PREVIOUSLY ON LKNA:
Silvia Celant, insegnante di fisica al Liceo per Allenatori di Novartopoli,
ritorna a Castel Vanità, paese della sua infanzia, per recuperare un modulatore
di Gauss portato alla casa di sua zia dalla fondazione Flare. La nostalgia cede
il passo alla constatazione di quanto è cambiato: sua nonna mostra disturbi
neurologici e, più inquietante, non c'è anima viva in giro. Indagando a riguardo
Silvia compie una scoperta raccapricciante: l'intera popolazione del villaggio,
zia compresa, è ora un'orda incapace di pensare e determinata a catturarla per
obiettivi ignoti. Proprio quando tutto sembra perduto e la donna è con le spalle
al muro, tuttavia, qualcuno le prende la mano.
«
Corri! ».
L'uomo
la trascinò per il braccio dentro l'abitazione e chiuse con violenza la porta
dietro di sé. Silvia approfittò di quell'attimo di pausa per analizzare
l'ambiente: non aveva scorto l'insegna all'esterno per ovvie ragioni, ma di
primo acchito doveva trattarsi di un bar a giudicare dall'arredamento legnoso e
dal soppalco largo circa metà del pianterreno. Con sua sorpresa il suo salvatore
si trovava già là in alto, giuntoci dopo essersi inerpicato sulla scala a
sinistra.
« Ti
muovi? » le domandò dalla postazione sopraelevata « Non li ho mica fermati con
una porta ».
Silvia
annuì e lo raggiunse mentre quello stava bussando ermeticamente sul soffitto,
percorrendolo per l'intera lunghezza del matroneo.
«
Perché saliamo? » lo interrogò.
«
Perché quassù arriveranno più tardi, pensa lateralmente ».
« Ma
siamo in trappola ».
« Un
problema alla volta » replicò lui. In quel momento uno dei suoi colpi a vuoto
risuonò più sordo degli altri e, quasi in contemporanea, il branco inseguitore
fece breccia nell'ingresso inferiore. L'uomo in completo sferrò un calcio ben
piazzato alle assi superiori, rivelando una scaletta retrattile che conduceva
oltre una botola nascosta. « Ah-ha! Beccata! » esultò prima di iniziare a
scalarla.
La
donna fece lo stesso, ritrovandosi con suo disappunto in bilico su un sostegno
sdrucciolevole. Sdrucciolevole e ricurvo, e dall'atmosfera circostante fredda.
Ci mise un po' a rendersene conto, ma erano snidati sul tetto. Fece per chiedere
cosa fare dopo, ma il cappotto marrone dell'uomo svolazzava già diversi metri
più in là, approfittando della vicinanza tra le case di quel rione. Silvia
dovette fare appello al suo intero repertorio giovanile di ginnastica artistica
per non scivolare giù, e ciononostante ci andò vicina un paio di volte.
Finalmente riprese l’inseguito, il quale nel frattempo si era arrestato al
limitare di una delle sommità, peraltro una pericolosamente storta. Dopo averlo
studiato attentamente comprese perché la sua silhouette gli risultava tanto
familiare.
« Ehi,
ma io ti conosco! Sei lo svitato di Novartopoli! ».
« Sì,
grazie Silvia ». Senza dire altro sfilò la sua unica Poké Ball dalla cintura e
la aprì, chiamando in causa un piccolo Fletchling svolazzante. Quindi, come se
il resto fosse evidente, protese la mano alla donna per invitarla ad
aggrapparsi.
« Non
vorrai mica volare con quello, vero? Non ci reggerà mai! ».
« Che
idiozia, ovvio che non voglio volarci! » replicò lui stringendole il braccio con
un guizzo. La sua bocca si contorse in un sorriso tanto allegro da sembrare
finto « Planeremo! ».
Silvia
stralunò gli occhi nel terrore e abbozzò una protesta, ma prima di poter aprire
la bocca si scoprì a mezz'aria, avvinghiata a un pazzo che a sua volta si
reggeva alla piccola gambetta di un pettirosso grave quanto una piuma. Il loro
viaggio come prevedibile durò poco visto che il Pokémon si vide incapace di
sostenere oltre il loro peso e li sganciò prima del previsto. Come risultato
entrambi i passeggeri capitombolarono su una strada lastricata in pietra, per
loro fortuna con quasi nessuna contusione.
« Ah,
beh, finalmente! » proruppe una terza voce, che Silvia identificò poi come
appartenente a una bionda forse ventenne dalla corta gonna vermiglia. L'uomo
parve conoscerla dal momento che sembravano condividere informazioni non dette.
« E
lei? ».
«
L'unica che ho trovato ancora sana. E a tal proposito… ». Si interruppe per
lasciare che un rumore fino a quel momento passato inosservato fosse colto dalle
loro orecchie. Suonava simile a una mandria di tori infuriati e, cosa più
preoccupante, era in palese crescendo.
«
Nephtys, Scacciabruma! ». Il piccolo Fletchling, con sorpresa di Silvia non
ancora esausto dopo la planata, sbatté rapidamente le sue ali producendo un
vento sferzante che dissipò il settore di nebbia di fronte a loro, mostrando per
orrore dei superstiti che l'esercito privo di coscienza da cui erano scappati si
stava ora precipitando a tremenda velocità nella loro direzione, favorito dal
pendio su cui marciava.
« Sanno
correre? ».
