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Autore: Night_    01/10/2014    2 recensioni
Takeshi era un guerriero. Un distruttore senza patria e senza scrupoli. Quelle sillabe... quel nome le apparve a dimensioni piccole piccole nella sua testa, fra tantissimi altri scritti più grandi, in modo quasi ingombrante.
Eppure, anche se era così minuscolo, era il primo che i suoi occhi della mente leggevano all'istante – brillava.
Genere: Azione, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Adesso fermati e respira, prendi quanta più aria possibile. Ottieni ciò che vuoi, fallo solo per te.

Yuki.

 

 

 

 

 

 

 

Ah, che peccato, non ci pensiamo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Dovrebbe pensarci più attentamente, secondo il mio parere».
L'aria umida e pungente dei sotterranei aveva ridotto ad una statua di ghiaccio l'umana che quei due vampiri si erano portati giù, come appendiabiti mobile, quando poi avrebbero dovuto levare le tende – quello era un momento dove la scaltrezza doveva essere attiva, tutto il tempo.
«Ha ragione ma, francamente, non credo mi interessi il tuo parere», era stata la risposta dell'altro, sibilata tra denti dritti e bianchi, con canini sporgenti e pronti all'utilizzo. Il vampiro portò lo sguardo sulle sbarre di quella cella; i sotterranei del Consiglio erano noti non solo per le basse temperature ma soprattutto per essere delle prigioni. Non venivano utilizzate granché – il ché rincuorava, a dirla tutta.
Un sorrisetto rivolto al prigioniero davanti agli occhi dei due vampiri, ossia, un terzo vampiro – celato nell'oscurità più recondita della sua casetta.
Se ne stava sdraiato su un lettino lercio, con le braccia dietro la testa come cuscino – essendone sprovvisto – e, stranamente, stava sorridendo anche lui... un sorriso davvero soddisfatto.
Anche se i capelli neri erano ormai arrivati alle spalle, dopo tanto che non li tagliava, anche se gli occhi erano contornati di rosso, anche se il corpo era decisamente scarno, dopo che non si era nutrito per mesi e mesi.
Ciononostante, sorrideva di gusto.
«Fatemi uscire di qui, avanti».

 

 

 

***

 

 

 

«Non toccarlo, è mio».
Bene, ora – c'era una certa domanda, un certo dubbio, che assillava la mente di Takeshi. Insomma, probabilmente, era la cosa più naturale da pensare in un attimo talmente assurdo, fuori dagli schemi più ovvi.
Quella ragazzina, quella Ai, era la famigerata sorellina di Yuki? Sul serio?
Più i tre umani la guardavano, meno la convinzione di faceva solida, più sbriciolava; francamente, non era facile dire cosa rendeva quella bambina totalmente diversa dall'albina; che fosse il colore di capelli? Oppure, quello strano attaccamento al pupazzo viola? O ancora, il carattere.
Mentre Takeshi e Yumi la guardavano, spaesati e dubbiosi, Hokori si era avvicinata, forse con l'intento di presentarsi – ed era finita a chiedere alla rossa di farle prendere il pupazzo.
Cosa se ne poteva fare un adolescente, meglio non chiederselo.
«Moccios--- hm, Ai... -chan?», articolò cautamente Hokori, forzandosi a sorridere. «Quanti anni hai?».
Per tutta risposta, Ai sollevò il viso con aria altezzosa, appoggiando una mano – piccola e bianca, come un fiocco di neve – sul fianco e lasciando penzolare il pupazzo lungo il fianco.
Tutta impettita, disse: «Tetsuya-san, puoi gentilmente liberarmi da questa ingombrante presenza? Oh, mi ha dato del tu, come nulla fosse... che seccatura. E dire che con quella faccia anonima, potrebbe essere scambiata per un manichino. Uff».
Annientamento dell'autostima in meno di cinque secondi – giusto il tempo di formulare qualche frasetta. E, accidenti, Takeshi e Sayumi non dovevano assolutamente ridere, se volevano tornare integri alle proprie case! Entrambi si ritrovarono a scambiarsi occhiate divertite, a respirare lentamente per trattenere la ridarella, a chiedersi se sarebbero volati dei tavoli – e invece!
Invece, Hokori, sembrava molto più calma... molto più... come se fosse stata pietrificata. Scioccata da quella che doveva essere una bambina
delle elementari – esattamente.

