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Autore: Night_    04/10/2014    1 recensioni
Takeshi era un guerriero. Un distruttore senza patria e senza scrupoli. Quelle sillabe... quel nome le apparve a dimensioni piccole piccole nella sua testa, fra tantissimi altri scritti più grandi, in modo quasi ingombrante.
Eppure, anche se era così minuscolo, era il primo che i suoi occhi della mente leggevano all'istante – brillava.
Genere: Azione, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Forse stavo iniziando ad arrendermi al destino che ogni demone, prima o poi, riscontra.

La disperazione.

Yuki.

 

 

 

 

 

 

Gli occhi dell'indifferenza

 

 

 

 

 

 


 

 

 

«Sai, la tua mamma ha incontrato un'umana, quando era ancora una ragazzina... questa donna, era una mamma anche lei. Se ne stava seduta a terra con imbraccio – proprio come sto tenendo io te! – un bambino molto molto piccolo, un neonato. Lo teneva stretto stretto, contro il suo petto e guardava il cielo. Respirava sulla sua fronte.
Lo sai perché faceva una cosa simile?
Perché era notte fonda ed era inverno. Vedi? Gli umani sono delle buone creature!».

 

 

 

***

 

 

 

Gli umani sono delle buone creature. Gli umani sono gentili, gli umani sono dei sognatori; gli umani salvano se stessi e gli altri; gli umani ti sorridono con calore e ti insegnano ad amare. Poi, ti fanno amare – ti fanno credere e sognare senza dormire.
Questo, Yuki Akawa, dna vampirico e demoniaco mischiato, figlia di Kazumi Akawa e Oseroth Akawa, lo sapeva benissimo. L'aveva scoperto da piccolissima, fra le braccia della sua mamma e ne aveva appurato la verità da adolescente.
Ma quella donna aveva omesso quanto potessero essere... distruttivi.
Un bacio.
Cos'era un bacio, di fronte ai suoi occhi, se non il contatto ravvicinato di labbra, parti rilevanti del corpo? Sayumi le aveva detto la sua opinione, nel bel mezzo delle loro chiacchierate sul terrazzo, durante un pranzo troppo rapido.
«Tecnicamente, è quello che hai detto tu, ma», rise. «è anche uno scambio di saliva. E di batteri. Non sembra il massimo!».
I batteri facevano schifo a tutte e due e quindi, Yuki, pensava che l'amica fosse d'accordo con lei sull'inutilità di quel contatto. Ma non era così. «Però sai!», riprese. «E' anche una scarica di adrenalina per tutto il corpo. E' anche un momento in cui ti senti terribilmente amata, al sicuro... con qualcuno. Non sei sola».
Se solo Sayumi non le avesse detto quelle cose.
Se solo lei fosse tornata direttamente a casa propria, senza dar corda a quel biglietto spuntato dal nulla, allora, forse, adesso non si troverebbe sotto una pioggia battente.
Adesso non starebbe guardando ciò che--- aveva di fronte agli occhi, spiattellato con bruschezza, con tutta la prepotenza possibile.
E voleva correre via.
Voleva fare dietrofront e scivolare per quelle strade intrise d'acqua, tornare nel suo regno notturno e cercare Ai, perché Ai l'avrebbe abbracciata, le avrebbe dato della scema e poi consolata come lei sapeva fare.
«Yuki... ».
Accidenti... i suoi occhi erano già pieni di lacrime...
«Vieni qui... ».
«Tetsu... portami via».

 

 

 

***

 


 

