Nella Nebbia
- OWARU -
*
Praschaj *
La
nebbia fitta e grigia era resa nera dalla notte precoce e il vento giocava con
i nostri cappotti scuri facendoci stringere di più nei maglioni. Un cane in
lontananza ululava alla luna, convinto di scorgervi chissà quale presagio di
sventura, e lo sfrecciare delle macchine sulle strade del centro arrivava a
percuoterci i timpani. Stavamo immobili, quasi invisibili nella nebbia, con gli
occhi lacrimanti per il freddo e le mani tremanti, aspettando la nostra vittima.
Sedevamo sui bordi della passerella, il piccolo ponte nel centro della città
sotto il quale sarebbe passato il treno delle sette, e l’unico rumore, oltre al
dialogale di un gatto solitario, erano i nostri respiri. Poi, improvvisamente,
dei passi: una figura imbacuccata in un giubbotto celeste avanzava alla cieca
nella nebbia, camminando lentamente per evitare di inciampare in qualche
ostacolo. Il Cantante, che stava a pochi respiri da me, mi guardò e io feci un
cenno affermativo con la testa: eccola. Un fischio leggero, lei neanche se ne
accorse, e tutti erano già in posizione, pronti a giocare. The game can
start, si udì nella nebbia in un inglese storpiato. La ragazza si voltò,
cercando dietro di se la provenienza della voce, ma non scorgendo niente. Ricominciò
a camminare quando uno strano tumulto di foglie spezzate e di respiri affannosi
si diffuse nell’aria. Fece appena in tempo a scorgere una sagoma indefinita
correrle incontro prima di ritrovarsi stesa sul duro selciato, con un discreto
peso addosso. Fu da lì che iniziò l’incubo.
Il
campanile della lontana chiesa suona undici rintocchi. Mamma sta giocando a
carte con i miei zii, durante l’ennesima riunione famigliare, e urlano così
tanto che credo nessuno si accorgerà della mia momentanea assenza. Ripensando
ancora al ricordo che il campanile ha bruscamente interrotto, infilo giaccone e
sciarpa avviandomi verso il portone d’entrata. L’aria gelida mi avvolge subito;
c’è lo stesso freddo di quella sera, mi sembra di sentirlo ancora sulla pelle,
e la nebbia è altrettanto fredda e scura, il debole riflesso della luna e delle
stelle non riesce a rischiarare questa cupa notte invernale e così sono
costretta a chiudere per bene la cerniera della giacca. So benissimo che non è
il freddo l’unica cosa che mi fa tremare: paura ed eccitazione si divertono a
giocare con la mia mente e con i miei acciaccati ricordi, mescolandoli tra
loro. Sento dei bisbigli in lontananza, proprio dove c’è il Gelso, la cui
chioma è l’unica cosa che, seppur indistintamente, si scorge nella nebbia. La
seconda tornata di rintocchi mi spinge ad avviarmi: è giunta l’ora. “Ciò che
non è stato sepolto sotto il Gelso al Gelso deve ritornare”, la frase che
l’Attore mi ha detto questo pomeriggio riesce a mantenersi nitida nella
confusione della mia mente e persiste nel riaffacciarsi sul mio volto, in un
sorriso amaro. Affretto il passo: c’è un funerale rimasto in stasi per ben
quattro anni da terminare. Le fronde del Gelso non sono più rigogliose come
tanto tempo fa, solo poche foglie sono verdi, sopravvissute al passare degli
anni e a questo inverno rigido. Il tronco è ancora diramato, il pianerottolo di
rami intrecciati c’è ancora, ed è lì che infatti è accucciato il Cantante.