«E comunque, ho dodici anni, appena compiuti», aggiunse dopo una relativamente breve pausa, il timbro di voce graffiato farcito di orgoglio.
Dodici anni?, pensò Sayumi, battendo le palpebre. Beh, non è che lei, invece, dimostrasse realmente i suoi sedici anni, ma... wow.
«Senta, Ai-san», e Hokori era ripartita. Ad una velocità stordente, le sue dita avevano afferrato la cravatta dell'uniforme scolastica di Takeshi e quest'ultimo, all'improvviso, era trovato con un ginocchio a terra e l'altro alzato – e non era stato un atterraggio particolarmente piacevole, no.
Continuando, Hokori sorrise – perfida. «E questo qua, come ti sembra?».
Il viso del ragazzo era incredibilmente vicino a quello piccolo e immacolato della bambina. Le labbra di quest'ultima appena arricciate in una smorfia, come se trovasse tutto ciò molto irritante e sconveniente – lei!
E Tetsuya, aveva più o meno la stessa espressione, incluse sopracciglia inarcate. Sembrava infastidito. E Yumi se la rideva, allegramente, tra sé e sé.
Chi si divertiva, chi si sentiva disturbato.
E lui, eh?
Con i capelli che cadevano disordinati, gli occhi sorpresi e le labbra rosee, carnose e schiuse.
«... non è malaccio». Takeshi fissò la bambina, con uno scatto di incredulità. Aveva sentito bene? Non era malaccio. Poteva ritenersi fortunato, allora. «Ma trovo che Tetsuya sia molto, molto, ma molto, più bello. Non fartene una colpa, naturalmente, non tutti nascono sotto una buona stella».
Ah.
Ah.
Certo.
Molto, molto, ma molto – più bello.
Grazie a Dio, Hokori non aveva lasciato la sua cravatta... o i tavoli sarebbero volati per opera sua. Il fastidio, la pura irritazione, l'offesa, il veleno – ma a chi importava! Non importava agli altri e neanche a lui, quindi... beh, non era il tipo di persona che si offendeva per certe idiozie, quindi andava bene. Andava bene – ma ciononostante, nessuno gli impediva di liberarsi.
Ci volle solo uno scatto improvviso, verso l'alto, per alzarsi, e Hokori non lo teneva più per il guinzaglio. «Ehi, cosa---».
«Mi sono stufato, torno a casa mia». La voce fredda come il marmo, inscalfibile, arrivò chiaramente e nitida alle orecchie di tutti i presenti, forse addirittura all'interdetto inserviente dietro al bancone – colpa sua, di tutto, del suo litigio con Yuki.
Yuki... chissà dov'era e cosa stava facendo.
Con un sospiro significativo, il moro diede un'ultima occhiata a tutti, soffermandosi a specchiarsi nei laghi limpidi di Sayumi: sentiva di potersi fidare di lei. Per questo, le sorrise, con una nota di amarezza – e a giudicare dall'espressione intristita di lei, si erano compresi.
Ed eccolo che era già fuori, immerso nella calda luce del tramonto.
Eppure, era talmente malinconica, da non sembrare nemmeno una luce. Era da un po' di tempo che non si sentiva in colpa per qualcosa.
Una volta, commetteva azioni senza sentire niente, senza percepire nulla – né divertimento, né gioia, né dispiacere.
Era come se i suoi sensi fossero in modalità spenta. E adesso era lì, a camminare lento e assorto, con un'immagine fissa nella mente. L'espressione ferita di quella ragazza – i suoi occhi che si facevano acquosi.
Lui... aveva sbagliato.
«Ehi, aspetta! Volevo---». Una mano andò a toccare la spalla sinistra di Takeshi, facendolo sobbalzare appena. Cavolo, se era preso dai suoi pensieri!
Hokori aveva un piccolo sorriso e l'altra mano dietro il capo. Sembrava incerta. Sinceramente incerta.
«Cosa c'è?», disse Takeshi – voleva tornare a casa e basta. Quindi, meglio era sbrigativi e chi se ne importava, dopo.
«Volevo scusarmi con te, sono stata... », tentennò, indecisa su che parole usare. Abbassando gli occhi, continuò. «Sono stata insopportabile, ecco. Quindi, scusami».
Takeshi sgranò un po' lo sguardo cioccolato, piacevolmente sorpreso. Allora era capace di scuse. Anche se, c'era da dirlo, sembrava un po' arrugginita! Sorrise, annuendo leggermente. «Non era niente».
Hokori si strinse nelle spalle, accentuando il sorriso. «Posso.. fare un pezzo di strada con te, Katugawa?».
Hm.
«Sì, dai. Un po' di compagnia non fa male, spero», rispose lui, girandosi verso la strada per riprendere a camminare. Sospirando di sollievo, Hokori lo affiancò, camminando a passi un po' più larghi per tenere il passo con lui.
«... Takeshi, in ogni caso».
«Come?».
«Puoi chiamarmi Takeshi».