Le sue dita scendevano lentamente lungo quelle pallide guance e premevano, sempre più forte, sempre più veementi, come se con quel gesto potesse scavare dentro il suo viso di una bellezza immutabile privo di imperfezioni.
Il volto dell'irritante perfezione.
Tempo addietro, non le era stato bellamente dato quell'appellativo? Sì, certo – l'avevano fatto. Solo che lei l'aveva rimosso: e non era stato facile – per niente. Lei aveva semplicemente dimenticato ogni cosa; quel “nome”, quella beffa, il loro tono rabbioso. E tutto questo, rinchiudendosi nella sua gelida e buia stanza, con le mani nei capelli, gli occhi chiusi e le labbra che sanguinavano leggermente.
Adottare quella tattica era doloroso. Doloroso per la sua gola, per la sua nutrizione – già, perché si era tenuta a distanza dalla sua dolce sorellina.
E dalle sue vittime, certo; e sinceramente, qualora le venisse domandato se, mentre tagliava loro la gola, avesse provato una qualche sorta di dispiacere, lei si sarebbe limitata ad una scrollata di spalle.
Solo che non capiva-- perché tutti quei ricordi come una valanga di neve? Si stava rendendo conto di qualcosa? - con quella scena stampata nitida nella sua mente.
Ah.
Ah, forse, stava facendo caso che – cavolo, era sola? Era tutto andato. Era tutto sfuggito dalle sue dita e adesso, brandendo un coraggio che non possedeva né desiderava, doveva combattere i propri incubi. Con la strisciante disperazione che si infilava nel suo petto.
Nemmeno si rendeva conto dei puntini rossi, del suo sangue, che usciva dai tagli delle sue unghie su una pelle forse troppo delicata per un'anima tormentata.
«Onee... chan?». Era stato un bisbiglio, lanciato nell'oscurità, che subito si era fuso con le ombre della stanza – Yuki l'aveva sentito.
«Onee-chan».
Finalmente, aveva alzato la testa dalle ginocchia, il volto cereo e i capelli argentati scompigliati – ciuffi cadenti sugli occhi, ciuffi verso l'alto. La sua piccola e ancora innocente Ai.
In piedi, con la schiena appoggiata alla porta e dipinta sul volto un'espressione fredda come un muro di ghiaccio impenetrabile.
«Non va bene», sibilò la bambina. «Non va davvero bene».
Quieta, si staccò dalla porta di legno per avanzare fino al fianco della sorella sedicenne. Yuki levò – non sapeva nemmeno come – gli occhi, cerchiati di rosso, con le palpebre semi aperte. Pulsavano come tizzoni ardenti. Voleva parlare.
Voleva dire qualcosa e, allora, aprì la bocca – ma nessun suono uscì. Niente che sembrò davvero somigliante ad una frase, ad una parola, a qualcosa – insomma! Poteva solo seguire con lo sguardo la piccola rossa salire sul letto e accoccolarsi vicino a lei, il capo posato contro il suo braccio. E da quella maledetta attenzione riusciva a scorgere più che bene la clavicola e quella piccola parte di collo. Riusciva a intravedere le vene pulsare sangue ritmicamente, come una melodia nervosa, instancabile.
Era affascinante.
«Non ricordavo di avere una sorella così... », attese un attimo, corrugando la fronte come se le costasse parlarle. «... debole!». E scosse il capo, piano. «Capirlo è... doloroso, in un certo sen--».
«Niente è così scontato!». Un ringhio. Era ancora allo stato bestia, ma per lo meno, aveva cacciato suoni e parole. Aveva parlato. Il tutto, in un impeto di rabbia e frustrazione, perché si sentiva una sorella incapace – e non voleva. E poi.
E poi: non voleva apparire forte.
Ai sorrise. «Non è esatto. Sei tu che ti sei mostrata talmente indistruttibile da renderlo vero».
La mezzosangue maggiore digrignò i denti ed eccoli, i canini brillanti come diamanti, esercitare pressione sopra gli altri denti. Quasi stavano per spaccarli.
«Cosa dovrei fare, allora?», disse. «Piagnucolare come una comunissima umana ai piedi dei nostri amorevoli genitori? E credi che servirebbe a qualcosa, Ai?». Il suo tono era aggressivo, irruento come tsunami.
Il suo era il tono di una sopravvissuta.
«Capirebbero». Lo sguardo della rossa, del medesimo colore di Yuki, finì a posarsi su di lei – sospirò.
Ma Yuki scosse la testa, inarcando le sopracciglia chiare fino a dare vita ad un solco fra di esse, segno che era davvero certa. Li conosceva. Kazumi Akawa e Oseroth Akawa, i suoi genitori, i suoi creatori, i suoi carcerieri. Conosceva tutti e due.
Incrociò lo sguardo della bambina – malinconico, vinto – con le iridi, ricolme di sangue. 
Non si mossero. 
Aspettando in un cedimento, un gesto che dicesse: «Hai vinto», e poi, come succede per ogni competizione, ricevere il proprio premio.
Ed eccolo! – il cedimento. Ai si strinse nelle spalle e Yuki allungò la mano verso il viso bianco e piccolo di lei – e già alzava il mento, consapevole com'era sempre stata.
In un istante, i denti furono scoperti e affondati nel collo della bambina. Quest'ultima irrigidì tutti i muscoli, in allerta, e si lasciò avvolgere dalle braccia di Yuki.
Le sembrarono così fredde.
Così... prive di vita.

