel suo continuo lavorio di mascelle ovunque e in presenza di chiunque.
Anche la Mattina sentii in lontananza, attutito dai tre isolati che ci separavano, lo scoppio di una bolla alla fragola. Cercai di ignorare quel rumore fastidioso che mi faceva rabbrividire e mi concentrai sulle parole della mia amica.
«... e devo andarci al più presto! Mi accompagni?».
«Scusa Kat, non ti stavo ascoltando. Puoi ripetere?».
La sentii sbuffare sonoramente.
«Lisa, svegliarti presto è così terribile per te da farti spedire il cervello su un altro pianeta?».
«Puoi ben dirlo! Sto ancora cercando un motivo per non tornarmene dritta filata a letto».
«Uhm, vediamo, te lo trovo io? Dunque, c’era qualcosa che dovevi fare oggi, forse andare in qualche posto, ma che cos’era... oh, già, il concerto dei Tokio Hotel forse?!».
Alzai gli occhi al cielo. Odiavo quel suo sarcasmo pungente.
«Grazie Kat, ma lo ricordavo da sola».
«Non ci metterei la mano sul fuoco... Comunque, se fossi riuscita a registrare il senso delle mie parole, stavo dicendo che non trovo più quella maglia che ho usato alla festa di quel tizio la settimana scorsa, non mi ricordo come si chiamava... Un certo Marco Qualcosa, mi sembra... Hai capito quale maglia intendo, no? Sì, dai, quella nera, scollata, con i fiocchetti! Non so dove l’ho messa, ho rivoltato la casa come un guanto, non la trovo!, e visto che il concerto è stasera e non ho niente da mettermi volevo che mi accompagnassi al centro commerciale vicino al palasport, so che ci sono i saldi o comunque uno sconto di un tot percento sui capi d’abbigliamento del secondo piano. Devo andarci al più presto quindi non puoi dirmi di no!».
Io, rimasta zitta per tutto il tempo di quel monologo improvvisato, non potei trattenermi dallo scoppiare a ridere.
«Che hai tu da sghignazzare tanto?», mi esclamò in un orecchio perforandomi i timpani con la sua vocetta da soprano.
Finalmente mi ripresi e anche se a scatti a causa dei singhiozzi, riuscii a risponderle.
«Kati, ma respiri mai quando parli?!».
«Ah, era solo per questo che ridevi come una scema?! Pensavo ti stesse venendo un attacco di Nonsocosa, una malattia che ti fa ridere ininterrottamente per dei giorni interi, ne devo aver letto in qualche rivista la settimana scorsa...».
Sorridendo fra me e me, lasciai che il timbro piacevole della voce di Katia si infrangesse nelle mie orecchie e lì si fermasse, lasciando i pensieri liberi di vagare.
Perché d’accordo che ero sveglia da un pezzo, ma per affrontare gli sproloqui di Kat dovevo prima riempire lo stomaco!
Finsi di ascoltare i vaneggiamenti della mia amica per qualche altro minuto, poi però mi stufai e decisi di troncare la conversazione usando come scusa un bisogno impellente del bagno.
Un po’ scocciata, Kat mi congedò dandomi appuntamento a quel pomeriggio davanti a casa mia per partire alla volta del centro commerciale alla ricerca di qualcosa da mettere che avrebbe stupito perfino quei quattro figoni dei Tokio Hotel.
M’incamminai verso la cucina, sollevata di trovarla vuota e silenziosa, rivolgendo i miei pensieri solo al barattolo di Nutella che mi fissava maliziosamente aperto sopra al ripiano del lavello. Raccolsi col dito una dolce goccia viscosa che scivolava testardamente lungo il vasetto e me la portai alla bocca, assaporandola come fosse l’ultima.
Mmm, buona. Troppo buona.
Afferrai il barattolo e mi sedetti a tavola, pregustando un altro pasto di solo pane e cioccolata. Se quella sera avessi assistito al più meraviglioso concerto della mia vita, tanto valeva assumere un po’ di zuccheri per prevenire svenimenti o tachicardie. No?

