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Autore: Blackmore Di Blackmore    26/09/2014    1 recensioni
Questa storia si ispira liberamente alla leggenda del fantasma che infesta la mia scuola.
La storia narra della vita prima e dopo la morte della giovane e bella Elisa, che venne costretta a farsi suora in un convento di Brescia ora trasformato in liceo.
dal testo:
"Il mio nome era Elisa [...] Sono nata in una fredda notte d'inverno a Brescia, [...] ero bella, ricca, corteggiata e amata."
La mia prima fanfiction; non uccidetemi. e ringrazio in anticipo chi recensirà
Genere: Drammatico, Malinconico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: OOC | Avvertimenti: Triangolo
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Il mio amore perduto
 

 
 
Sono nata in una fredda notte d’inverno a Brescia.
La mia infanzia scorreva felice tra le mura della casa della mia famiglia.
Il mio nome era Elisa.
Ero bella, ricca, corteggiata e amata.
Mia madre era una donna dalla sublime bellezza. Aveva lunghi capelli neri e mossi che le ricadevano graziosamente sulla schiena. Aveva occhi grandi color caramello, gentili e amorevoli. Era bassa e molto magra. Purtroppo il tempo mi ha fatto scordare la sua voce che mi cantava nenie per farmi addormentare la sera durante la mia infanzia. Morì di una bizzarra malattia quando avevo solo sette anni. Ricordo che un attimo prima di chiudere gli occhi per l’ultima volta mi chiese di aver cura di mio fratello.
Mio padre era un importante mercante. Commerciava sete e stoffe dall’Oriente.
Era molto innamorato di mia madre, infatti dopo che lei mori non si risposò.
Anche mio padre era un bell’uomo. Morì dopo che io divenni quello che sono ora. Credo che lui decise di seguire la luce e non voltarsi, non fece come feci io restando intrappolata qui nel mondo terreno. Comunque ero felice, fino a quando mio padre non mi convocò nel suo studio. Avevo diciannove anni all’epoca, lui era seduto alla sua scrivania e mi guardava con aria grave. Su una delle poltrone accanto a lui c’era seduta una suora, mi guardava incuriosita. Un’ombra negativa passò negli occhi dell’anziana donna quando il suo sguardo si posò sulla mia generosa scollatura. Papà m’invitò a sedermi alla scrivania. Incrociò le mani sul tavolo e mi guardò triste.
-Elisa.- disse -Sono spiacente di dirti questo, ma…- fece una breve pausa, poi continuò -Sorella Giovanna crede che tu dovresti andare in convento con lei.- spalancai gli occhi terrorizzata.
-In convento? Che convento?-
-Il convento Gambara, Elisa-
Scossi la testa, i miei boccoli neri mi volarono davanti al viso. Scattai in piedi, mi sollevai le gonne e corsi fuori dalla stanza, ignorando mio padre che m’implorava di fermarmi e di ascoltare.
Uscii in giardino correndo senza un posto particolare dove andare.
Solo quando i piedi iniziarono a farmi molto male mi fermai, e mi lasciai cadere sotto un albero.
Mi levai le scarpe scagliandole lontano e piansi. Non volevo andare in convento. Non volevo lasciare la mia famiglia.
Soprattutto non volevo dover interrompere il corteggiamento del giovane Raffaele. Sentii qualcuno abbracciarmi da dietro, riconobbi mio fratello Michele.
-Ho saputo.- disse solamente. Mi strinsi contro di lui e piansi.
Due settimane dopo mi portarono in convento. La vita lì era noiosa. Suddivisa tra lavoro e preghiera. Ero una novizia quando accadde. Era notte ed io mi stavo aggirando per il convento. Avevo appena finito di rammendare abiti per i bambini poveri quando sentii che una porta venne chiusa. Andai in quella direzione, c’era un uomo. Non sapevo chi fosse ma teneva in mano uno dei nostri candelabri d’argento. Sarei dovuta andarmene, cercare qualcuno.
Invece mi misi in mezzo al corridoio e dissi, semplicemente -Chi siete?- l’uomo si voltò e prima che potessi dire o fare qualcosa lui mi era addosso. Mi spinse contro il muro tenendomi una mano sulla bocca. Sentii qualcosa di freddo penetrarmi la carne e poi non sentii più niente.
Una sensazione come di vuoto.
Tutte le mie precedenti preoccupazioni ora sembravano sciocchezze.
Ora sentivo solo freddo e vedevo una luce bianca.
Una grande luce davanti a me.
Mi avvicinai ma, come d’istinto, mi voltai. Dovevo sapere chi mi aveva ucciso. Tornai nel convento e lo vidi: il mio corpo steso a terra con una rosa di sangue in corrispondenza del cuore. Realizzai di essere morta. Non sentivo più il possesso del mio corpo e la capacità di farlo muovere.