“Come al solito in ritardo, Lettrice…”. Sbuffo, come facevo in quei giorni allo
stesso richiamo “E tu sei come al solito troppo ciarliero, Cantante.” “Questo è
sempre stato un nostro difetto, se non sbaglio…” si intromette l’Attore,
appoggiato contro il tronco proprio sotto il Cantante. “Grazie del caloroso
benvenuto.” Dico. “Non mi pare che la tua sia una visita di piacere, Lettrice.”
sibila in risposta “E quale di noi tre è qui per una visita di cortesia?!”
sbotto, sedendomi su una radice consumata. Il silenzio cala sotto le vecchie
fronde. “Dite che sarà ancora in questa città?” sussurra ad un certo punto il
Cantante. Il chi è scontato. “Che importanza avrebbe, ora?” risponde
alterato l’Attore “vorresti forse chiedere scusa?” Il Cantante fa un quasi
impercettibile cenno d’assenso, e l’altro in risposta scuote la testa “A che
servirebbe chiedere scusa adesso? Neanche quella sera sarebbe bastato,
figuriamoci ora…” “Magari non servirebbe a lei, ma io mi sentirei sicuramente
meglio.” la voce del mio amico è poco più di un sussurro. “Stupido, come vedo
non sei cambiato…hai ancora rimorsi.” lo rimbecca aspramente il ragazzo
appoggiato al tronco “No, non ho rimorsi. Ho solo…” “un giudice che ti assilla
con le sue strigliate. Lo so, ce l’ho anch’io”
dico interrompendo il loro discorso “si chiama cuore. E sono convinta
che anche tu lo abbia, Attore.” “Sciocchezze! Io sono in pace con me stesso.”
“Si è sempre bravi ad ingannarsi…” interviene il Cantante “Senti tu, brutto
sputasentenze…” sibila afferrando la gamba del Cantante e cercando di tirarlo
giù dall’albero. “Ma che fai?! Così cado! Fermati, per carità, fermati!”
“Adesso vedi, brutto stupido, come ti concio per le feste.” Li guardo
battibeccare in modo infantile e li vedo, piccoli, a spintonarsi e ad
insultarsi per cercare di accaparrare il posto migliore sull’albero. Proprio come
stanno facendo ora. “E poi perché tu sei li sopra, e invece io devo rimanere
sulla terra come uno qualsiasi?!” “Perché tu sei uno qualsiasi…” “Ma io ti
ammazzo!” sorrido e so già quello che succederà adesso: mi arrampicherò
dall’altro lato del tronco e mi siederò nel posto migliore. Ed è così che
faccio, guardando le loro buffe facce sorprese proprio come allora. Si guardano
per una frazione di secondo, la nebbia non riesce ad impedirmi di scorgere i
loro sorrisi quasi sprovveduti, e saltano tutte e due sul tronco urlando:
“Abbasso all’impostora!”. Ridiamo, spintonandoci a vicenda, di una risata
liberatoria come è tanto tempo che non riesco a farne, per poi zittirci di
nuovo, guardando il vapore che esce dalle nostre labbra ad ogni respiro. Chiusa
in un silenzio pieno di voci, il ricordo mi ritorna alla mente…
…“Aiutami,
ti prego aiutami!” sussurrò con disperazione il ragazzino alla volta della
ragazza dal cappotto celeste. “Ma cosa?…” “Mi sta seguendo, vuole farmi del
male…per favore, aiutami!” “Ma chi ti sta seguendo?” “Lui! È…è spaventoso, ti
scongiuro…fai qualche cosa!” “Va bene, ma ora alzati!” disse la ragazza
tentando di alzarsi, ostruita dal peso del ragazzino. Altri rami spezzati,
sempre più vicini, ed un leggero scalpitio di passi. “Arriva, arriva!”
piagnucolò il bambino. “Ora alzati, non sta arrivando nessuno…” un ululato si
avvertì a pochi metri dalle due figure avvinghiate sul selciato. “Nessuno…ne
sei si-sicura?!” “Certo, è solo un cane che ulula…” ma la sua voce non era
molto convinta. Altri passi, questa volta più vicini, e un nuovo ululato. La
nebbia intanto aveva avvolto completamente le due figure, isolandole dalla
strada, dalle macchine e dalla vista delle case. Fu per questo che la ragazzina
non vide le figure che si accalcavano intorno a lei. “Ciao, bei bambini. La
volete una caramella?…” con lentezza esasperante la ragazza volse il capo
alla sua destra, dove nella nebbia era spuntato un volto canino. “Ahhhhhhh!”
urlò il ragazzino, stringendosi a lei che era bianca come un cencio. “E’ un no?