« Che
centometristi. Chiunque sia il burattinaio ha un talento ».
« Credo
sia l'ora del Piano B » commentò la ragazza in rosso, e a sua volta imbracciò
una sfera rosso fiammante « Karen, Protezione! ».
La
sagoma fuoriuscita dal lampo di luce non attese nemmeno il tempo di
stabilizzarsi: una sfera rosata brillò attorno al corpicino di Ralts ed esplose
in espansione fino a inglobare decine di metri di raggio e mettendo al tappeto
chiunque si trovasse sul suo cammino. Quando la luminosità dell'ambiente tornò
compatibile con l'occhio umano, Castel Vanità era una città di salme inerti.
Episodio 1x19
Dietro la
porta
«
Risponde la segreteria telefonica del numero 399009419. Il numero da lei
chiamato non è al momento raggiungibile. Lasciare un messaggio dopo il segnale
acustico ».
«
Craig… Non venire a Castel Vanità, non è… » Silvia gettò uno sguardo alla
distesa di cadaveri che la circondava, incapace di trovare le parole « Ho finito
il credito, quindi non potrò richiamarti. Ti amo ». Sconsolata distolse il
telefono dall'orecchio e lo squadrò vacua. Mille frasi possibili da lasciargli e
aveva scelto le più vane. Figurarsi se una comunicazione tanto generica avrebbe
tenuto il suo fidanzato distante; anzi, probabilmente lo avrebbe incuriosito
ancor di più. Ottimo lavoro.
«
Credito? » domandò la ragazza in rosso, avvicinandosi a lei dopo aver ritirato
Ralts. L'uomo frattanto si era allontanato per studiare i rimasugli dell'orda
che li aveva assaliti, e non sembrava intenzionato a staccarsene presto. « Ne ho
sentito parlare… Sono tipo dei soldi, giusto? Il PSS ha le chiamate gratuite, se
vuoi… ».
Silvia
agitò in risposta il suo cellulare, un esemplare risalente almeno a una decina
di anni prima. « Vecchio modello. Craig non vuole un PSS, dice che non fa per
lui. Questo si appoggia a una rete diversa, quindi non posso usare il tuo ».
«
Questo Craig è uno all'antica? ».
« Credo
sia più perché con una paga da professore puoi permetterti poco di più, ed è
troppo orgoglioso per accettare che glielo regali » rise la donna alzando gli
occhi al cielo « Non è poi così male, questo, sai? Il suo neo è che addebita
ogni telefonata, quindi ora non posso chiamare la polizia ».
« Posso
farlo io » suggerì la ragazza, scuotendo a sua volta lo smartphone in dotazione
« Chiamate gratis, no? ».
« Che
modello è? ».
« 4S.
L'ho preso un anno fa per il mio diciottesimo ».
« Un
vero peccato. Dal 4S in giù le chiamate di emergenza sono reindirizzate in
automatico alla centrale cittadina, che al momento temo ci sarà di poco aiuto »
commentò Silvia desolata « A metà dello sviluppo del quinto gli è venuto in
mente che forse era meglio far scegliere la destinazione, come succedeva
da anni su altre marche. Quando si dice il progresso ».
« Come
sai tutto ciò? ».
«
Diciamo che i geni dietro quelle decisioni sono miei colleghi ».
La
ragazza sorrise e le offrì una stretta di mano « Serena Williams. Quello che
analizza i corpi laggiù si chiama Bellocchio ».
«
Silvia Celant. Lui lo conosco, era al Liceo di Novartopoli quando fummo
attaccati da Zoroark. Ma non si chiamava Warren? ».
«
Quello è il suo nomignolo, quando si ricorda di quanto è ridicolo il nome che
usa di solito » ribatté beffarda Serena, rimembrando l'avventura scolastica
vissuta con lui, Calem e i bambini. E Ada, anche se alla fine si era rivelata
proprio quella a cui davano la caccia. Non aveva mai capito cosa fosse veramente
successo in quei giorni, a partire dalla provenienza della finta alunna, ma a
quanto sapeva erano dilemmi condivisi dal suo compagno.
« Per
caso state viaggiando insieme? » domandò Silvia « Non c'è molta gente che viene
qui in vacanza ».
« Sì,
da… Vediamo, era mercoledì, quindi una settimana e un giorno ».
« Però,
da Novartopoli a qui in così poco tempo… Siete veloci. E da quanto vi conoscete?
».
« Da
una settimana e un giorno » replicò Serena senza nascondere un divertimento
interno per la risposta data « È una lunga storia, il nostro primo giorno è
stato un po' particolare ».
La
donna rimase sbigottita « Solo? ».
« Che
significa “solo”? ».
« Vi
comportate come se vi conosceste da una vita! » esclamò lei con sorpresa «
Quando vi ho visti pensavo foste fidanzati, ma ripensandoci vi ho visti più come
fratello e sorella, e invece… Una settimana e un giorno! ».
Proprio
in quel momento Bellocchio si unì al duo. Nonostante la situazione non aveva
perso nemmeno in quel caso la sua consueta verve, il che se non altro era
rassicurante. « Okay, ho una buona e una cattiva notizia. E prima che scegliate,
vi suggerisco di partire con la buona ».
Serena
lo sollecitò « Spara ».
« Non
sono morti ».
Entrambe le donne attesero impazienti un prosieguo, ma Bellocchio non pareva
dell'idea. « E… ? ».
