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Autore: IMmatura    24/09/2014    0 recensioni
Sulle note di Pezzali, un viaggio a ritroso in una storia d'amore mai nata, o forse solo in attesa del momento giusto per sbocciare...
Dal testo:"Avevo di recente scoperto che aggrovigliare i capelli ad una ragazza non era un buon metodo di interazione sociale. Il più delle volte generava strilletti incontrollati del tipo “Ihhhh! La messa in piega!”.
Però i tuoi erano una specie di irresistibile gomitolo, per cui alla fine dovetti per forza toccarne almeno una ciocca. La presi tra due dita e la ricondussi lentamente dietro il tuo orecchio. Un rossore delicato sulla tua guancia umida.
-Ma...stavi piangendo?-"
[Partecipa al contest "Una canzone d'amore" indetto da corrienonfermarti sul forum di EFP]
[Nota: la "confusione" tra PROLOGO ed EPILOGO è voluta.]
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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CAPITOLO 1

Gennaio 2005

La condivisione degli spazi vitali, anche per poche ore al giorno, fa miracoli. Probabilmente, se il destino non ci avesse incastrato in quel piccolo banco a due, il primo anno, nessuno di noi due avrebbe prestato attenzione all’altro.

Tu eri una figura ancora pingue e poco sviluppata, nascosta in maglioni sgargianti e jeans dal taglio maschile. Forse l’unica cosa che ti distingueva era non far parte della corte adorante delle “belle” della classe. Non rientravi nell’ampia rosa di quelle ragazze non troppo belle, che gravitavano attorno alle più avvenenti, sperando di risaltare un poco, brillando di luce riflessa. Preferivi rimanere nel banco a leggere un libro, arricciando di tanto in tanto il naso, o a disegnare. Alzavi lo sguardo, lanciando un’occhiata severa a qualche ragazza seduta cavalcioni sul banco. A volte sorridevi, senza che nessuno capisse per cosa. Qualcuno iniziò a credere che la tua fosse spocchia, e che ridessi delle altre, squadrandole dall’alto della tua intelligenza e presunta superiorità. L’etichetta sociale era imposta: secchiona antipatica.

Un po’ antipatica lo eri davvero, ma meno di quanto si dicesse. L’ho imparato standoti vicino. Ho iniziato a farti apprezzare il mio sboccato umorismo da sedicenne, durante le ore di matematica. Le uniche che odiassi anche tu. Sempre in quelle ore, osservandoti scarabocchiare agli angoli del quaderno, ho scoperto anche che il naso lo arricciavi non per snobismo, ma semplicemente per tirarti su quegli occhialoni spessi, che scivolavano di continuo, senza interrompere un’attività in cui eri concentrata. Avevi tanti atteggiamenti buffi, quando ti concentravi. Spesso ti mordevi la lingua, oppure socchiudevi gli occhi con finto astio, quando mi scappava da ridere per le tue espressioni bizzarre. Poi però eri costretta a tapparti naso e bocca, per non scoppiare a ridere anche tu.

Dovevo essere davvero buffo anch’io, con il viso tondo da bambino, ancora ben lontano dallo sviluppo che stava trasformando i miei compagni. Ricordo che una volta cercasti di disegnarmi. Un ritratto crudelmente realistico, con i capelli neri appiccicati alla testa e il collo taurino. Troppo piccolo sotto tutti gli aspetti, per capire il tuo imbarazzo quando, cercando di fare decentemente un disegno di geometria, le mie dita tozze incrociavano le tue, pallide ed affusolate, che gentilmente mi tenevano il righello.

Quante volte devi aver pensato che fossi un idiota completo, a non accorgermi di niente...eppure, anche tu dovevi aver visto in me qualcosa di speciale, per rimanermi accanto tutto quel tempo, avere la pazienza di aspettare che io ci arrivassi, a quel che c’era tra di noi.


 “...superficialmente siamo tutti uguali, però poi ognuno è fatto a modo suo.”

 

 


 

Marzo 2006

-Cosa, in nome del cielo, cosa credi possa significare “fece esporre le navi sulle coste dell’Egitto”?- sbraitavi, sventolandomi sotto il naso il peso non indifferente della cultura, sotto forma di vocabolario di latino.

-Calmina, eh...non urlare.-

Sbattesti il tomo sul banco, prendendomi un attimo per la nuca. Un brivido mi percorse la schiena. Sospettai volessi sbattermi il viso tra quelle maledette pagine di vocaboli morti.

-Basta leggere e,ex + ablativo: far sbarcare!-

Non ci mettevo impegno, perché ormai sapevo che alla fine mi avresti passato tu i compiti. Ormai eravamo diventati amici, senza che me ne accorgessi, e avevo imparato che la tua severità era solo una maschera. In realtà eri una ragazzina esattamente come noi, solo con delle passioni un po’ strane. Era anche piacevole starti ad ascoltare, molte volte, mentre con quella voce un po’ stridula, ma tremendamente concitata, esponevi ogni concetto come una questione di vita o di morte. Penso di aver imparato più cose sentendo ripetere te, che ascoltando i professori...anche perché ripetevi continuamente. Tra una lezione e l’altra, nelle ore buca, sottovoce a ricreazione, quando temevi di essere interrogata. Persino mentre correvi ad educazione fisica, una volta, sono abbastanza sicuro di averti sentito bisbigliare i verbi deponenti.

-Ehi, calmina, eh...- difendevo la mia dignità di ragazzo, ora che potevo definirmi tale a tutti gli effetti. Ero cresciuto di parecchi centimetri e un filo di barba cominciava a segnare il mio viso. Approfittavo spudoratamente del mio fascino con le ragazzine del primo anno e, scherzando, a volte ti dicevo che “non potevi dirmi di no, perché ero troppo bello”. Senza sapere di ferirti, forse, o più semplicemente di giocare con un cuore molto fragile.

Però per te, di fronte al latino, non c’era niente di più importante, nemmeno una cotta.

-Ma perché devi essere così superficiale?-

-E tu perché devi essere così pignola?-

Ci fronteggiavamo in quel modo ad ogni stramaledetta esercitazione. Che la Salvini, nostra docente, fosse maledetta anche per quella nuova trovata didattica, oltre che per il suo sadismo in generale.

Proprio lei, di solito, ci interrompeva, sgridandoci per la confusione. Però, quella volta fu diverso...

-A quando le nozze?-

-C-come prego?- balbettasti, mentre io guardavo quello scemo del mio amico Marco con gli occhi marroni sgranati e, probabilmente, la mascella all’altezza dei calcagni. Ormai sapevo abbastanza bene che io ero un ragazzo, e tu una ragazza, e che la nostra amicizia fosse strana non solo per la tua fama di “secchiona intrattabile”...però nessuno era mai arrivato a fraintendere così. O per lo meno, a spiattellarcelo in faccia.

-Ma ti sei rincoglionito?-

-Scusa, mica è colpa mia se tu e Sara sembrate una vecchia coppia sposata...-

-Ma...come...ti viene in mente razza di degenereidiotacretinoperdigiornochenonseialtro!-

Desti di matto, quella volta, con il viso in fiamme e facendo roteare il tomo di grammatica come fosse un’arma impropria. Pensai dovesse averti davvero infastidito quell’allusione. Non mi saltò per la testa neppure per un istante che, invece, Marco potesse avere ragione. Invece ne aveva, perché in effetti noi ci completavamo davvero bene, aiutavamo a vicenda quando serviva e, udite udite, in un certo senso ci volevamo già bene.


“...Due persone, per stare bene insieme, devono incastrarsi nel modo giusto, come le tessere di un milk puzzle...”

  
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