Peccato…” sibilò una nuova voce, questa volta alla sinistra, dove un volto
di gatto galleggiava a mezz’aria. “Ahhhhhhh!” continuò a strepitare il piccolo.
Un nitido crack arrivò dalla nebbia davanti a loro e un volto di serpente fece
la sua plateale comparsa. “Vorrà dire che vi inviteremo da noi per cena…”.
Fulmineo, il ragazzino che ancora urlava si alzò di scatto e prese a correre
urlando: “Eccolo, eccolo!!” e la ragazza gli fu subito dietro. “Aspettami, hey
dico a te, aspettami!” Man mano che attraversavano il ponte nuovi ululati
squarciavano l’aria e nuove figure facevano la loro comparsa nella nebbia:
volti animaleschi dai denti affilati e dalle lingue aguzze che galleggiavano a
mezz’aria parlando con voce spettrale.
Improvvisamente
alla ragazza parve di vedere un’enorme figura nera proprio nel punto in cui
correva il bambino, ma quello scomparve, anch’esso inghiottito dalla nebbia,
prima che potesse raggiungerlo. “Bambino! Bambino! Torna qui, dove sei
bambino?!”. Un rumore di ferro e sassi schiacciati rimbombò sotto il tettuccio
della passerella e, coprendo qualsiasi altro suono, il treno delle sette
sfrecciò sui binari, dilaniando la nebbia con cui veniva a contatto. In quel
momento la ragazza si sentì afferrare i capelli e, lanciando un urlò, si scrollò
le mani dei mostri di dosso e percorse a tutta velocità ciò che rimaneva della
passerella. In lontananza, coperto dallo sferragliare dei vagoni, le parve di
sentire il bambino cacciare un urlo disperato, ma fu solo per un attimo, poi la
nebbia si riprese tutto: lo spazio rubato dal treno ed il suo silenzio.
Non si
udiva nessun rumore se non quello del cuore della ragazzina con il giubbotto
azzurro che sembrava volerle uscire dal petto. Tutto si era fatto silenzio e la
notte si era ripresa i suoi fantasmi, ma del bambino non c’era traccia. Si
voltò, guardando oltre le spalle, ma non scorse niente se non il grigio della
nebbia e il nero della notte. Quasi come un automa percorse l’ultimo tratto del
ponte tremando, fino a giungere dall’altra parte, dove l’aspettava sua madre.
“Eccoti tesoro!” strillò la donna abbracciandola, “tutto bene, hai una faccia
strana…” “Mamma, non voglio più andare su quel ponte.” “Perché?!” “Ci sono i
fantasmi, hanno rapito un bambino, mamma dobbiamo salvarlo!” “Ma tesoro, cosa dici?
Fantasmi, bambini rapiti? Forse hai la febbre…” “No, mamma dico sul serio..” la
madre la guardò, con sguardo apprensivo. “Forse sei solo stanca…” “Non sono
stanca, ti dico che li ho visti e…” oltre le spalle di sua madre un volto di
serpente le sorrise nella nebbia “Eccolo, eccolo, lo vedi?!” urlò facendo
voltare la donna “Tesoro, io non vedo niente…” ed era vero: oltre al grigio non
si scorgeva nulla, su quel ponte. “Andiamo a casa, va bene? Domani andremo da
un dottore.” “Mamma, ma io…” “A casa. Non un’altra parola.”. Quando le due
figure furono dal lato opposto del marciapiede un immagine dal volto di
serpente avanzò fischiettando sul ponte, raggiungendo un gruppo di ragazzi
radunati proprio nel suo centro. “Ottimo lavoro…scommetto che non dormirà per
un po’ di tempo…voi che ne dite?” chiese l’ombra dal volto di gatto “E’ stato
proprio un gioco divertente!” gracidò una figura dal volto di rana. “Ottima
azione, ragazzi!” si congratulò il Cantante comparendo nella nebbia. “Dici che
la lezione le è bastata, Lettrice?” sibilò il serpente, rivolto alla ragazza
accucciata sul parapetto. “Ne sono fermamente convinta, caro mio fedele compare
Attore.”