«
Basta. Viste le circostanze credo che non morire si possa considerare un buon
risultato » tagliò cinicamente corto « La cattiva è che sono tutti in stato di
controllo sinaptico a raggio convergente ».
« E
questa che lingua è? ».
«
Ipnosi. E da qualche parte c'è un mega-cervello che li controlla. Per questo
compiono una sola azione per volta, sono come un'unica creatura ».
« E il
gran capo dove sta? ».
« Sa
Dio. Mi piacerebbe chiederlo a qualcuno, ma a parte noi tre qui sono tutti
burattini. O almeno, così mi è parso » soggiunse dirigendo lo sguardo a Silvia.
La professoressa fissava il vuoto a bocca semiaperta, completamente
inespressiva.
Serena
andò in suo soccorso, cingendole le spalle con un braccio « Ehi, ehi! Tutto
bene? ».
« Sì…
Sì, io–– È solo che… ». Dapprima cercò di andare avanti, ma in breve tempo
dovette cedere alle emozioni e si profuse in un pianto isterico « Tutti quelli
che conoscevo… Tutti… ».
« Shock
traumatico, può capitare. Chiama quando ti sei ripresa ».
«
Bellocchio! » lo riprese Serena inacidita « Sii più comprensivo, non sono
tutti abituati come te a vedere gli amici quasi-morire! ».
« Non
sono abituato, è la prima volta che vedo una cosa simile in vita mia » replicò
lui risoluto « Ma a maggior ragione voglio capire che sta succedendo e provare a
risolverlo. Quindi, Silvia, te lo chiedo con il cuore: conosci qualcuno che non
sia ancora ipnotizzato? ».
La
donna fu tentata di rispondere con un secco no senza riflettere e
abbandonarsi alla malinconia. Ma non era certo da lei perdere la concentrazione
e lasciarsi sopraffare dai sentimenti. « Sì, io… Mia nonna, l'ultima volta che
l'ho vista era ancora sana. Però è stato un po' di tempo fa, non so se… ».
«
Seguivano te, quindi probabilmente è ancora a posto. Però se è così dobbiamo
muoverci a raggiungerla, questi qui non staranno svenuti a lungo ».
« Sì,
ma… » obiettò Silvia, riprendendosi dalla crisi precedente « Non vi sarà di
nessun aiuto. È impazzita martedì scorso ».
Una
lampadina si accese nel cervello di Bellocchio. Anzi, lui amava definirlo un
faro massiccio con sopra incisa a grandi lettere la parola “coincidenza”.
« E la nebbia da quando c'è? ».
« Che…
che cosa c'entra la nebbia? ».
«
Tutto. Senza la nebbia qualcuno si sarebbe accorto di una città deserta in tempo
primaverile, o di zombie che fanno proseliti per strada. Quindi, di nuovo, la
nebbia da quando c'è? ».
Per
quanto perplessa, Silvia si sforzò di ricordare se sua zia avesse detto qualcosa
a riguardo. « Vediamo… Zia Tonya ha detto… questa settimana, mi pare. Sì, questa
settimana. Ma continuo a… ». Oh. In effetti, a ben pensarci, la settimana
inizia di lunedì. Follia, controllo mentale e temperature fuori stagione a
giorni di distanza. Un po' troppo.
«
Portami da tua nonna » si impose categorico Bellocchio.
Il
tragitto, per quanto breve in linea teorica, fu notevolmente rallentato da due
occorrenze: una fu Bellocchio, intenzionato contro ogni logica a guidare il
gruppo in prima fila, pur non conoscendo la via. La seconda era più naturale:
nessuno dei tre era convinto che l'intero arsenale di morti ambulanti di Castel
Vanità fosse stato esaurito in un solo attacco, né che quelli investiti dalla
Protezione di Karen fossero da considerarsi fuori dai giochi.
Per la
prima parte della camminata vi fu solo un rispettoso silenzio. Fu Serena a
interromperlo per prima, più per un tarlo che la rodeva dall'interno che non per
desiderio di fare conversazione. « Mi dispiace per i tuoi amici ».
Silvia
impiegò un po' a capire che stava parlando con lei « Oh… Grazie, ma davvero, era
solo… uno shock momentaneo, nulla di più. Molti di loro nemmeno li conosco ».
« Tu
non vivi qui, vero? ».
« No,
ormai ho casa stabile a Novartopoli… Ora, con Craig, chissà. Ci vivevo da
piccola, qui, fino ai sette anni » spiegò la donna « Tu, invece, da dove vieni?
».
« Borgo
Bozzetto » rispose lei orgogliosa. Poi aggiunse con una velatura di dubbio « La
conosci, vero? ».
« Ovvio
che la conosco! Non lavoro molto distante da lì, ricordi? » le fece notare
Silvia, al che la ragazza annuì confortata. « Sai che hanno una cosa in comune?
».
« Spero
non la popolazione! » propose Serena, scatenando una quieta ilarità tra le due.
Ricompostasi, Silvia passò a spiegare « Entrambe una volta erano una grotta ».
«
Davvero? ».
« Beh,
in epoche diverse. Non ricordo bene la vostra, ma qui lo fu fino al Cisuraliano,
quando crollò a seguito di ere ed ere di piogge intense. Si parla di trecento
milioni di anni fa » concluse con fierezza. Alzando lo sguardo, fino ad allora
oscillante tra l'interlocutrice e le pietre incastonate per terra, chiamò
Bellocchio a gran voce « Ehi, ehi, dove vai? Casa mia è quella! ».