 

 

 

 

***

 

 

 

Sì, perché non chiamarlo per nome? Aveva un così bel nome, così dolce e, al contempo, trasmetteva forza. Sembrava essere in grado di proteggerti da ogni cosa, da ogni dolore.
Era proprio un bel nome. Tanto valeva usarlo, no?
Yuki era d'accordo. Yuki aveva già detto: “Esatto, Yamashita, chiamalo “Takeshi”.
Dannazione, perché non era tornata a casa...

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Quella mattina, sembrava una tela; una tela completamente bianca che avrebbe dovuto essere costellata di neve del medesimo colore e, invece, era tinta di asfalto. Grigia, grigia mattina. In tutti i sensi. Alzarsi quel giorno era stato davvero difficile visto che, sia dal lato meteorologico che da quello umoristico, l'albina non era proprio in vena.
Hokori frequentava la loro scuola; a quanto pare, aveva cercato di farsi infilare nella classe di Yuki e Sayumi, ma non ci era riuscita ed era finita in... quella... nella “classe in fondo”, ecco. La mezzosangue nemmeno voleva sapere dove sedesse, chi le aveva prestato i libri all'inzio – quando lei era sprovvista.
Meglio non domandarsi, meglio non chiedere alla diretta interessata. Anche se, proprio adesso, ce l'aveva davanti. E sorrideva, tutta fiera di sé, perché aveva appena annunciato di essere diventata amica di Takeshi Katugawa – ahah, povera lei.
La poveretta non sapeva che genere di persona fosse davvero Takeshi e che soffriva di qualche strana malattia legata allo stalking. Forse l'avrebbe scoperto ad impattoBeh, tanto meglio.
«Vorrei tornare in quella gelateria, con lui, visto che l'ultima volta non abbiamo... », diceva, parlava, blaterava.
Raccontava – anche se sia Yuki che Yumi davvero, non ne volevano sapere – di come lui incrociasse le braccia sul banco e poggiasse lì la testa, per poi addormentarsi; raccontava di come gli piacessero i panini con le polpette; raccontava di quando lo aveva visto mangiucchiare famelico il cappuccio della penna, un'ora prima di quella del pranzo.
Raccontava, raccontava.
E rideva, tutta felice.
Dannazione – dannazionedannazionedannazione.
Ai non fu nominata. Almeno per il momento, anche se Sayumi voleva fare qualche domanda sulla bambina a Yuki – ma aveva visto il suo sguardo e aveva scosso la testa, semplicemente. E allo scoccare della seguente ora, finalmente – finalmente! – Hokori si era incamminata per la propria classe, non prima di aver sorriso, definendosi infinitamente grata verso l'albina per averglielo “presentato”.
Sì. Certo. Ah-a.
Gli istinti omicidi salivano sempre di più, in ogni caso, e chi lo sa, un giorno avrebbe esaudito i loro desideri di sangue. Chi lo sa – rientrarono in classe.
In silenzio, la testa immersa nei propri pensieri, ormai era tornata al suo posto – le sembrava un'ancora gelida di salvezza. La sedia era davvero fredda, eppure erano a Maggio, ormai.
«Prendete il libro e aprite a pagina... two hundred six», la pronuncia pressoché perfetta del professore Okamoto raccolse, quasi come un cucchiaio, l'attenzione della bella albina.
Doveva prendere il libro e concentrarsi sulla lezione. L'inglese era importante. Al contrario di---
«Akawa-san, leggi, per favore», disse Okamoto, appoggiando le mani sulla scrivania. E Yuki annuì, infilando le mani sotto il proprio banco, alla ricerca celere del libro – ah, eccolo.
Ma c'era qualcosa o... si sbagliava? Le sue dita toccavano altra carta, un quadrato di carta.
Fece scivolare libro e pezzetto di carta verso di sé e---.
L'inglese aveva importanza.
Ma anche quel biglietto.
Ci vediamo sotto al ponte, Principessa”.