“Lo
sapete che quella ragazzine fu mandata da uno strizzacervelli?” sussurra il
Cantante con la testa china sul petto. Evidentemente siamo tutti incentrati
sullo stesso ricordo. “Me lo raccontò mia madre, pochi giorni dopo l’accaduto,
dicendo che una povera ragazza, per uno scherzo idiota, era finita dallo
psicologo. Figuratevi che non sapevo quasi cos’era, uno psicologo… per questo
non vi dissi niente.”. “Anche io lo sapevo…” ammette l’Attore. Mi guardano,
posso sentire i loro occhi fissi, come a chiedere risposta, sul mio capo
rivolto verso i rami più alti del vecchio Gelso, ma mi prendo un po’ di tempo
per parlare. “No” sussurro poi “io non lo sapevo. Ma anche se l’avessi saputo
che importanza avrebbe avuto? Non sapevamo che cosa avevamo combinato.”
Mi guardano e annuiscono, consci del fatto che ciò che ho detto è vero: non
possiamo tornare indietro ed ora è troppo tardi per chiedere scusa. In realtà
ho mentito: conosco quella ragazza. La vedo tutte le mattine camminare per mano
con la suo sorellina, accompagnandola a scuola, sia che ci sia il sole, la
pioggia, la neve o la grandine, lei è li che la tiene per mano. Ma non quando
c’è la nebbia. Quando cala la nebbia la bambina cammina dando la mano alla
madre, la ragazza non c’è. La riconosco perché il giubbotto che indossa è lo
stesso che aveva lei, quella sera. Lo stesso celeste acceso, scolpito
indelebilmente nella mia mente. Ma questo io non lo rivelerò mai, né a loro né
a nessun altro. “Vi ricordate quel ragazzo che per poco non finiva sotto la
macchina, tanto era spaventato?” chiede il Cantante, riportandomi alla realtà
“E quello che non volle più andare a lezione di canto serale, perché credeva
che la strada fosse infestata da fantasmi?” gli fa eco l’Attore. Continuano
questo tragico elenco, mentre i miei occhi si riempiono di lacrime: quanti
poveri ragazzi abbiamo spaventato, solo per divertirci, solo perché ci
sentivamo superiori a loro? Improvvisamente l’Attore si fa serio, i suoi occhi
bruciano nella Nebbia. Il rumore di un ramo schiacciato e di foglie calpestate
riempie il silenzio che ha provocato il suo sguardo serio, e tutti e tre
tremiamo, voltandoci alla ricerca dell’artefice del sinistro rumore. Un gatto
nero miagola, guardandoci beffardo. Anche noi, ora abbiamo paura della nebbia,
ora che le siamo estranei la temiamo e rischiamo di cadere vittime dei nostri
stessi giochi. Non mi sorprendo di vedere il Cantante tremare, mentre riprende
la parola, ma resto sconcertata dalla reazione che ha avuto l’Attore: anche lui
si è spaventato. Ripenso a quel pomeriggio, al nostro incontro nella nebbia, e
mi accorgo che anche lui è cambiato, anche lui è rimasto vittima con noi di
quei giochi infantili: anche lui stava scappando, questo pomeriggio, perché
spaventato dai rumori della grigia ingannatrice. O magari dal rumore dei miei
passi, della mia corsa…dal mio respiro, come io dal suo. “Allora questo sarà il
nostro segreto. Seppelliamo qui il nostro passato, il nostro legame con la
nebbia.” Scende dal Gelso e scosta la terra secca sotto le radici dell’albero,
formando una buca abbastanza profonda. Con un leggero tonfo lo raggiungiamo,
posando i piedi sul terreno brullo e freddo. Mi stringo nel cappotto, l’aria