Quello,
troppo distante per rispondere senza gridare e attirare nemici, si limitò a un
cenno di okay con le mani ed entrò circospetto dalla porta rimasta aperta. Le
altre due lo raggiunsero poco dopo, quando lui nel frattempo aveva già
perlustrato il pianterreno per accertarsi che fosse privo di pericoli.
«
Nessuna marionetta avvistata » stabilì sicuro.
« Beh,
allora vai » lo esortò Silvia « Io preferisco non vederla di nuovo, non so se
reggerei ».
« Molto
bene. Serena, avec-moi ».
« No,
no, per carità! » la professoressa lo trattenne per un lembo del cappotto mentre
già si era avviato « Zia Tonya ha detto che più persone la disorientano ».
«
Ricevuto, ricevuto, vedrò che riesco a fare da solo » assentì Bellocchio « Ci
vediamo tra poco. Se gli altri vi trovano… cercate di stare vive ».
Quelle
parole provocarono uno strano rimbombo rimbalzando da una parete all'altra
mentre il giovane, appoggiato il soprabito su una sedia lì vicino, si
incamminava per le scale un gradino dopo l'altro. Dopo aver rispettosamente
bussato senza ricevere risposta, aprì dolcemente la porta della stanza da letto
per trovare un'anziana signora curva e sorridente seduta su una poltrona, con
tra le mani un bastone da passeggio. In quel momento gli sovvenne che, tra tutte
le preoccupazioni del caso, non aveva nemmeno pensato di domandare il suo nome.
Era sorprendente come le cose più semplici gli sfuggissero dalla testa.
«
Buongiorno » salutò sistemandosi su uno dei giacigli. La donna non lo degnò di
uno sguardo, nemmeno non si fosse accorta di lui, ma replicò con un inatteso «
Sono qui! ».
Bellocchio non era un dottore e di certo non poteva produrre una diagnosi; ma
anche a un bambino sarebbe stato lampante che ottenere qualcosa da lei era
un'impresa disperata. Ciononostante non accettò di arrendersi così
frettolosamente all'unico appiglio che aveva per venire a capo del mistero. «
Come va la vita? ».
« Ciao!
Sono qui! ».
Sempre
lo stesso tono disturbante. Non aveva senso insistere oltre su chiacchiere
pro forma, non avrebbe cavato un ragno
dal buco. Meglio provare ad andare dritto al punto. « Lei vive qui da molto,
vero? ».
« Sono
qui… ».
Bingo! Non c'era dubbio, l'inflessione
della voce era cambiata. Poteva anche non sapersi esprimere, ma doveva
comprendere ancora il linguaggio umano. « Signora, lei sa che fuori da questa
stanza la città dove ha trascorso la sua intera vita è vittima di un'ipnosi
collettiva? ».
La
vecchia non rispose, ma ciò non significa che non reagì. Alzò tremante la mano
che stringeva il bastone da passeggio e impiegò quest'ultimo per issarsi in
piedi. A piccoli passi si avvicinò a Bellocchio, sempre più sospettoso. Era
pazza, ma aveva anche la sua età: cosa avrebbe potuto fargli? Si sarebbe
aspettato tutto meno la cosa più ovvia. La cosa che una sana di mente avrebbe
fatto.
Lo
abbracciò. Non disse nulla, forse perché non ne era in grado, o forse perché non
c'era nulla da dire. La risposta alla tragedia fu talmente umana e talmente
naturale da spiazzare completamente l'uomo. Ma c'era altro. Quello non era solo
un abbraccio di conforto, era un abbraccio di sostegno. Come quello di chi sa
troppo e non riesce a reggere il peso dell'informazione. Come quello a cui
Bellocchio aveva imparato a rinunciare.
«
Signora » le sussurrò affettuosamente « lei sa qualcosa della nebbia? ».
Il
cambiamento fu così repentino da eclissare quello precedente. Con un gesto
fulmineo la signora imbracciò il bastone e lo premette dritto contro il giovane,
sbattendolo al muro e premendogli il collo con i denti della testa di serpente.
«
Non vi avvicinate alla porta! ».
Bellocchio impugnò un segmento della verga con ambo le mani e tentò di
allontanarlo, ma d'improvviso la debole vegliarda aveva sfoderato la rigidezza
di un campione dei pesi massimi. « Serena… » invocò aiuto, l'unica cosa che gli
rimaneva da fare « Serena! Sarebbe gradita una mano! In fretta,
possibilmente! ».
«
Non vi avvicinate alla porta! ».
Abbassò
gli occhi sull'attaccatura tra bastone e rettile, incontrando il profilo
sagomato di tre parole incise nel legno. Erano capovolte, ma riuscì comunque a
leggerle: Fort de Vanitas.
«
PROTEZIONE!
» scandì una voce femminile fuori dalla stanza, e l'arredamento fu quasi
soverchiato per ciò che seguì. L'uscio si spalancò come in preda a una violenta
corrente e un bagliore folgorante fendé l'ambiente in due, tagliando proprio tra
Bellocchio e la vecchia per dividerli. Serena entrò guardinga appena dopo,
seguita da una Silvia più allarmata che mai.
«
Nonna! » andò scattante a sincerarsi delle condizioni dell'anziana,
trovandola riversa per terra, incapace di rialzarsi e in stato confusionario. «
Che le hai fatto? » ruggì all'indirizzo di Bellocchio.
