PREVIOUSLY ON LKNA:
a Castel Vanità sta succedendo qualcosa di strano. Una nebbia ha avvolto
l'intera città in temperature mai così basse a marzo e tutti i suoi abitanti
sono vittima di un'ipnosi collettiva. Tutti tranne due: Silvia Celant, salvata
da Bellocchio e Serena, e sua nonna, chiusa in casa con problemi mentali.
Interrogandola il gruppo riesce a collegare questi avvenimenti a un luogo: Fort
de Vanitas, castello medioevale del villaggio. Dietro una porta nella Sala degli
Stati scoprono qualcosa di straordinario: una sacca temporale, una bolla di
passato che ha continuato a scorrere parallelamente al resto dell'universo,
intrappolando al suo interno una grotta collassata centinaia di milioni di anni
fa. Con essa un unico prigioniero: un Omastar la cui specie si è estinta da ere
geologiche. C'è poco tempo per constatare altro: il temporaneo incontro tra
dimensioni finisce e Bellocchio, per salvare Serena, rimane intrappolato nella
sacca per sempre.
Molte cose si celano nel buio. Alcuni vi scorgono le proprie paure, convinti che
vi si annidino per poi coglierli al momento giusto, impreparati, e trascinarli
con sé. Per altri vi sono nuovi mondi, nuove storie dense di vita. Secondo certe
religioni l'oscurità è il regno del male o di una qualche forza equivalente,
poiché il male non potrebbe sopportare la propria vista alla luce. Per
Bellocchio, chiuso in una caverna senza uscita e che, dopo che gli occhi di
Omastar si erano spenti, era precipitato nelle tenebre, il buio era giunto a
significare solo una cosa: l'oblio totale.
Non
era mai stato fuori dall'universo. Neanche molto lontano dalla Terra, in
effetti. Se solo ci fosse stata una finestra, da qualche parte tra le rocce, gli
piaceva pensare che avrebbe potuto scorgerlo nella sua interezza, con tutte le
sue stelle. Chissà che forma aveva. Lui se lo immaginava come un cervello, un
grosso cervello. Pensava sempre che sarebbe stato uno spasso, per Dio. Vedere
gli uomini creati a sua immagine e somiglianza conquistare un giorno l'intero
mondo in cui vivono, e scoprire che aveva la forma di ciò che non avevano mai
veramente compreso. Anche un bicchiere di latte e miele sarebbe stato equamente
dilettevole.
E
pensare che Omastar aveva vissuto lì anni e anni. Quante domande doveva essersi
fatto, con un'eternità a disposizione. « Da quanto sei qui? » gli chiese. Non
seppe bene da che parte parlare, ma confidò che avrebbe udito comunque.
«
Sem… pre… ».
«
Come sarebbe? Non sei mai uscito da qua? » lo interrogò Bellocchio sorpreso «
Mai visto la luce del sole? ».
«
So… le… ? ». Da come era stata pronunciata, anche questa sembrava una domanda, e
a conti fatti il seguito lasciò pochi dubbi « Co… s'è… il… so… le… ? ».
«
Una palla di fuoco. Brucia a milioni di chilometri nel cielo, riscaldando tutto
il pianeta ».
«
Pe… ri… co… lo… ? ».
Bellocchio non poté che convenire « Probabilmente sì, per te lo sarebbe. Anzi,
visto che non sopporti l'aria secca ti ucciderebbe. Ma per gli uomini là fuori è
vita. Non è buffo? ».
La
voce di Omastar si caricò d'odio, si sarebbe detto che potesse scoppiare da un
attimo all'altro « Uo… mi… ni… ma… le… ».
Il
Pokémon riaccese gli occhi per la rabbia, e solo a quel punto l'uomo la notò.
Non era esattamente lampante, ma sforzandosi era possibile intravederla: la
cicatrice di un graffio all'altezza dell'occhio, ma leggermente più a sinistra.
Plausibilmente se chi l'aveva inferta avesse mirato meglio lo avrebbe reso orbo.
La
mano di Bellocchio sfiorò la sua ferita al collo, riportata durante l'acceso
scambio di opinioni con la nonna di Silvia. Non riusciva a vederla direttamente,
ma avendola esaminata allo specchio la ricordava abbastanza da sapere che le due
erano gemelle, e l'arma che le aveva provocate era la stessa – facilmente era
successo quando la vecchia aveva visto Omastar.
«
Non tutti » ribatté risoluto, senza traccia di condiscendenza nella sua voce.
Potevano trattare su molte cose, ma non su quello « E finché non saranno tutti
ci sarà sempre speranza ».
La sala
da pranzo, o meglio quella che un tempo fungeva da sala da pranzo, era tanto
inerte da sembrare irreale. La polvere che si agitava come piccoli insetti
stanati dalla luce solare era l'unico elemento che la distingueva da un
ritratto. Anche Serena non era esente da quella situazione: erano ormai cinque
minuti che la sua unica azione era respirare, incapace di pensare a cosa fare
dopo.
Viaggiare? Sì, e con che fibra morale? Dopo aver assistito al sacrificio di
Bellocchio per lei? Fuori discussione. D'altronde non poteva restare lì
ad autocommiserarsi per sempre, anche se quest'ultima opzione le suonava come la
più dolce. Non fare nulla, rimanere come una statua di cera a ricordare. E dire
che Bellocchio era pure convinto che lei avrebbe fatto grandi cose. Che per lei
sarebbe finita bene. Gliel'aveva detto la domenica scorsa, in una notte senza
luna, dopo aver parlato di Sinnoh e di quanto lui non fosse destinato alla
compagnia. Serena Williams, la Ragazza delle Fiabe, aveva detto, e le
fiabe finiscono tutte bene. Quanto si era sbagliato.
O forse
no. Forse non si era sbagliato. C'era un significato nascosto in quello che
aveva raccontato, perché lei certo non era al massimo della felicità al tempo:
aveva perso contro Violetta ed era arrabbiata perché aveva ricevuto una medaglia
che non meritava. Non ci aveva pensato, ma doveva esserci qualcosa dopo,
e riuscì quasi a sentire la voce dell'uomo che le parlava nella testa: le
fiabe finiscono tutte bene. E se non va bene vuol dire che non è la fine.
Stava a
lei farla finire bene. Perché lei era Serena Williams, la Ragazza delle Fiabe. E
avrebbe salvato Bellocchio.