gelida mi scompiglia i capelli rendendoli più caotici del solito, e afferrò ciò
che tengo in tasca: una maschera a forma di gufo. Uno alla volta adagiamo le
nostre maschere nella buca, per poi ricoprirla; ecco, ora non abbiamo più
legami col passato. “Questo sarà il nostro segreto, promettete di non dirlo a
nessuno.” torna a dire l’Attore. “Tre
persone possono tenere un segreto, se due di loro sono morte.” Si voltano verso di me che fino a questo momento sono rimasta,
stranamente, in silenzio, e smettono di parlare. Quando alzo lo sguardo
incrocio i loro occhi: la tensione è palpabile, l’aria elettrica: quattro
fuochi brucianti mi osservano, penetrando la nebbia che avvolge tutto, così
spessa che quasi non riusciamo a vederci l’un l’altro. Siamo immobili sotto il
grande albero che con i suoi storti rami si diverte a giocare con le nostre
vite, quando improvvisamente rido. Una risata isterica, stupida…una risata da
me, dalla Lettrice, riuscendo a trascinarmi dietro anche loro due. È
notte fonda e siamo tre giovani ragazzi spensierati sotto un cielo che sappiamo
stellato, ma che non possiamo scorgere, ed abbiamo appena festeggiato un
funerale sotto a quel famigerato albero che non è solo quello storto e vecchio
pezzo di legno che respira a fatica, piantando le sue radici nella nebbia, ma è
anche dentro di noi, fa parte di noi. Così era nel tempo in cui ci sedevamo
sulle disconnesse radici che affioravano nella nebbia e ci raccontavamo storie
e malignità, progettando nuovi giochi e nuove vendette. Ci sentivamo
intoccabili, eletti, speciali…eravamo solo un branco di stupidi. E ora
finalmente ho scoperto perché il vento gelido che passava in mezzo ai rami mi
faceva tremare anche allora: quella pianta che non è reale, ma solo frutto
della nostra sadica e deviata immaginazione, scudo dietro al quale rifugiarci
per sfuggire alla nostra stupidità.
Il
campanile in lontananza suona le due di notte: tre ore. Tre ore sotto l’albero
a ricordarci delle nostre glorie passate, a parlare dei nostri futuri incerti.
A guardare in faccia nient’altro che i nostri fallimenti. E mentre ci
allontaniamo verso le nostre case, inoltrandoci nella nebbia che non fa altro
che prenderci in giro, mi volto per l’ultima volta. Non un saluto, non un addio:
sappiamo che altre parole non devono essere dette perché, e mi sembra ad ogni
passo più chiaro, saremmo davvero capaci di ucciderci a vicenda, per mantenere
il nostro segreto. Perché sono li che ci guardano, le nostre ombre: vedo
distintamente la figura di un uomo dal volto di gufo galleggiare nella nebbia,
accarezzando il gatto color della notte. Il Gelso ci ha donato tutto, i giochi
e le malignità che volevamo, la nostra amicizia, la nostra stessa vita, ma il
prezzo che ha preteso in cambio è stato altissimo: la nostra pazzia.
È per questo che non mi sorprenderò, domani, nel trovare la tomba sotto il Gelso profanata e le maschere sparite perché, se è vero che il gruppo del Gelso è definitivamente morto questa notte, è anche vero che si potranno scorgere ancora i volti di un Serpente, di una Volpe e di un Gufo sorridere, nelle notti buie di nebbia.
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