 



 

***

 

 

 

Ci vediamo sotto al ponte, Principessa”.
Mai frase fu meno informativa.
Chi era? Quale ponte? A che ora? Perché?
Fare un simile invito a Yuki Akawa era stato alquanto stupido, se non completamente privo di senso; almeno, la stupidità è dettata da un problema che
affligge il cervello e non permette ad esso di lavorare come si deve: l'assenza di logica, era una cosa nettamente fatta a caso. 
Così la pensava lei.
«Ponte, eh?», mormorava Yumi, una mano al mento, pensierosa. «Beh, c'è solo... un possibile ponte, se escludiamo i due piccoli ponti che portano ai templi».
Yuki si guardò le unghie, inespressiva. «E dove si trova?».
«Hm, sai, hai presente quel fiume... ?», disse l'altra.
Fiume? Fiume..., pensò l'albina, alzando lo sguardo per fissare l'amica – la fronte corrugata. Fiume. Fiume! Ma certo.
Si ricordava dell'esistenza di un fiume... era lo stesso di cui aveva parlato con Takeshi, immaginava lei. Pare che al moro piacesse tanto; quando Yuki fu costretta a chiamare gli addetti, per via di quel vampiro infiltratosi nella scuola, i due si erano messi a chiacchierare del più e del meno: e lui gli aveva parlato di quel fiume. Poi, beh, erano cominciate le domande sul vampiro e su cosa avrebbe dovuto fare lei.
E comunque...
… 'ddio, se era nervosa! Un fascio di nervi!
Non aveva idea di chi o cosa stesse per incontrare e, per quanto ne sapeva, poteva benissimo trattarsi di un vampiro o di un demone.
Un brivido accarezzò la schiena della mezzosangue, toccando ogni vertebra con attenzione, lambendo le più piccole. Non doveva pensarci – tanto valeva andarci e poi tornare indietro. Forse era un ragazzo che voleva dichiararsi all'albina.
«Ah! Ha cominciato a piovere... », esclamò Sayumi, lo sguardo sulle finestre.
Yuki fece lo stesso.
L'odore della pioggia filtrava sui vetri e giungeva nella classe, a riempire l'ambiente riscaldato dai termosifoni, regalando una leggera umidità. Batteva ritmica sui vetri, sulle sporgenze dell'edificio e i davanzali. Sembrava un orologio elementare.
Tanti microscopici ticchetti – tick, tack.
Sarebbe rimasta per ore a guardare lo scendere di quelle gocce, spiattellarsi a terra e perdersi sull'asfalto – era tranquillo. Era come una ninna nanna cantata a labbra chiuse, nel bel mezzo della notte, quando sei colto da un'incredibile agitazione.
Era rilassante.
«Yuuuuuuuuuuuuuki-chan! Pensi di restare qui ancora per molto?».
E boom, quasi era caduta dalla sedia, – stupida pioggia ipnotica – di fronte alle otto ottave di voce di Sayumi, i pugni sui fianchi e un sopracciglio alto.
«Scusa, andiamo».
Ed ecco che stava camminando, priva di ombrello, per le strade impregnate d'acqua del paese, da sola. Aveva lasciato Sayumi a casa sua, al negozio, e aveva intrapreso la via più coperta per raggiungere il tanto temuto ponte.
Non manca poi tanto.
Giusto una decina di metri e sarebbe giunta – avrebbe capito. Sperava non fosse nessuno di chissà quanto “importante” e altolocato, perché non aveva voglia di presentarsi infradiciata com'era, la divisa attaccata al corpo, i capelli sulla fronte e le guance arrossate, le ciglia che gocciolavano.
'ccidenti, come era conciata.
Uscì dal suo riparo – un ampio balcone di un appartamento – e cominciò a correre, battendo i tacchi dei suoi stivali sul pavimento e, una volta scese le scale che portavano sotto, il rumore venne attutito dal terreno bagnato.
Ecco, era arrivata.
Oh, pare che fosse un po' in ritardo... perché in lontananza c'era una figura. 
Sorrise, un largo e luminoso sorriso.
Era Takeshi.
Riprese a correre – doveva raggiungerlo.
… o forse no. Sembrava impegnato.
Sembrava...
«Ah... ».
… che stesse baciando Hokori.

 

 

 

 

 

NOTE DELL'AUTRICE:

E io boh, è stato un parto, ma posso dire di essere soddisfatta... e triste. Hm. Non sono al massimo della forma, no, direi proprio per niente.

Ma vabbé, non ci pensiamo e godiamoci Vampire Devil, va bene? ~

  
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