Episodio 1x20
L'orfano
dell'universo
Tagliò
la Sala degli Stati con passi decisi che echeggiavano tra le mura e uscì
all'aperto, sotto l'arco di pietra da cui erano entrati. Castel Vanità
scintillava in una piacevole giornata primaverile e i Fletchling avevano ripreso
a cinguettare con solerzia. Serena occhieggiò alla distanza e notò che una
figura correva verso di lei, vestita ancora per temperature ormai svanite e, a
giudicare da come si muoveva, morsa dalla tarantola dell'allegria. La ragazza
riprese a camminare nella sua direzione oltrepassando il ponte levatoio, tutto
senza flettere un solo muscolo del volto, rimanendo fissa nella sua espressione
decisa.
«
Serena! » la chiamò Silvia non appena fu abbastanza vicina da essere sentita « È
tutto finito! Le persone sono di nuovo… Tutto! Anche mia nonna è tornata
normale! Ce l'avete fatta! ». Aveva le lacrime agli occhi e il fiato corto,
segno che doveva aver fatto un tour del villaggio nei cinque minuti trascorsi
dalla fine dell'intersezione.
« Non
abbiamo fatto nulla » rispose lei impassibile « Sarebbe finita comunque ».
«
Davvero? Ma che cos'era poi? ».
Il capo
di Serena scattò leggermente, un riflesso dei nervi tesi e dell'adrenalina « Tu
cosa insegni da Novartopoli? ».
Silvia
fu disorientata dalla domanda, ma non perse il sorriso appena riguadagnato «
Fisica, perché? ».
«
Allora mi risparmierai parecchi minuti. Era una sacca temporale ».
« Una…
» si interruppe la donna. Le sacche temporali non erano nel programma di base
del Corso di Laurea in Fisica alla Regionale di Luminopoli, dato che erano viste
come bizzarrie da matematici per l'astrazione che comportavano. Però ricordava
che, in calce al programma, erano state inserite in Astrofisica Nucleare
Relativistica 2. « Ah! » esclamò, richiamando alla mente per orgoglio quanto
ricordava « Non credevo esistessero. E che c'era dentro? ».
« Un
Omastar. Veniva dalla caverna che c'era qui una volta. Ricordi? Me ne hai
parlato un'oretta fa » mantenne un'espressione fredda, forse ciò avrebbe
suggerito a Silvia che stava trascurando qualcosa « Ora che il varco si è chiuso
l'influsso è sparito ».
« Oh,
per fortuna! » sospirò rincuorata. Si esibì in un largo sorriso, aspettandosi
che Serena facesse lo stesso, e fu quando rimase ancora distaccata che comprese
che qualcosa non andava. Prima il suo sguardo guizzò alle iridi di lei, non
trovandole però di quel rosso che avrebbe implicato l'ipnosi. Poi, fulmine a
ciel terso, afferrò « E Warr–– Bellocchio dov'è? ».
Finalmente se n'è accorta. « È rimasto
nella sacca. Non è riuscito a fuggire in tempo ».
« Ah… !
» esclamò Silvia, messa tremendamente a disagio da quella rivelazione « Mi
dispiace davvero tanto, Serena ».
Tentò
di abbracciarla, ma lei respinse il gesto con noncuranza « Non è grave, non ti
preoccupare. Perché ora tu mi aiuterai a riportarlo indietro ».
La
giovane aggrottò la fronte, completamente spiazzata non solo dalla frase ma
anche dal modo in cui era stata pronunciata. Non era una richiesta, era un
ordine. « Non si può, Serena. È impossibile ». Avrebbe voluto comunicare la
notizia con più tatto, ma le uscì solo un'affermazione risoluta.
«
Impossibile come l'esistenza della sacca? ».
« No!
Cioè–– » Silvia si trovò a incespicare nella sua stessa materia d'esperienza « È
teoricamente fattibile, ma noi non potremo mai farlo ».
« Come
la sacca, quindi ».
« E poi
devo ricordarti che con lui c'è Omastar? » le fece notare, ignorando la chiosa
precedente « Se riaprissimo la sacca metteremmo tutti di nuovo in pericolo ».
Serena
serrò i denti e sibilò intimidatoria « Ti ha salvato la vita ».
« E lui
ha aggredito mia nonna. Non rischierei così tanto per un uomo del genere nemmeno
se potessi entrare e uscire dall'universo con uno schiocco di dita ».
La
ragazza per un attimo considerò di assalirla in preda all'ira, ma non avrebbe in
alcun modo giovato alla causa di Bellocchio, e attualmente non poteva
permettersi di perdere tempo. « Sai, mia mamma ha una politica molto rigida sui
favori. Secondo lei se qualcuno te ne fa uno hai ventiquattr'ore per
renderglielo. Questo ci mette nella stessa posizione, non trovi? ».
«
Ovvero? ».
«
Fuori tempo ».
Silvia
comprese. Certo, Bellocchio l'aveva prelevata quando era con le spalle al muro
con i suoi concittadini, e questo contava. Ma aveva anche affrontato quello
Zoroark a Novartopoli, individuandolo prima che nuocesse. E a ben pensarci
Isidore aveva fatto il suo nome, o il suo nomignolo, mentre parlava degli
avvenimenti a Luminopoli durante la crisi del Dio, quando sua sorella Katie, in
coma da sei ore, si era misteriosamente ripresa insieme al resto delle vittime.
Quella che allora le era parsa una fortunata coincidenza ora assumeva i
connotati di un salvataggio segreto, mai divulgato per la gloria. E da come
parlava anche Serena doveva avere debiti non saldati con lui.
Sospirò
con rassegnazione: l'avrebbe aiutata, ma ciò non voleva dire che sapesse cosa
fare. « Resta il fatto che è impossibile. Non le ho nemmeno studiate
approfonditamente, le sacche temporali, come pretendi che trovi un modo per
aprirle? ».
«
Inizia a spiegare perché non puoi. Parlando vedi che una soluzione la trovi ».
Così fa Bellocchio, pensò la giovane.
Rovistando nelle tasche della giacca che ora la stava facendo sudare come un
caimano, Silvia riuscì a rinvenire una penna e un pezzo di carta, e per una
volta ringraziò di essere inguaribilmente disordinata. Trovò appoggio sul
corrimano in legno installato sopra il ponte levatoio per evitare che i turisti
precipitassero nel fossato, e iniziò a scarabocchiare linee sul foglio. Dopo un
minuto circa sollevò il risultato e, premuto tra le mani, invitò Serena a
prenderne visione. Le tracce impresse sulla carta erano tre circonferenze di
ragguardevoli dimensioni – tre pianeti? –, di cui le due più a destra
presentavano una macchia sul fianco, nonché una serie di linee ondulate che vi
si sovrapponevano verticalmente.
Silvia
passò a spiegare « Queste ondine sono il tempo. Immaginalo come una membrana
attraverso cui si muovono le cose, se ti può facilitare la vita ».
Il
tempo. Una membrana. E dire che Serena aveva pensato all'aria… Certo che i
fisici non hanno nelle corde il livello zero.