« Io?
» protestò lui dirigendosi allo specchio sito sulla parete opposta « È lei che
mi ha aggredito come ho pronunciato la parola nebbia ». Con suo sollievo
il dente del serpente premuto sul collo gli aveva lasciato solo una piccola
cicatrice che sanguinava appena. Si ripulì improvvidamente con la mano per
evitare che il bavero della camicia si macchiasse.
« Sì,
giusto, come no. Mia nonna di novant'anni che ti tiene testa. Ce la vedo proprio
».
«
Abbiamo la memoria corta, vedo. Ti sei scordata dei decrepiti che ti hanno
inseguita per mezza Castel Vanità? ».
« Mia
nonna non era posseduta ».
«
Questo non possiamo dirlo con certezza » controbatté Bellocchio « Potrebbe
essere un tipo diverso di controllo. Questa ferita non si è aperta da sola ».
Indicò per buona misura la propria gola, dove il taglio non si era ancora
rimarginato.
«
Smettetela entrambi, non arriveremo da nessuna parte litigando » intervenne
Serena, frapponendosi tra i due disputanti.
« Scusa
tanto, Serena, non ce l'ho con te, ma il tuo amico mi sembra tutto fuorché uno
di cui fidarsi ».
« Io mi
fido di lui » ribatté lei, troncando definitivamente il discorso. Si fermò
qualche istante perché gli animi si placassero, poi si diresse verso Bellocchio
« Hai scoperto qualcosa? ».
Quello
scosse la testa in cenno negativo « Ha parlato solo di una porta. Cos'è Fort de
Vanitas? ».
Silvia
sbuffò mentre aiutava sua nonna, che nel frattempo aveva ripreso la sua usuale
litania di sonoqui, a rimettersi sulla poltrona. Se non altro la
compagnia non le stava provocando attacchi di panico, semplicemente perché non
pareva accorgersi della presenza di altri. « Il castello della città. Vanitas,
vanità, dovrebbe essere abbastanza ovvio. Perché? ».
« Sta
scritto sul suo bastone ».
«
Ovvio, l'ha preso lì. Per qualcosa come metà della sua vita ha fatto la custode
del castello, fino a martedì scors–– ».
Serena
inarcò le sopracciglia. L'aveva fatto di nuovo. Bellocchio aveva di nuovo
palesato la totale incompetenza di tutti quelli che provavano a confrontarsi con
lui. Ora che l'aveva detto controllare Fort de Vanitas era la cosa più ovvia da
fare, persino offensivo a dirsi, ma prima nessuno ci avrebbe mai pensato.
« Direi
che abbiamo la prossima destinazione » commentò l'uomo con un sorriso
compiaciuto.
Fort de
Vanitas era un castello edificato dal conte Thibaut IV, noto come Thibaut de
Vanitas una volta insediato nella città, attorno ai primi anni del 1500, con uno
stile architettonico di inconsapevole raccordo tra il gotico medioevale e
l’umanesimo del Rinascimento. Oggi si presentava come una magione diroccata,
priva dei fasti di un tempo e forse in linea con ciò che Castel Vanità era
divenuta, ormai raramente considerata come un'entità separata da Luminopoli al
di fuori dei suoi abitanti.
L'ingresso era consto, superato il tradizionale ponte levatoio, da un'anticamera
all'aria aperta sovrastata da un massiccio arco in pietra. Da lì due porte
laterali conducevano agli alloggi privati del personale, quelli che la nonna di
Silvia aveva abitato per decenni, diventando quasi parte dell'edificio stesso.
Mediante un portone frontale, invece, era possibile entrare all'interno.
Il
primo ambiente chiuso era la cosiddetta Sala degli Stati, una stanza gotica
pinnacolo dell'architettura di Fort de Vanitas. Consta di una navata principale
e una di contorno sulla destra, la Sala era chiusa a guscio dall'affresco di una
volta stellata. Essa era un tempo impiegata come ritrovo per l'Assemblea degli
Stati di Kalos – di qui il nome –, nonché in epoche più recenti come municipio
prima che il Sindaco decidesse di trasferirsi in una sede che, perlomeno,
vantasse un impianto di riscaldamento elettrico.
Tutto
ciò Bellocchio l'aveva letto da un opuscolo prelevato all'atrio esterno, perché
non avrebbe avuto modo di dedurlo in alcun altro modo: l'intera camera era
pervasa da una fitta caligine che rendeva ostico persino respirare. Con lui era
rimasta solo Serena, in quanto per l'incolumità di Silvia le aveva raccomandato
di aspettarli fuori.
«
Questo non è normale » constatò proprio la ragazza, asciugandosi gli occhi
irritati dalle goccioline d'acqua sospese.
«
Nebbia al chiuso. Decisamente no ».
« E ora
che si fa? Ci dividiamo e guardiamo in giro? ».
Bellocchio gironzolò un po', dando un'occhiata qua e là in cerca di indizi cui
solo lui sapeva di stare dando la caccia. « La nonnina ha detto di non
avvicinarmi alla porta ».
« Ne
vedo parecchie qua » osservò Serena. Ne aveva contate sei: quattro sui lati, due
al termine di ciascuna navata. Nessuna era più grande delle altre o
apparentemente più importante, erano tutte uguali.