La mattinata scappò via in fretta, forse troppo velocemente, così come il primo pomeriggio, passato quasi interamente a sonnecchiare per recuperare le ore perse, e prima ancora che avessi potuto mandare giù la peperonata di zia Lidia (mamma alla fine mi aveva brutalmente strappato dalle mani il barattolo di Nutella), Katia era sotto le mie finestre a suonare a trombe spiegate il clacson della sua Panda Young bianca scassata.
Con solo la vecchia maglietta grigia extralarge che usavo come pigiama corsi fuori ad aprirle il cancello.
In due manovre Kat parcheggiò nel mio vialetto e scese con grazia dall’auto, masticando sfrontatamente a bocca aperta la solita gomma alla fragola.
«Ehilà, cricetina! Ci si rivede finalmente! Mi sembra una vita che... Ma non sei ancora pronta? Te l’avevo detto che arrivavo verso quest’ora, non puoi essertene già dimenticata! Su, forza, non ho tutto il giorno!» esclamò vedendomi impalata sulla porta di casa, assonnata, a piedi nudi e con i capelli tutti arruffati. Ridendo, mi raggiunse a lunghe falcate e prese a spingermi dentro.
«Su, su, animo! A lavarsi e cambiarsi, il look sonnambula non ti dona affatto! A meno che tu non voglia lanciare una nuova moda... Forza, i vestiti te li scelgo io, tu vai!» mi disse irrompendo nella mia stanza e lanciandosi a saccheggiare il mio armadio.
Per qualche minuto rimasi ad osservare la maggior parte del mio guardaroba volare per tutta la stanza sforzandomi di capire chi ero e cosa ci facessi lì, quando Kat, dall’aria soddisfatta, riemerse con una maglia della Reds di traverso sulla testa e un paio di Converse in mano.
«Be’?» sbottò accorgendosi della mia presenza. Io la fissai di rimando, senza capire. Lei si alzò e mi trascinò in bagno sbuffando come una locomotiva.
«Vai a farti una doccia, no? Dai, Lisa, collabora per una volta!» miagolò cacciandomi in mano un asciugamano bianco e chiudendomi la porta in faccia.
«Ma...» provai finalmente a protestare.
«Sbrigati!» mi urlò Kat dal corridoio.
Dopo qualche secondo di riflessioni decisi che sì, potevo farmi una doccia veloce, così lasciai cadere a terra la maglia grigia e mi infilai nello stretto cubicolo. Il forte getto di acqua calda mi rianimò completamente e mi permise di imprecare con lucidità contro Katia e la sua maledetta irruenza per dei buoni minuti. Ogni volta che prendeva a parlare mi trovavo con dieci borse di Dolce&Gabbana in mano o peggio, a ballare sul cubo in discoteca! Era impossibile schiacciare lo stop, e prima che te ne rendessi conto, tac!, ti trovavi davanti al fatto compiuto. 
Chiusi l’acqua e uscii dalla doccia avvolgendomi subito nell’asciugamano che mi aveva preparato Katia; odiavo avvertire anche il minimo soffio d’aria sulla mia pelle bagnata. Presi un altro asciugamano più piccolo, stavolta rosa, e mi frizionai velocemente i capelli. La mia sosia allo specchio imitava alla perfezione ogni mio movimento, fissandomi con aria assorta dall’altra parte del vetro. Mi avvicinai, appoggiandomi al lavandino.
Non sono brutta, ma neanche nulla di speciale: i miei capelli sono banalmente castani e lunghi, e se fossero lisci e setosi potrei anche accettarlo, invece sono ribelli e tutti ondulati; ho un viso ordinariamente ovale su cui spiccano, per un puro caso genetico, un paio di occhi verdi e una bocca piccola e spesso corrucciata; sono alta nella norma, forse un po’ di più, e ho un fisico asciutto, in quel momento fatto risaltare ancora di più dall’asciugamano. Ragazze così però ne avrete viste a milioni, e a parte la voglia a forma di cuore che ho sulla mano destra io non differisco da loro in niente...
Sbuffai e allontanai quei pensieri che potevano affondare la mia autostima come una barchetta di carta e uscii dal bagno, rivolgendo solo un’ultima occhiata distratta al mio riflesso imbronciato. E quando per quei pochi attimi incrociai i miei stessi occhi, ebbi l’impressione di scorgere uno strano luccichio, quasi che loro sapessero, conoscessero già qualcosa a me negato.
Ma sapessero cosa?, mi chiesi tornando nella mia stanza.