«
Questi tre cerchi sono il nostro universo in punti diversi del tempo, non
importa quanto distanti. In realtà sarebbe in più dimensioni, e almeno una
decina arrotolate, ma–– Scusa, scusa, cerco di rimanere sul facile » la donna
indicò con la penna la chiazza nera « Questa è la sacca temporale. Quando c'è
un'anomalia nel tempo generata da qualcosa, avviene una sorta di backup locale.
Da lì in poi l'universo si trascina dietro questa bolla. Noi non la vediamo, ma
c'è, e in questo caso stava proprio sulla Terra ».
« Come
una crosta dopo una ferita? ».
« Sì.
Cioè, no, ma se ti può aiutare a capire il concetto pensala così. Una crosta
dopo una ferita. Anche adesso che le linee temporali si sono separate è sempre
lì ».
« Non
hai risposto alla mia domanda, però » obiettò Serena « Perché non possiamo
riaprire il varco? ».
«
Perché la bolla non è strettamente lì. Vedi, qui sarebbe stato meglio se
ti avessi spiegato le dimensioni » lamentò Silvia battendo la carta con il dito
« È lì, ma contemporaneamente è fuori dall'universo. E non puoi andare fuori
dall'universo, punto e fine ».
« E se
riaprissimo la ferita? ».
« Quale
ferita? ».
« Il
paragone di prima, la crosta e la ferita. Hai detto che c'è stata un'anomalia
temporale: che succederebbe se la ricreassimo? ».
La
bocca di Silvia si chiuse a punta e gli occhi si aprirono innaturalmente mentre
con il dito batteva meccanicamente sulle labbra. Ricreare un'anomalia temporale?
Certo, se fosse stata proprio nel punto del varco precedente la nuova sacca
sarebbe collassata in quella preesistente, e per effetto domino anche quella
sarebbe poi confluita nell'universo regolare. Riaprire la ferita per togliersi
la crosta… Non ci aveva proprio pensato. Tentò di giustificarlo a se stessa «
Beh, ma non possiamo ».
« Per
quale ragione? ».
« Non
esiste un congegno “la mia prima violazione delle leggi fisiche” per crearla.
Non a livello pratico, perlomeno ».
« Ho
sentito un po' troppe volte le parole “non a livello pratico” oggi, non ti pare?
».
« Beh,
per creare un'anomalia temporale devi strappare lo spaziotempo » rifletté ad
alta voce Silvia come se stesse parlando di cosa avrebbe mangiato a pranzo « Ma
per farlo hai bisogno di un campo gravitazionale del livello di un buco nero.
Servirebbe un oggetto con massa spropositata, o in alternativa un… ».
Un
generatore di gravitoni, senz'altro non qualcosa che trovi nel tuo
supermercato-tipo. Una vera fortuna che i Flare ne avessero lasciato uno quella
stessa mattina nel suo soggiorno. Non ebbe nemmeno motivo di completare la
frase, perché la sua bocca mezza spalancata non lasciava adito a dubbi. Un moto
di felicità si insinuò in Serena.
« Ehi,
ferma, ferma! » la trattenne Silvia, recuperando un'aria più seria « Quello che
vogliamo fare è perforare l'universo. Sei sicura di voler mettere a repentaglio
l'intero creato per salvare il tuo amico? ».
La
ragazza inarcò le sopracciglia e sogghignò. Immaginava già la critica che la sua
interlocutrice stava per muovere: si conoscevano solo da una settimana e un
giorno. Beh, non avrebbe avuto problemi a dirle che si sbagliava: si conoscevano
già da una settimana e un giorno.
L'aveva percepito. Inizialmente non se n'era reso conto, perché terminati i
dialoghi filosofici con Omastar aveva intrapreso un viaggio nei suoi ricordi. Li
aveva trovati come li attendeva, ovvero terribilmente brevi. Così si era chiesto
cosa quella creatura millenaria, che aveva percorso silenziosamente il cammino
dell'umanità passo dopo passo, rimembrasse veramente.
«
Ricordi i tuoi genitori? » gli aveva chiesto. Lui aveva negato. « Un'altra cosa
che abbiamo in comune » aveva ironizzato « La morte e questo ». Chissà che
cos'erano, per chi aveva vissuto milioni di anni, i propri genitori. Puntini
distanti, persi nel tempo, piccoli tra i piccoli. I genitori sono tali perché ti
accudiscono, perché per buona parte della tua vita rappresentano qualcuno a cui
rivolgerti. Come avrebbe potuto, quell'Omastar prigioniero, non sentirsi un
orfano? Che cosa pensava lui finanche della sua stessa specie? Era solo un
distante passato, esattamente come per gli uomini? E peraltro, a che concetto
associava la parola passato, la parola presente? Esisteva, per lui, un presente?
No,
che domanda sciocca. Come un naufrago alla deriva non vede che un solo oceano,
Omastar non vedeva che una sola epoca, l'epoca della cattività, senza nulla che
distinguesse oltre. La vita di un uomo era come un battito di ciglia, un graffio
nel tempo. La vita di tutti. Ma di nuovo, anche dei suoi genitori? Forse. Per
Omastar non avevano avuto più importanza di chiunque altro, anche se non aveva
osato chiederglielo.
Bellocchio aveva tentato di rispondersi da solo su cosa pensasse invece lui
stesso dei suoi genitori. E arrovellandosi su quel dilemma se n'era accorto:
aveva il fiatone. Era completamene fermo, non muoveva un muscolo, e aveva il
fiatone.
A
quel punto si era posto la domanda che avrebbe dovuto farsi ben prima: cosa
respiravano gli Omastar? Ossigeno, che lui sapesse. Ma quello che gli stava di
fronte non avrebbe potuto sopravvivere così a lungo con la poca aria nella
sacca. Con il tempo e le risorse che andavano esaurendosi doveva essersi
adattato ad altro. Umidità, forse, dato che poteva autoprodurla. Bellocchio non
avrebbe avuto il tempo per evolversi. Rovesciò la testa all'indietro.
«
Hai fatto male i conti » informò il Pokémon, cercando di risparmiare le energie
che gli restavano « Sarò morto prima di te ». Allontanò il capo dal chiarore
sanguigno degli occhi di Omastar e tornò a fissare l'oscurità. L'oblio totale
non gli era mai sembrato così vicino.
Silvia
trovò in uno dei mobili recintati da corde di velluto rosso della Sala degli
Stati il sostegno perfetto per il modulatore di Gauss recuperato da casa. Con
poca cura per la sua veneranda età lo trasferì con l'aiuto di Serena proprio di
fronte alla porta incriminata in cui avrebbero dovuto riprodurre il varco.