« Ha
detto la porta. La. Come se fosse ovvio » sottolineò l'uomo. « Ma
forse è solo pazza. Tuttavia » soggiunse gettando uno sguardo alla corsia
primaria della Sala degli Stati « l'istinto mi dice che è quella ».
Serena
non contestò, perché se avesse dovuto selezionarne una avrebbe fatto la medesima
scelta. Per varie ragioni: la prima sulla lista era che l'unico suo clone
apparteneva all'andito minore, e se una tale asimmetria aveva passato il vaglio
del conte Thibaut doveva pur esserci una ragione. Ma a un'ispezione più accurata
era qualcos'altro che aveva messo la pulce nell'orecchio al suo amico: non era
del tutto chiusa. Uno spiraglio nero la separava dall'infisso, come se un
custode disattento se ne fosse dimenticato, o come se fosse stata usata di
recente.
I due
la approcciarono gradualmente e da lati diversi, quasi si attendessero una
reazione. Invece vi giunsero entrambi senza difficoltà e Bellocchio, non certo
libero dal timore, la aprì con delicatezza, il che non impedì comunque ai
cardini di produrre un fastidioso cigolio. Nessuno vi fece caso, comunque,
perché ciò che vi si trovava dietro superava ogni aspettativa.
« Non è
possibile » rimarcò Serena, e ultimamente aveva visto abbastanza da scuotere le
sue certezze più radicate. Ma una grotta in un castello, quello era troppo anche
per lei.
Per la
verità intuì che si trattava di una grotta solo grazie al terreno dissestato e
spigoloso che suonava come roccia: l'illuminazione della Sala degli Stati
proveniva da due fila di finestre incavate due secoli dopo il resto della
struttura, ma la foschia la filtrava quasi interamente e ciò che stava dietro la
porta era imperscrutabile. La ragazza rammentò però di essere in possesso di un
PSS, e attivando la sua funzione di torcia riuscì ad accertarsi che sì, quella
era proprio una caverna.
«
Calcarea » analizzò Bellocchio perplesso « Roccia calcarea. Ma non ha senso, le
infiltrazioni l'avrebbero fatta collassare ere fa ». Per sicurezza controllò il
dépliant turistico con l'aiuto della luce fornita da Serena « Qua dovrebbe
esserci la tavolata del conte. Da dove salta fuori una grotta? ».
La sua
compagna si strofinò le mani. L'aria era umida, però quantomeno non vi era
traccia della bruma che infestava Castel Vanità. In effetti non vi era traccia
di assolutamente nulla che ricordasse Castel Vanità. Una bizzarra ipotesi prese
a serpeggiare nella sua mente, e per quanto ridicola Serena non riuscì a trovare
una sola cosa che la rendesse meno assurda di una spelonca clandestina. Quando
si voltò per proporla a Bellocchio, quello aveva già fatto avanti e indietro tre
volte attraverso l'architrave della porta per assicurarsi che non fosse un
trucco. « Secondo te i viaggi nel tempo esistono? ».
Il
giovane non riuscì a capire, ma colse subito che non si trattava di un commento
casuale « Perché? ».
«
Silvia mi ha detto che tipo trecento milioni di anni fa l'intera città era una
grotta. È un'idea impossibile, ma è l'unica che mi è venuta ».
Bellocchio stralunò gli occhi molto più di quanto la ragazza si sarebbe
aspettata. La sua era una nota innocente pronunciata con scarsa serietà, ma lui
sembrava averla presa come oro colato. In effetti probabilmente la sua mente
l'aveva presa come trampolino di lancio, e ora doveva essere giunto a qualcosa
di completamente diverso. Succedeva spesso, viaggiando con lui. L'uomo aprì la
bocca per parlare ma fu interrotto da qualcos'altro, qualcosa che fece
rabbrividire entrambi: due barlumi rossi scintillavano nell'oscurità.
La
coppia trasalì. Serena alzò la torcia per fare luce, ma come si avvicinò ai
lampi fiammeggianti un orripilante verso inumano la avvisò di fermarsi.
Lentamente il chiarore fornito dai due punti si ampliò, rivelando una forma
mostruosa che la ragazza non aveva mai visto. I suoi occhi vorticarono
febbrilmente da un massiccio guscio aguzzo a un organismo celeste e flaccido
dalle fattezze di una stella a cinque punte, passando poi alle disgustose fauci
grondanti saliva per concludere nelle sue crude pupille vermiglie ancora
irradianti. Tentò una seconda volta di puntare il bagliore del PSS per
osservarla meglio, ma di nuovo la creatura emise quel richiamo ributtante, come
un risucchio seguito da un battere di denti prolungato. Si girò verso
Bellocchio, aspettandosi di rivedere sul suo volto il proprio stesso stato di
paura.
Come
prevedibile non fu così. O meglio, la differenza si giocava sulla sottile
discrepanza tra paura e sgomento. Bellocchio non era spaventato, era stordito da
ciò che si trovava davanti a lui.
« Che
cos'è? » gli domandò tremebonda.
« Una
sacca temporale ».
« Che
cosa? ».
« Siamo
in una sacca temporale » ripeté lui, stavolta aggiungendo la sintassi necessaria
a comprendere meglio la frase.
« E che
cosa sarebbe? ».
«
Qualcosa che non credevo avrei mai visto » rispose l'uomo. Azzardò a muovere un
passo in avanti, ma scatenò ancora la reazione di quel vomitevole essere e si
arrestò. « Sapevo che teoricamente erano possibili, ma è un po' come vedere due
fulmini abbattersi nello stesso punto. Anzi, mille fulmini, uno dietro l'altro
».