«Kat?», chiamai incerta affacciandomi dalla soglia, indecisa se entrare oppure no.
«Mm-mm?», mugugnò una voce vagamente localizzata dalle parti del mio armadio. Perfetto...
«Tutto bene?», chiesi seriamente preoccupata, cominciando a muovere i primi passi nella stanza. Mi guardai intorno. «Ma che cazzo è successo qui? Che hai fatto?», gridai.
La mia stanza, se possibile, era ancora più disordinata dello standard massimo. Maglie, jeans, gonne, scarpe, camicie, pantaloni, canottiere, shorts, stivali e ciabatte erano sparsi in tutta la stanza, da sopra al lampadario a sotto il letto, ma principalmente sul pavimento.
Mi avvicinai all’epicentro di quello sterminio, raccogliendo man mano i caduti di guerra che incontravo lungo il mio cammino e spolverandoli amorevolmente con le mani.
Aggirai l’anta aperta dell’armadio, scavalcai una pila di riviste e piombai come una furia sulla causa di quel genocidio.
«Katiusha Kalinin!», tuonai con le mani sui fianchi. Sapevo quanto Kat odiasse il suo nome completo, e io mi divertivo a sfoderarglielo davanti ogni volta che mi faceva imbestialire.
Difatti, la mia amica sospirò lasciando cadere una maglia gialla che non sapevo neanche di avere e mi guardò facendo una smorfia. «Lisa, sai quanto odio il mio nome completo».
Dentro di me sorrisi. Oh, sì lo sapevo bene.
«Non me ne frega un tubo! Mi spieghi a cosa è servito scaraventare il mio armadio per la stanza? So ancora come infilarmi una maglietta decente, e sicuramente l’avrei trovata prima di te!», le strillai indicando il disastro che aveva combinato. Kat si alzò in piedi guardandosi intorno con la fronte aggrottata.
«Io non vedo alcuna differenza rispetto al disordine che c’era prima».
Ruggii e saltai al collo di Kat che, ridendo, mi schivò. Mi ripresi evitando di spiaccicarmi col muso a terra e tentai un nuovo placcaggio, riuscendoci stavolta. Atterrammo entrambe di peso sul letto, scompisciandoci dalle risate, e la finta rissa terminò lì.
«Che sceme che siamo, eh?», singhiozzai asciugandomi le lacrime.
«Soprattutto tu!», replicò Kat facendo una linguaccia. Stavolta non ribattei: era inutile, contro di lei. Solo in quel momento mi accorsi di essere avvolta solo in un misero asciugamano bianco.
«Accidenti, devo cambiarmi!», esclamai saltando giù dal letto. Con lo sguardo percorsi l’intera camera. E ora, come avrei fatto a raccapezzarmi in quella baraonda? Prima di aver capito dove mettere la mani sarebbero passati almeno qualche decennio! Presa com’ero dall’orrenda prospettiva di mettere tutto a posto prima di riuscire a recuperare i capi d’abbigliamento che cercavo, ovviamente gli ultimi sui quali avrei posato gli occhi, non mi accorsi di Kat che, silenziosa come una pantera, mi si era avvicinata, e sussultai dallo spavento quando mi posò sul petto una maglia.
«Che ne dici? Va bene questa?», mi chiese ridacchiando. «Sai, credo proprio che per il concerto sarebbe perfetta, insomma, tu ci stai da dio e in più è nera e dark, proprio come i Tokio Hotel, è perfetta ti dico, perfetta! Non la provi?».
La guardai inarcando un sopracciglio, stupita ancora una volta di come riuscisse a parlare così in fretta senza mangiarsi neanche una parola. Kat sembrò non notarlo, e anzi, sorrise sventolandomi sotto la naso la maglia, euforica. Sbuffai e afferrai rudemente la prossima causa del mio esaurimento nervoso, consapevole di aver acceso la miccia della bomba a scoppio immediato imbottita di commenti e gridolini eccitati su come sarei stata per-fet-ta per il concerto e baggianate simili.
«Io esco, tu vestiti e truccati e poi fatti vedere, nel caso serva qualche ritocchino... A dopo!», trillò Kat senza lasciarmi possibilità di replica. Quando finalmente rimasi sola, sospirai e mi stesi sul letto, stanca come non mai. Non aveva senso mettere adesso i vestiti che avrei indossato questa sera, si sarebbero spiegazzati e probabilmente li avrei macchiati, come facevo di solito quando aveva addosso qualcosa da tenere da conto. E poi, a pensarci bene, non ero sicura che la maglia che aveva scelto quella pazza della mia amica fosse davvero adatta per il concerto. D’accordo, era nera, stretta sotto il seno e poi libera, come andavano di moda adesso, e aveva un sacco di nastri e fiocchetti, però non riuscivo ad immaginarmela addosso. Io volevo distinguermi, volevo dimostrare di essere diversa da tutte le altre fan che mettono solo abiti neri per fingersi emo, dark o gotich. Volevo far vedere la vera me stessa a quei quattro sul palco, se mai mi avessero notata. Avevo il mio stile, non mi attirava l’idea di confondermi con la massa pur di dire “a me piacciono i Tokio Hotel”, anzi, non dovevo mostrarmi come tutte le altre!
Mi alzai dal letto e seguendo solo il mio istinto mi diressi verso la maglia gialla, abbandonata per terra; rimasi a fissarla un bel po’ prima di decidermi a prenderla in mano. La studiai: non era niente male, in fondo. Chissà perché non la mettevo mai... Sorrisi fra me e me mentre me la infilavo, immaginando la faccia scandalizzata di Kat quando mi avrebbe vista uscire combinata in quel modo: avrei sconvolto i suoi piani! Chissà, poteva essere la volta buona che rimanesse senza parole!
Risi forte e mi accucciai sotto la scrivania per recuperare il paio di jeans più frusto, graffiato e strappato che possedevo.

*

» Fine prima parte.

   
 
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