«
Esattamente il piano qual è? » domandò la ragazza « Nel dettaglio, dico ».
Pur
essendo immersa in un convulso lavoro di precisione, la fisica trovò il tempo di
rispondere « Un campo gravitazionale intenso curva lo spazio. Pensalo come una
palla che appoggi su un pezzo di stoffa, che cosa succede? ».
« La
piega con il peso ».
«
Esatto. Questo è quello che faremo. Questo modulatore produce gravitoni, che
sono i bosoni mediatori della gravità. Sparandoli sulla porta curveremo lo
spazio in quel punto. Se ne spariamo parecchi il tessuto potrebbe non reggere
più e strapparsi, il che è esattamente ciò che ci serve ».
« In
che modo strappare lo spazio dovrebbe creare un'anomalia temporale? ».
«
Spazio e tempo sono più simili di quanto non credi. Diamine, non insegnano più
la relatività a scuola? » sbottò Silvia danzando da un capo all'altro dello
strumento. Poi si concentrò su ciò che a Serena sembrava il mirino di un fucile,
anche se a differenza dell'esempio appena fatto quello era mobile a
trecentosessanta gradi ed era dotato di un piccolo schermo piatto « Questo
puntatore rileverà a che livello siamo della curvatura. Per strappare lo spazio
dovrà raggiungere l'1, il valore critico ». Dopo aver collegato il modulatore a
un alimentatore elettrico portatile – altro gentile omaggio dei Flare – la donna
prese un respiro profondo e si allontanò dall'opera conclusa: apparentemente per
rimirare il proprio lavoro, ma dentro di lei sapeva che il motivo era un altro.
E il motivo era che non si sarebbe mai attesa di arrivare così in là nella
costruzione di un'arma tanto apocalittica, e quindi non aveva mai realmente
pensato a cosa avrebbe fatto dopo.
« C'è
qualche problema? » la interrogò Serena.
« Non
ho la minima idea di cosa succederà quando raggiungeremo l'1 su quel display »
spiegò mordendosi le unghie per il nervosismo « Per quanto ne so potremmo essere
a un passo dalla creazione di un buco nero. Finora credevo che non sarei
riuscita a farlo funzionare ».
« Ma
chi sano di mente creerebbe un oggetto con un potere simile? ».
«
Nessuno. Ma è proprio questo il problema: Colress non era sano di mente. Nessuno
sano di mente abbatterebbe una cometa. Non so cosa pensare ».
Non
stava scherzando, e non stava ingigantendo, Serena se n'era accorta. Se parlava
così quel modulatore di Gauss rischiava davvero di ucciderli tutti. Non le aveva
detto le probabilità, e forse nemmeno le conosceva, ma c'erano. Avrebbero
strappato l'universo, e la domanda non era più come: la domanda era quanto grave
sarebbe stato lo squarcio. Sarebbe stata una piccola scucitura o un foro
chilometrico pronto a condannare il pianeta? Che cosa avrebbe fatto Bellocchio
al suo posto?
Provo a
riflettere. Bellocchio con la possibilità di salvarla e di distruggere il
sistema solare, senza poter stabilire quale fosse il rischio contro la speranza.
Ripensò a ciò che le aveva raccontato mentre viaggiavano lungo il Percorso 5,
sulla strada per Castel Vanità, a proposito della crisi di Luminopoli. Anche lui
aveva dovuto scegliere: se offrire a Dusknoir il potere di aprire un varco per
il Mondo dei Morti e iniziare un'invasione, riuscendo però al contempo a
liberare le anime che aveva intrappolato, oppure rinunciare a vite innocenti per
difendere il mondo. Le aveva detto che si era ispirato a lei, per la decisione.
Perché lei aveva attaccato, nella sua lotta in Palestra contro Violetta: aveva
deciso di provare comunque a vincere nonostante la statistica fosse contro di
lei. Che paragone stupido, aveva pensato. Lei non aveva nulla da perdere nella
battaglia, lui eccome.
Ora
capiva veramente la sua scelta. Doveva tentare, perché quando mai sarebbe
riuscita a convivere con se stessa se non l'avesse fatto? « Attivalo. Se non lo
facciamo vivremo per sempre con il rimorso ».
Silvia
annuì. Aveva deciso da tempo che la scelta sarebbe stata della sua amica, e lei
l'avrebbe seguita. Trovò buffo che fosse pronta a fidarsi di lei a tal punto
dopo poche ore di conoscenza, ma a giudicare dal rapporto della ragazza con
Bellocchio doveva essere qualcosa a cui lei era abituata. Si fece coraggio e
premette il bottone di accensione.
Il
generatore prese a ronzare e il modulatore di Gauss emise un borbottio
rassicurante. Il piccolo schermo del puntatore si illuminò e su di esso comparve
un numero: 0.2.
« La
densità di gravitazione standard terrestre » commentò Silvia « Che Dio ci aiuti
».
Il tubo
di vetro centrale brillò intensamente e il valore indicato dal mirino correlato
iniziò ad aumentare: 0.21. Le due donne emisero un sospiro di sollievo alquanto
bizzarro visto cosa stavano facendo: perlomeno, però, funzionava. Lo strumento
amplificava il rumore prodotto di pari passo con la crescita del numero
indicatore: a 0.29 somigliava a quello di una ventola da computer sotto stress.
La
professoressa osservava la scena particolarmente sconvolta. Il modulatore era
privo di eliche di raffreddamento proprio per la sua intrinseca violazione del
teorema di Carnot, il che implicava che non disperdesse in calore l'energia
prodotta dall'alimentatore. Un dubbio si insinuò nell'euforia per l'esperimento
in riuscita: per quanto a lungo sarebbe riuscito a infrangere le leggi della
fisica in quel modo? Colress fino a che punto era arrivato nello sviluppo della
macchina? Di certo non a valori vicini a 1, o avrebbe provocato molti più danni
di una cometa precipitata. Prima o poi il modulatore avrebbe iniziato a produrre
calore collaterale, e in assenza di metodi di cooldown correva il serio rischio
di saltare in aria.
« Ehi,
che cos'è quello? » domandò Serena puntando il dito sulla porta. Nel luogo dove
i gravitoni stavano venendo proiettati si era formato una specie di cerchio
sospeso dal diametro di mezzo metro, al cui interno le striature nel legno erano
notevolmente ingrandite.
Silvia
dovette alzare la voce per rispondere a causa del baccano meccanico « A 0.4
iniziano le lenti gravitazionali! I raggi di luce riflessi convergono
influenzati dalla gravità! ».
La
ragazza gettò uno sguardo al display: segnava 0.52, ma il ritmo a cui aumentava
si era notevolmente ridotto. « Sta rallentando! » esclamò allarmata.