« Hai
intenzione di dirmi che cos'è prima o poi? ».
« È un
inceppo nel meccanismo del tempo. In qualche momento, centinaia di milioni di
anni fa, questo luogo ha fatto un salto. Si è sdoppiato, se vogliamo » spiegò
Bellocchio, evidentemente ostacolato dalla mancanza di parole utili a descrivere
il processo « Da allora questo posto ha seguito una strada diversa, libero da
influssi esterni, nello stesso tempo di questo universo. Mi dicevi di una grotta
che poi è crollata… Beh, qui non è mai successo ».
« Una
strada diversa? ».
« Come
due rette parallele. Così simili, così vicine da toccarsi con un dito, ma mai in
grado di farlo. Beh, fino a ora ».
Serena
ingoiò a forza un grumo di saliva che le si era addensato in bocca. Ora lei era
nel passato, ma anche nel presente visto che il tempo era
trascorso nello stesso modo? Cercò di non pensare a quel paradosso per
concentrarsi alla domanda più scottante. « E quello… quello cos'è? ».
« Lui è
il rifiuto. L'orfano del nostro universo. O più semplicemente uno che ha avuto
la sfortuna di trovarsi qui al momento del salto » Bellocchio le mise una mano
sulla spalla, come per confortarla – di che cosa, poi? « Hai di fronte l'ultimo
Omastar vivente ».
Omastar. Non aveva mai sentito quel nome in
vita sua. Mai, nemmeno menzionato. « Che cos'è un Omastar? ».
« Un
Pokémon vissuto in ere preistoriche. Si pensa che con il passare del tempo il
suo guscio si sia ingrandito troppo per permettergli di muoversi, e che ciò
abbia causato la sua estinzione ».
« È lui
il cervello? Quello che ha ipnotizzato gli abitanti? ».
« È
molto probabile. Credo che ci sia lui anche dietro alla nebbia. Il clima si è
fatto molto più secco che al loro tempo, è probabile che senza di essa
l'ambiente esterno avrebbe contaminato quello di questa grotta uccidendolo. Però
non mi spiego perché » concluse il giovane, grattandosi il mento.
« So…
lo… ».
La
coppia sobbalzò. La voce era acuta, sofferente, lenta e trascinata, e in effetti
sarebbe potuta provenire da qualsiasi punto della caverna. Ma non c'era nessun
altro: quelle parole dovevano per forza essere state pronunciate dalla figura a
luce rossa che li fissava. Omastar, un Pokémon vissuto epoche prima dell'uomo,
aveva parlato.
La
quiete seguente fu dura da spezzare. Era tutto così illogico che Serena avrebbe
preferito tacere in eterno, riflettere sulle implicazioni di quanto avevano
scoperto. Ma Bellocchio, pur di fronte a situazioni simili, era uno che
raramente rimaneva a corto di parole.
« Non
erano parallele » disse enigmaticamente, quasi quelle tre parole spiegassero
tutto.
« Eh?
».
« Le
rette. Le linee temporali. Il nostro universo e questa sacca. Quando questa
parte di grotta ha fatto il salto si è distanziata di un'infinità, ma ha tentato
di ritornare a casa » proseguì Bellocchio seguendo il proprio personale filo dei
pensieri « Le due rette non erano parallele, erano l'una impercettibilmente
inclinata relativamente all'altra. Ci è voluta un'eternità, ma lentamente le due
parti si stavano avvicinando. A un certo punto, milioni di anni dopo l'inizio
della sua prigionia, questo Omastar deve aver iniziato a sentire delle voci ».
Serena
cominciò a comprendere « Le voci di Castel Vanità ».
«
Esatto. Prima quasi impalpabili, poi sempre più forti, man mano che la sacca
confluiva. E ora siamo al punto d'incontro » concluse per poi rivolgersi
direttamente al Pokémon « È così che hai imparato a parlare come noi, vero?
Ascoltando e imparando. Loro non ti sentivano perché era una connessione
unilaterale, ma tu sentivi loro ».
« Sì…
». Procedeva una sillaba per volta, ma considerando il proporzionalmente piccolo
arco di tempo in cui aveva imparato era già un risultato sconvolgente.
« Ma
perché? » chiese Serena « Una volta che ha capito che era in contatto col nostro
mondo, perché ipnotizzare le persone? ».
«
Perché si sentiva solo ».
Un
verso lamentoso fuoriuscì dalla bocca di Omastar, qualcosa di tanto malinconico
da andare oltre il descrivibile. Il canto perduto di un essere solitario.
« L'hai
sentito, no? L'ha detto anche lui » continuò Bellocchio « Voleva compagnia.
Aveva passato epoche completamente da solo, riducendo le funzioni vitali al
minimo. Voleva qualcuno con cui vivere. Qualcuno con cui morire ».
«
Perché sono ancora in giro, allora? Presone uno non poteva semplicemente… che ne
so, tenerlo qui e basta? Avrebbe avuto più senso che tenerli a vagare per la
città ».
Per un
attimo temette che Omastar avrebbe ripetuto il suo ripugnante richiamo
caratteristico, ma non lo fece. « Pa… u… ra… ».