 Allungai una mano davanti a me e la guardai. Era pallida, e semitrasparente. Un singhiozzo mi sfuggì dalle labbra. Non potevo essere morta, semplicemente non era possibile. Avevo ancora tanto da fare nella mia vita. Non potevo morire cosi. Non era giusto. Cercai l’uomo; non poteva essersi allontanato tanto, almeno credevo.
Non lo rividi mai più.
Il tempo passava, le giornate scorrevano in fretta come in un ciclo che una volta iniziato non può più essere fermato, le stagioni si susseguivano, arrivava gente nuova tra quelle mura che mi sembravano così tristi dopo quel giorno di tanti anni fa.
Il mondo andava a vanti, continuando a girare, ma io restavo sempre lì, sempre in quel collegio, rivivendo il mio incubo. Presto a me si unirono altri fantasmi, tra cui un'altra donna. Il suo nome era Clementina.
Era molto bella. Aveva lunghi capelli biondi a boccoli e occhi color ghiaccio.
Era dolce, mi raccontò che quando era in vita faceva la professoressa nel mio vecchio collegio, ora liceo. Ascoltavo meravigliata i suoi racconti di come il mondo di fuori fosse cambiato tanto radicalmente. Mi raccontò di essere morta nell’esplosione di una bomba. Non sapevo cosa fosse una bomba. Passò altro tempo, Clementina ed io ci dilettavamo trascorrendo le giornate in giro per la scuola e parlando dei cambiamenti avvenuti. Fino a quando un giorno successe l’impensabile.
Per la prima volta da secoli mi sentii osservata.
Era strano, per me, provare di nuovo quella sensazione.
Però non era nulla di sgradevole.
Mi voltai trovando davanti a me un ragazzo che mi fissava meravigliato. Agitai la mano in direzione del ragazzo controllando se stesse effettivamente guardando me, e lui rispose al saluto. Non resistetti, dovevo sapere chi era.
Lo scoprii alcuni giorni dopo, il ragazzo si chiamava Mattia e aveva diciotto anni. Era al quinto anno di liceo. Un giorno in cui era in biblioteca solo mi rivolse la parola. Io stavo vagando per gli scaffali leggendo ti titoli dei libri.
-Chi sei?- mi voltai imbarazzata.
-Mi chiamarono Elisa.- mi fissò per un paio di secondi.
-Sei un fantasma?- sobbalzai.
Quella richiesta era giunta brusca e inaspettata.
Mi servii un attimo ma poi, dopo aver sbattuto un paio di volte le palpebre, annuii. Lui rimase fermo a guardarmi.
-Dovevi essere bellissima- se avessi potuto sarei arrossita
-Vi ringrazio.- lui sorrise cupamente e tornò alla sua lettura.
-E’ per quella macchia rossa che hai sul cuore che sei morta?-
Mi avvicinai sedendomi sul tavolo.
-Si. Mi accoltellarono a diciannove anni.-
Le mie parole ebbero l’effetto di fargli alzare gli occhi dal libro e fissarmi.
-Raccontami la tua storia.- mi chiese.
Non capitava spesso una cosa del genere, quindi decisi di accontentarlo.
Il tempo passava, ed ero finalmente felice, con Mattia, mi faceva ridere, mi faceva sentire viva e pian piano, poco a poco iniziai a provare dei sentimenti per lui, che poi si trasformarono in amore.
Tuttavia una cosa turbava la mia felicità, o meglio una persona.
Era una lei, si chiamava Clarissa, non era bella come me; con i capelli mori lunghi fino a metà vita e gli occhi nocciola non aveva nulla di speciale. Eppure Mattia aveva occhi solo per quella piccola, sciocca sedicenne. Iniziai a essere gelosa, organizzavo ogni genere di scherzo ai danni di Clarissa, ma lei, per quanto io mi mettessi d’impegno, se ne usciva sempre con il sorriso.
Mattia passava i pomeriggi con me, ma pensava a lei; mentre eravamo assieme se riceveva una sua chiamata si allontanava per rispondere, se lei gli chiedeva aiuto lui accorreva.
Decisi che andava eliminata.
Così un giorno quando lei uscì da scuola la seguii, indossava una camicetta bianca e una gonnellina nera. Si doveva trovare con Mattia in piazzale Arnaldo ma, mentre aspettava di attraversare, io la spinsi sotto una corriera di passaggio. Ricordo ancora la sua camicetta macchiata del sangue che era sparso sulla strada tutt’attorno a lei.
Andai tutta contenta da Mattia che la aspettava in un vicolo tranquillo.
Gli dissi che non doveva più preoccuparsi di Clarissa, che era morta e che non ci avrebbe più disturbati.
Lui, però, reagì male:
-Come hai potuto ucciderla, Elisa?- mi urlò.
-Lei ti stava tenendo lontano da me!- urlai io di rimando. Le lacrime solcavano il suo volto.
-Sparisci, Elisa. Non ti far più vedere-
Feci ciò che mi disse, mi rifugiai nel sotterraneo.
Mi sbagliavo, su Clarissa, non se ne andò mai. Rimase lì a scuola con me e gli altri fantasmi. Presto si dimenticò di Mattia, innamorandosi del fantasma di un giovane soldato morto per proteggere l’edificio.
Io non uscii mai dal mio sotterraneo, solo di notte.
E ogni notte, guardando Clarissa e il suo innamorato, piango ancora al mio amore perduto.  
   
 
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