« Non
ti preoccupare! La scala di crescita non è lineare, è esponenziale! La distanza
tra i numeri non è la stessa da 0 a 1! » la rassicurò la compagna, ma con suo
orrore fu smentita. Non era solo un rallentamento fisiologico per pioli
distanziati di una scala: a 0.59 si era fermata la salita, e non dava segno di
voler proseguire.
Silvia
sgranò gli occhi. Colress aveva seriamente messo un limite a quanti gravitoni
potevano essere proiettati in un solo punto? Sarebbe stato un ottimo metodo per
non rischiare di causare accidentalmente il collasso della Terra. Per sua
sfortuna, o forse proprio perché lui potesse aggirare il blocco, l'unico modo
che il modulatore aveva per rilevare la densità era il puntatore. Il puntatore
girevole. Con un ghigno di arroganza gli diede un colpo, lasciando che ruotasse
di un quarto di giro orario, puntando ora verso destra. Si attese di udire il
rumore crescere, e invece rimase uguale. Anche la lente gravitazionale non dava
segni di cambiamento.
Che ci
fosse un limite sull'energia impiegabile dal meccanismo di produzione di bosoni?
Impossibile, Colress non avrebbe mai confinato la scienza. Le venne in mente di
controllare il display, leggendovi un roboante 0.36. Solo lì comprese cosa stava
veramente succedendo: non c'era nessuna soglia, il modulatore era programmato
per dare il massimo. La questione era un'altra: c'era un secondo campo
gravitazionale amplificato nella Sala degli Stati. E non era nei pressi della
porta. E nemmeno su un'altra parete, dove i gravitoni sarebbero potuti
rimbalzare.
Era su
Serena.
Silvia
la scrutò confusa. « Che succede? » le domandò quella, notando lo sguardo fisso
su di lei che era tutto fuorché tranquillizzante.
« Un
campo di gravità! Proprio dove sei tu! » le spiegò, e pur con il suo usuale tono
da esperta non risultò in grado di rendere meno preoccupanti tali parole « Prova
a spostarti! ».
La
ragazza annuì e slittò più a sinistra, allontanandosi dalla parete terminale
della stanza. Silvia tornò a guardare il mirino, appurando che adesso stava
rapidamente tornando a livelli normali. Ma ciò non innescò nessun conforto, anzi
era la conferma della sua paura: non era solo una coincidenza che il campo fosse
lì. Era Serena a produrlo. E ora si era instaurata una situazione simile al
gioco del tiro alla fune: da un lato il modulatore, dall'altro la strana energia
sprigionata da lei. Tiravano in direzioni opposte annullandosi a vicenda, e per
questo i nuovi gravitoni sparati dallo strumento non aumentavano la densità.
« Stai
producendo tu il campo! » la informò faticando ella stessa a crederci.
«
Cosa? Io? Che stai dicendo? ».
«
Giuro! Lo dice anche il puntatore! » gridò. Osservò attentamente Serena,
cercando di capire come poteva essere che stesse emettendo una simile quantità
di particelle senza sentirsi schiacciata. E indagando il suo corpo dall'alto in
basso se ne avvide: un piccolo bagliore proveniva dalla tasca della minigonna.
La
indicò urlandole addosso perché se ne rendesse conto, ma il rumore prodotto dal
modulatore di Gauss ormai la sovrastava. Comunque il messaggio giunse a
destinazione e la giovane infilò imprudente la mano nello scomparto, estraendone
una piccola pietra iridescente dai riflessi rosati. Si sorprese di essersi
praticamente scordata di averla lì: era il regalo aggiuntivo di Bellocchio,
quello che le aveva fatto trovare sul letto insieme alla sfera di Karen.
L'ultima volta che ricordava di averla tenuta in mano era stata dopo l'incrocio
coi Beedrill, quando aveva scoperto che brillava al buio. Trovò curioso che si
stesse attivando ora, quando i suoi ricordi di essa erano così strettamente
collegati a Bellocchio; di più, coincidevano con le due occasioni che ora la
spingevano a rischiare l'universo per lui.
«
È QUELLA! È QUELLA CHE GENERA
IL CAMPO GRAVITAZIONALE! » proruppe Silvia
manovrando il mirino. Per un attimo pensò che avrebbe mandato tutto a monte se
avesse continuato a tirare la fune dal lato sbagliato, ma impiegò poco a capire
che poteva essere la loro salvezza. Sbagliato era la chiave. Ma se avesse
iniziato a remare nel verso corretto… « Tirala nella lente! ».
« Come?
».
« Tira
la pietra contro la porta! Se fondiamo le due sorgenti ce la faremo! ». Per
l'eccitazione strinse tra le mani il modulatore, ritraendole però subito dopo
con uno spavento. Era bollente. Quando era successo? Non lo toccava da
parecchio, in effetti. Senza ventole sarebbe esploso a breve. Fortunatamente con
la pietra dalla loro avrebbero concluso prima che ciò avvenisse.
Tornò
sul display ed tripudiò: il numero era tornato a salire e ora segnava uno 0.61.
No, aspetta, aveva letto bene? 0.61? Aveva ripreso a crescere, certo, ma con il
lento ritmo tenuto prima. Non c'era stato alcun miglioramento offerto dalla
nuova misteriosa fonte di gravitoni, se non il fatto che non stava più stirando
il tessuto nel punto errato.
La sua
amica le corse incontro, esordendo con un « Che caldo! ».
Silvia
non lo sentiva, ma doveva essere perché non si era mossa da lì, abituandosi al
graduale rialzo di temperatura. « Qualcosa non funziona » la avvisò, se non
altro consolata dal non dover più gridare per farsi sentire « È come se non ci
fosse più il secondo campo. La pietra è inerte ».
Serena
si sorprese che la professoressa non ci fosse ancora arrivata. Lei non aveva
capito molto dei sermoni scientifici che aveva proferito, ma sapeva come
interpretare un problema simile. « Allora non era la pietra. Ero io ».
Un'espressione di perplessità accompagnò il meccanico gesto di Silvia di ruotare
il mirino verso la diretta interessata « Ma che dici? Guarda tu stessa, lo
schermo dice 0.2 ».
« Sì,
ma guardala. Prima brillava, ora non più » le fece notare la ragazza « Ero io.
Cioè, eravamo io e la pietra, insieme. Forse era alimentata da me ».
« E
questo che vorrebbe dire? ».
La
soluzione a Serena parve più che ovvia. Senza dire una parola di più si diresse
verso la porta, venendo però arrestata dalla salda mano dell'altra donna «
Lasciami andare! ».
« Ma
sei pazza? Il nostro corpo può reggere a malapena un 0.22! Non riuscirai
nemmeno ad avvicinarti! ».