Serena
rimase impalata, incapace di reagire e sentendosi sporca come poche volte nella
sua vita. Lei aveva avuto paura, ma non solo lei: tutti. Nessuno di loro
avrebbe potuto sopportare di vivere con quell'abominio, nessuno avrebbe
voluto. Quante volte negli ultimi minuti aveva soffocato i conati di vomito
alla vista di quel mostro, e tutto ciò che lui voleva era un amico. Così umano,
così inumano.
Bellocchio assunse un'espressione costernata e fece un passo in direzione del
Pokémon, che stavolta glielo concesse « Mi dispiace per ciò che ti è capitato,
non ne hai nessuna colpa. Ma non posso aiutarti. Devi capire che è tuo destino
rimanere solo ». La voce gli bruciava mentre proferiva quel duro annuncio,
perché nessuno più di lui detestava rinunciare ad aiutare qualcuno. Ma che altro
avrebbe dovuto fare? Quell'essere era troppo vecchio anche solo per muoversi, e
la sola aria priva della nebbia che aveva eretto lo avrebbe ucciso prima dei
batteri a cui non era abituato. Era privo di speranza e lui, povero umano
schiavo del suo tempo, non poteva fare nulla.
«
Non… più… » scandì Omastar con accento per la prima volta brutale.
Quello
che accadde dopo fu quasi irreale per il ritmo sostenuto in una manciata di
attimi. L'aria iniziò a vibrare come una corda tesa; il Pokémon preistorico si
chiuse in un silenzio di tomba dopo aver emesso in un'ultima occasione il suo
risucchio e battito, e i suoi occhi si spensero; Serena fu spinta con violenza
da qualcosa o qualcuno al di fuori della porta, e si rese conto che era stato
Bellocchio solo quando l’anta si richiuse in preda alla corrente sottraendolo
alla sua vista; sotto gli occhi della giovane la nebbia della Sala degli Stati
si dissipò in un batter di ciglia, infrangendo mille e più leggi meteorologiche
e lasciando che la luce del sole le baciasse la pelle.
Quando
si rese conto di ciò che stava realmente accadendo Serena balzò contro l'asse di
legno richiuso, facendo forza sulla maniglia per spalancarlo di nuovo, ma una
forza invisibile sembrava trattenerla dall'altra parte con una verve ben
maggiore di quella che il suo amico avrebbe potuto esercitare. Era il tempo
stesso a negarle il ritorno. «
FAMMI ENTRARE! FAMMI ENTRARE ORA! » sbraitò
prima di caricare la porta con una rincorsa, fallendo però nell'intento e
rimediando solo una spalla dolorante e un rinculo che la fece atterrare sul
pavimento di Fort de Vanitas. Fece per rialzarsi e riprovare con l'altro lato
del corpo quando una voce la fermò.
«
Serena? Serena, mi senti? ».
« Sì! »
esclamò la ragazza rizzandosi e provando ancora a forzare l'uscio senza
successo. Sferrò un pugno isterico all'uscio, sbattendo ripetutamente gli occhi
per ricacciarsi dentro le lacrime « Ti sento! ».
«
Io… Io non riesco a sentirti ».
La
replica affossò le speranze che aveva di rivederlo. Si inginocchiò, sfibrata per
i vani sforzi di tornare nella caverna, e appoggiò la testa e le mani alla
maniglia abbassandola senza successo. Esattamente come nessuno poteva udire
Omastar prima, ora lui e Bellocchio non potevano udire lei.
«
Spero comunque che questo messaggio ti arrivi » proseguì la voce invisibile
dell'uomo, addolorata eppure satura del suo tono usuale « Le rette si sono
separate di nuovo. L'incrocio è durato solo qualche giorno. Io sto bene, se ti
può interessare ».
Certo che mi interessa, cretino, gli
avrebbe detto se solo avesse potuto. La consapevolezza di non poterlo fare, di
non poter mai più rivolgergli la parola, le aggiunse un altro peso allo stomaco.
«
Non ti preoccupare per me. Io… Io troverò un altro incrocio, da qualche parte.
Chissà, magari ne uscirò con la barba bianca e senza capelli ».
Quella
singola pausa tra i due io diceva tutto su quanto lo stesso Bellocchio
credesse alle frottole che andava raccontando. Quanto pensava che fosse stupida?
Ci erano voluti trecento milioni di anni a Omastar per trovarne uno. Se mai ne
fosse uscito sarebbe stato non solo senza capelli, ma anche senza un solo altro
grammo di pelle avvinghiato al suo scheletro. L'immagine si materializzò nella
mente di Serena peggiorando la sua condizione, quindi decise di allontanare
rapidamente il pensiero.
«
Vorrei che tu mi facessi un favore » disse la voce, e la modulazione lasciò
intendere che quello era il termine del suo epitaffio. Un ultimo desiderio. «
Fai un bel viaggio. Fallo anche per me. Ci sono così tante cose da vedere, lì.
Non perderle solo perché non sono partito per Sinnoh quando avrei dovuto. E
sappi che mi dispiace di non avert–– ».
La
frase finale si spezzò a metà, rimanendo incompiuta. La porta si aprì proprio in
quel momento, libera dalle catene del tempo, rivelando dietro di sé uno sprazzo
della sala da pranzo del conte rischiarata dal sole. Serena non provò nemmeno a
rialzarsi: rimase afflosciata, le mani strette alla maniglia come fossero
ammanettate ad essa, lo sguardo perso nel vuoto e una smorfia di abbandono sul
volto.