« Prima
a quanto ero? ».
Silvia
aprì leggermente la bocca ritardando la risposta, non volendo incitare follie
suicide.
«
Allora? ».
« …
0.36 ».
« Bene,
allora direi che posso reggere almeno fino a lì. Magari la pietra mi fa da
schermo ».
Vi
furono altri tentativi di dissuasione, compreso qualcosa relativo un'esplosione
imminente, ma Serena li ignorò tout-court. Aveva fatto la sua scelta da
troppo tempo per poterla ritrattare adesso. Bellocchio andava salvato, e non
semplicemente se fosse stato possibile, o se il tempo l'avesse concesso:
Bellocchio andava salvato e basta. O entrambi o nessuno. Questo pensiero la
incoraggiò mentre affondava il primo passo oltre il modulatore di Gauss.
Avvertì
una pressione al torace, come quando ti avventuri sotto il mare con un
boccaglio. Ci era stata una volta sola, prendendo in prestito la maschera di
Calem, intorno agli otto anni, ma la sensazione la ricordava bene. Ogni scarpata
in avanti erano l'equivalente di altri metri in profondità, quanti non sapeva
stabilirne. Si immaginava dieci. Intorno a lei notò che il tempo sembrava
scorrere più lentamente all'esterno: i movimenti di Silvia attorno al proiettore
di particelle ora sembravano quelli di uno studente universitario alle prese con
un esperimento, e non quelle di chi cerca disperatamente di ritardare la fine
del mondo. Man mano che proseguiva verso quel ciottolo rosa si sentiva
schiacciare per terra e il tempo esterno rallentava ulteriormente. Alla fine,
protendendo la mano fin dentro la lente gravitazionale che da lì quasi non si
vedeva più, tanto aveva ormai inglobato il suo corpo, Serena riuscì ad
afferrarla. Per Bellocchio, fu il suo ultimo pensiero. Per Bellocchio.
Quanto
seguì non lo ricordò. Per lei tutto si spense in quel momento per riprendere in
un certo periodo successivo, pressata contro il pavimento e capace di muoversi a
stento. Il suo udito si stava riprendendo dopo essersi incomprensibilmente
interrotto. Incomprensibilmente finché Serena non si voltò verso Silvia,
perlomeno, perché da lì fu evidente: era stata assordata dalla detonazione del
modulatore di Gauss. La scienziata riversa sulla schiena addossata contro un
muro consentiva di ricostruire qualcosa di più: il modulatore era appena
scoppiato, e verosimilmente proprio il botto aveva fatto rinvenire la ragazza.
I suoi
occhi si mossero quindi al pugno destro che, dischiudendosi non senza fatica,
rivelò la pietra ancora luccicante. Ciò rincuorò Serena più di essere ella
stessa viva: ce l'aveva fatta, aveva riattivato il campo. Non si domandò nemmeno
come quel sasso iridescente avesse potuto ottenere un risultato simile, perché
certe occasioni meritano che anche le faccende più incomprensibili siano
rinviate.
La
forza che scaturì da questa certezza le consentì di issarsi sulle gambe. Silvia,
rimasta ferita sull'intero lato destro del corpo, le gridò qualcosa che suonava
come « Tutto bene? ».
Diciamo di sì, non mi ha bruciata. No,
aspetta, la replica le era rimasta in testa. Diciamo di sì!, ripeté
scandendo le sillabe per buona misura, ma con legittima sorpresa il suo urlo non
le giunse all'orecchio. Tutto bene! Niente, non riusciva a sentire la
propria voce. Era diventata sorda? Impossibile, aveva sentito Silvia. Era lei
che non riusciva a parlare. Provò a pensare cosa avrebbe potuto causare un
sintomo simile, ma per quanto ne sapeva di fisica gravitazionale poteva essere
tutto. E, per la verità, non le importava. Drizzò polpacci e cosce con un
guizzo, gesto che comunicava il suo stato di forma meglio di mille parole, e si
precipitò verso la porta spalancandola sonoramente.
Nessuna
caverna, solo la buia tavolata del conte. Non aveva funzionato. Serena fu sul
punto di crollare a terra quando sentì un suono. Era flebile, cioè, lo percepiva
tale perché ancora non si era ristabilita dall'ipoacusia, ma c'era. Protese
l'orecchio destro, quello meno malandato poiché si trovava più lontano dal
modulatore, e lo riudì. Più chiaro, più auto-esplicativo: era il rumore di
qualcuno che annaspava.
Fece
irruzione nella stanza brandendo il suo PSS, come lei miracolosamente intatto, a
guisa di torcia, roteandolo da un angolo all'altro. Finalmente individuò la
sorgente, quasi piangendo per la felicità. Era Bellocchio, disteso per terra e
nell'atto curioso di riprendere aria. Gli corse incontro prima ancora che lui si
accorgesse di un intruso, gettandoglisi al collo e abbracciandolo. Non riusciva
a capire per cosa fosse più contenta: perché il suo amico era salvo, o perché
era stata lei a salvarlo. Ma era contenta, e tanto bastava.
«
Serena! » sobbalzò con diverso ritardo l'uomo. Il suo tono, come usciva dalla
bocca tra un colpo di tosse e l'altro, era di genuina sorpresa, quasi non si
fosse nemmeno reso conto dell'avvenimento straordinario appena verificatosi.
Guardando i raggi di luce che penetravano nell'ambiente mise a fuoco l'evento:
era rientrato nel suo universo. Era a Castel Vanità. « Che è successo? ».
Sei
vivo!, cercò di urlare la giovane,
ricordandosi poi che era affetta da mutismo. Non se n'era preoccupata molto
perché aveva supposto fosse un effetto temporaneo, come la questione dell'udito,
ma mentre quello lentamente stava tornando la sua gola non faceva progressi. In
un altro momento sarebbe stata colta dal terrore di non poter mai più parlare,
ma ora non aveva letteralmente il tempo di preoccuparsene.
«
Abbiamo prodotto una seconda sacca strappando l'universo. Ora è collassata su
quella in cui ti trovavi tu, che ha fatto lo stesso ». Silvia aveva attraversato
barcollante la porta della Sala degli Stati per appoggiarsi a una delle sedie.
Si reggeva un braccio con l'altro, ma non sembrava in grave pericolo « Serena è
entrata dentro un campo gravitazionale critico per aiutarti. Sei proprio
fortunato, con qualsiasi altra amica non saresti mai uscito di lì ».
« Oh,
santo cielo! » esclamò Bellocchio, che pur non essendo un fisico era comunque
dotato di una perspicacia fuori dal comune. Strinse Serena a sé più forte di
quanto lei avesse fatto negli attimi precedenti « Tutto bene? ».
La
ragazza tentò la strada del mimo: dopo essersi liberata aprì la bocca e indicò
con un dito il suo profondo interno. Non posso parlare.
Silvia
le si avvicinò e, inginocchiatasi con un lamento a denti stretti, la esaminò con
occhio medico « Il tuo organismo ha subito uno shock. Penso che la pietra ti
abbia parzialmente protetto, il che spiegherebbe la mancanza di ferite da
esplosione, ma non ti ha impedito del tutto di subire gli effetti di quel tipo
di gravità. Tempo qualche giorno e ti… Che cos'hai? ».
Serena
si stava cimentando da qualche secondo in un altro tentativo di comunicazione.
Le sue labbra sembravano disegnare in sequenza o-a-a, il tutto
accompagnato da ampi gesti delle braccia.
«
Omastar! » comprese Bellocchio scattando in piedi. Il Pokémon era tornato
alla sua vecchia casa dopo oltre trecento milioni di anni, trovandola
decisamente cambiata: il marmo aveva sostituito le rocce calcaree, il legno le
prominenti stalagmiti e, più importante di tutto, l'umidità aveva lasciato il
passo a un'atmosfera secca. La creatura gemeva tristemente, sentendo la sua ora
farsi più vicina a ogni secondo che passava, lo sguardo acquoso fisso sulla poca
luce che penetrava attraverso l'entrata.
«
So… le… ».
Silvia
si ritrasse spaventata, e forse era un bene che non fosse in piena forma o si
sarebbe scagliata sul responsabile di tutti quei danni al suo villaggio natale.
Bellocchio invece si avvicinò, lo sguardo addolorato di chi assiste a una vita
agli sgoccioli.
« Vuoi
vederlo? » gli domandò dolcemente « Morirai comunque. Vuoi sentirlo almeno una
volta sulla tua pelle? ».
«
Co… me… ? ».
« Ti ci
porto io in braccio. Un ultimo viaggio. Dopo aver attraversato il tempo intero
non avrai mica paura, giusto? ».
Nulla
accompagnò il tragitto finale di Omastar. Non il cinguettio dei Fletchling, non
la voce di Silvia, quella degli abitanti di Castel Vanità né tantomeno quella di
Serena. Fu come se l'universo avesse voluto concedere un addio silenzioso al suo
orfano, il povero bambino prigioniero del destino più crudele possibile. Quando
Bellocchio lo adagiò per terra esitò, pensando a quanto terribile sapeva essere
il tempo: capace di costringere qualcuno a vivere tanto a lungo da accogliere la
propria fine con gioia. Avrebbe preferito tenerlo con sé, dove nessuno poteva
farlo soffrire, piuttosto che restituirlo a quel padre indegno.
Ma era
quello che voleva Omastar. Tutte quelle epoche, quel dolore, testimone fantasma
degli atti più atroci dell'umanità e delle sue meraviglie più grandiose. Per lui
non poteva esserci nulla di meglio. Quella sfera di fuoco tanto ossequiata ora
non era altro che tepore su di lui, garantendogli una dipartita piacevole.
«
Gra… zie… » mormorò per la prima volta felice. Subito dopo la morte lo prese
con sé, quasi il tempo non potesse sopportare che colui contro cui si era così
accanito lo avesse dominato nei suoi ultimi momenti al punto di andarsene con un
sorriso. Tutti i tre presenti piansero sinceramente, persino Silvia, che pure
aveva covato rancore verso di lui, ma non piansero di amarezza. Certo, tristi lo
erano, ma con una punta di gioia condivisa: l'essere più solitario
dell'esistenza non aveva dovuto perire da solo.
« C'è
un cimitero, qua? » domandò Bellocchio senza voltarsi.
Silvia
si asciugò le lacrime dalle guance « Sì, sulla collina a ovest ».
Un
tramonto sarebbe stato decisamente più adatto, ma Bellocchio non aveva voluto
attendere. Serena aveva insistito per dare almeno modo a Silvia di medicare le
sue ferite, ma lei aveva sostenuto che non ve n'era bisogno. Tra la morte di
Omastar e la sepoltura era così trascorso solo quanto necessario per recuperare
una pala dalla casa di sua zia e per raggiungere il camposanto, dopodiché l'uomo
aveva immediatamente iniziato a scavare. Non si era fermato un istante, nemmeno
per detergersi dal sudore, nonostante il sole brillasse a picco sopra di loro,
nonostante la fame, nonostante fosse debilitato per la mancanza d'aria nella
sacca temporale. Era compito suo, aveva detto. A l'una e mezza, quasi in
contemporanea ai due rintocchi del campanile della chiesa vicino a loro, il
sepolcro era concluso.
Non era
nulla di eroico, solo un cumulo di terra e un fiore reciso da un prato poco
distante. Ma Bellocchio recitò quella che a suo dire era una poesia che la gente
di Sinnoh dedicava alle anime che dovevano compiere il viaggio verso l'aldilà:
di nome faceva “Oltre il cielo” ed era
molto lunga, ma lui dimostrò di conoscerla a menadito. E con quelle parole così
musicali, così pregne di significato e ornate da una interpretazione commovente,
quel piccolo cimitero di periferia divenne la zona più romantica di Kalos.
Concluse stringendo tra le mani un pezzo del guscio di Omastar, frantumatosi
dopo essere caduto quando era venuto meno il sostegno vitale che lo reggeva
sulla schiena. Lo infilò in una tasca interna della giacca e si avvicinò a
Serena. Aveva notato che durante la lirica non gli aveva staccato gli occhi di
dosso, ma in certi punti gli era sembrato che fosse semplicemente ansiosa di
parlargli. « Devi dirmi qualcosa? ».
La
ragazza reagì sorpresa, puntando l'indice alla gola. « Non ti preoccupare »
rispose lui con un gesto della mano « So leggere le labbra ».
Figurati se non sapeva anche leggere le labbra. Quando mi hai dato l'addio
dalla sacca hai detto che ti dispiaceva di qualcosa, spiegò, che cos'era?
Bellocchio sorrise e la abbracciò senza preavviso, cogliendola di nuovo
spaesata. Non l'aveva mai fatto prima, non di sua spontanea volontà. Serena si
concentrò per non arrossire d’imbarazzo.
« Mi
dispiaceva di non averti detto grazie » le sussurrò « Grazie per il viaggio.
Beh, e ora grazie per avermi salvato la vita ». La giovane non seppe cosa
rispondere, ma non riuscendo l'uomo a vederle la faccia non avrebbe comunque
avuto senso farlo.
Quando
si separarono Silvia li aveva raggiunti. Lei, Serena lo sapeva bene, non avrebbe
mai ringraziato, anche se ne aveva ben donde. E non si sarebbe scusata per
averlo giudicato male. Era troppo orgogliosa, e nemmeno le circostanze di quel
giorno potevano farla capitolare. O potevano?
« Che
cos'è Sinnoh? » domandò. Come prevedibile, commentò a mente Serena
alzando gli occhi al cielo azzurro.
Il
volto di Bellocchio si illuminò, anche se lui lo diede poco a vedere « È da dove
vengo io. Una regione lontana ».
« Wow!
» Silvia aveva sentito a scuola, ovviamente, di luoghi oltre Kalos; ma fino ad
allora non c'era mai stata, né aveva conosciuto qualcuno che l'avesse fatto.
Trovarsi ora davanti a qualcuno che addirittura ci aveva vissuto risvegliò il
suo istinto da scienziata catalogatrice « E com'è? ».
«
Dovresti vederla con i tuoi occhi per capire. È un'isola solitaria nel mare,
amena e ostile al tempo stesso. Suppongo dipenda da dove la guardi » sospirò
l'uomo « Ah, ma non farmi parlare, che potrei andare avanti ore sul Monte Corona
e su Giubilopoli. Ci ho vissuto anni, sai? Piuttosto, di chi è la macchina che
sta venendo verso di noi? ».
Silvia
sussultò quando, giratasi, riconobbe la modesta utilitaria rossa che stava
gironzolando là attorno. Con il cuore a mille si precipitò giù per la collina,
rischiando più di incespicare e ritrovarsi con l'osso del collo rotto,
raggiungendo la vettura proprio mentre il suo autista era appena uscito.
«
Craig! » esultò stringendolo a sé. Avrebbe voluto fargli di peggio, ma il
pudore la trattenne in presenza degli altri due che la osservavano dalla cima,
attraverso le lapidi. « Cosa ci fai qui? ».
« Mi
hai lasciato un messaggio dicendo che non dovevo venire qui ».
« E tu
ovviamente sei venuto. Per questo ti amo » concluse Silvia. L'amato la cinse
ulteriormente, ma lei rispose con un gemito e lo lasciò andare.
« Che
hai? » chiese Craig, e notando che teneva il braccio sinistro lungo il corpo la
scostò leggermente per scoprire le escoriazioni che aveva riportato « Ma stai
sanguinando! ».
« Sto
bene, tranquillo. È una lunga storia ».
« Sì,
ma santo cielo, hai bruciature ovunque! ».
« Un
incidente con il modulatore di Gauss. Beh, un'esplosione più che un incidente ».
Craig
aggrottò la fronte « Il modulatore di Gauss? Che hai fatto per farlo esplodere?
».
« Fa
parte della lunga storia. Te la racconto a pranzo » spiegò la giovane «
Piuttosto dovrò inventarmi qualcosa da dire a Ginger. Contava su di me, ma ormai
si è salvato solo il generatore di gravitoni, che senza sapere il meccanismo che
inibiva il teorema di Carnot è inservibile ».
« E che
fine farà ora che è andato? ».
« Beh,
non credo che potremo buttarlo nel cassonetto. La cosa migliore credo sia
spostarlo alla Cripta. Chissà, magari un giorno qualcuno riuscirà a farlo
funzionare ».
« Pare
che la rivoluzione della fisica dovrà aspettare » convenne Craig sconsolato «
Chi è quello dietro di te che plana giù dal cimitero? ».
Plana? Silvia guardò nella direzione
indicata dal suo fidanzato e notò una sagoma stagliata contro il sole della
tarda ora di punta che scendeva aggrappata a una seconda figura, un puntino nel
cielo. Prima ancora che atterrasse dolcemente sul prato in cui si trovavano, la
donna seppe già di chi si trattava. « Anche lui parte della lunga storia. Ti
ricordi di Warren Peace? ».
«
Craig! » proruppe l'uomo in completo non appena sopraggiunto, mentre richiamava
la sua Nephtys nella sfera « Craig Vesely! Craig Harry Vesely! Che sorpresa? ».
A quel
punto si accavallarono più voci. Da un lato ci fu il professore, il quale
obiettò che Warren Peace era solo un nomignolo e il suo vero nome era, per
quanto era dato sapere, Bellocchio. Non avendo mai comunicato alla sua ragazza
di essere a conoscenza di ciò – ed essendosi sempre riferito a lui parlando con
altri mediante lo pseudonimo per apparire meno ridicolo –, era naturale che lei
avesse usato il nome che pensava gli sarebbe suonato più familiare.
Tutto
questo fu però eclissato dalla squillante voce di Silvia, che domandò « Harry?
».
« È il
mio secondo nome. Craig Henry Vesely. Gli ho già spiegato che è Henry, ma non mi
sta a sentire » chiarì lui leggermente infastidito. Non aveva mai amato quella
parte di sé, e ove possibile cercava di non farla presente a nessun altro, ma
Bellocchio doveva aver sbirciato nei dati che aveva fornito al Liceo di
Novartopoli.
« Beh,
Harry suona molto meglio di Craig! Craig non ti si addice proprio per niente,
Harry. Har-ry. Sì, penso che inizierò a chiamarti così » annunciò Silvia,
scatenando una risata in tutti meno che nel diretto interessato.
Frattanto Serena aveva sostato vicino alla tomba di Omastar, incapace di parlare
e per buona parte di sentire i discorsi che avvenivano alcuni metri sotto. Ma da
ciò che vedeva il suo amico sembrava tornato quello di prima, e ciò non poteva
che renderla festante. In certi giorni la psiche umana arriva persino a
trascurare certi elementi, certe illogicità che verrebbero colte e analizzate in
ore più buie.
Per
esempio non fece caso al fatto che, tra tutte le emozioni che un luogo può
imprimere nel cuore di qualcuno che ci ha vissuto anni, Bellocchio aveva
descritto Sinnoh con le stesse parole usate con lei nella notte senza luna dei
Jardins Parterre.
NEXT TIME: 1x21 –
C'è qualcosa di peculiare nel modo che i
Flare hanno di affrontare le emergenze. Per esempio, se un programma rileva
un'anomalia spaziotemporale di 21 dael nel bel mezzo di Luminopoli, la soluzione
naturale sarebbe inviare gli uomini più vicini per una ricognizione. I Flare no:
i Flare contattano un uomo che in quel momento si trova a una ventina di fermate
di metropolitana, e gli ordinano di radunare la sua squadra composta da membri
sparsi a ore di volo di distanza. Forse è perché la Seconda Unità annovera i
migliori scienziati di Kalos, o forse perché stavolta è in gioco la salvezza
della regione intera. E ricordate: ogni cosa ha un inizio e una fine.