 

 

 

***

 

 

 

«... awa... Katu... Katugawa!».
Takeshi mosse il capo in avanti, scattante, quasi cadendo all'indietro dalla sedia su cui era mollemente stravaccato – con tanto di cucino dietro la nuca e cioè, le sue braccia incrociate. Non si può nemmeno dormire in pace, pensò, mentre si passava una mano fra i filamenti color cioccolato fuso e cercava di dar loro una forma, un senso – sotto uno sguardo rassegnato e innervosito.
Takeshi non poteva che essergli d'accordo. Si sarebbe preso a schiaffi.
«Che c'è, Kazuki?», sbuffò, lasciandosi ricadere sullo schienale. Kazuki tenne gli occhi fissi sul ragazzo per un po', forse arrivò ad un minuto, per poi chiudere le palpebre.
Sembrata concentrato a esaminare...
«Stavo per chiederti una cosa su Akawa», gettò una rapida occhiata al moro. «ma visto e considerato come sei saltato dalla sedia – adesso, in questo preciso istante –, credo che rimanderò».
Pft. Doveva dire che era carino, Kazuki, a preoccuparsi per lui ma... non gli interessavano le premure di un ragazzo, anche se era così tenero! Sospirò, socchiudendo le palpebre – pesanti, davvero. «Dimmi».
«Ne sei sicuro?».
«Spara».
Tentennò. «Beh... quand'è... il compleanno di Akawa?».
Takeshi aprì occhi e labbra.
Ecco che sensazioni di stordimento, sorpresa e gelosia lo invasero, puntandogli fucili al petto; e non si spiegava perché si stesse regalando il diritto di provare qualcosa quando si nominava il suo nome. Quel diritto era diventato cenere quando aveva capito – lui, la portava alla distruzione.
Stava distruggendo Yuki Akawa.
«Katugawa?».
Ah!
Doveva rispondere. In teoria, non c'erano problemi a dire una banalità come il suo compleanno, no? Non gli ha chiesto mica se poteva accompagnarlo a comprare un anello di fidanzamento. E poi... e poi, in teoria, lui e Yuki non erano più niente. In teoria, Hokori e lui... beh, l'aveva baciata, dopotutto.
«A cosa ti serve quest'informazione?», francamente? Lui e Yuki non si erano nemmeno avviati.
Ecco.
«Vorrei farle un regalo. Tutto qui», rispose Kazuki, stringendosi nelle spalle.
Un regalo. Perché Kazuki voleva fare un regalo a quella spietata, acida, fredda, lunatica, meravigliosa, coraggiosa, intelligente, generosa, determinata... mezzosangue?
Perché non voleva rispondere?
«Due Dicembre», sussurrò Takeshi. Si alzò, in tutta fretta, aggrottando la fronte. «Ma ti consiglio vivamente di lasciar perdere qualsiasi buona intenzione nei confronti di quella tipaccia. Esperienza personale».
Il compagno rise brevemente, ringraziandolo per la risposta che, sicuramente, gli era pesata un sacco. Takeshi scosse la testa. «Ma no».
Ma sì.
Alzò il polso destro: mancava qualche minuto all'inizio delle lezioni. Non aveva visto, da quando era arrivato a scuola, né l'albina né la rosa; aveva imparato che se incrociava una delle due, allora c'era sicuramente l'altra.
Sembrano gemelle, pensava, mentre varcava l'uscita dalla classe e sbucava nel corridoio, anche se di carattere sono come dolci e frutta: l'opposto.
Il corridoio era stracolmo di studenti; Takeshi pensò che non avevano fretta di dirigersi nelle proprie aule – senpai inclusi – se erano ancora lì a chiacchierare e che fossero particolarmente fastidiose le loro voci ammassate. Cominciò a camminare, attraversando la folla.
Al suo passaggio, si scansavano come se fosse fatto di fuoco; le ragazze lo mangiavano con occhi languidi e i ragazzi osservavano cautamente i suoi gesti. Talmente tanta gente – si rese conto che la frase “Essere soli in una stanza piena di persone” era reale.
Reale come la sua frustrazione.
Si guardò attorno. Tanti volti, tante maschere, vuoti; la bocca, il naso, gli occhi, le sopracciglia, i capelli – vuoto. Erano volti dell'indifferenza.
Si passò una mano tra i capelli, coltivano la speranza che il solito gesto potesse rassicurarlo. Ma – ma non poteva accadere. 
Guardò avanti, ad una decina di metri, una figura. La conosceva, certo che la conosceva.
La bramava, quella figura.
Ne aveva imparato i contorni e i difetti – eppure. Eppure, era irriconoscibile. Perché quegli stessi contorni che tanto pensava di sapere, ora erano illuminati da un'aura nera che si agitava, come se essa fosse l'insieme di lingue di fuoco.
Invisibile, impalpabile, doloroso solo per chi se le portava addosso.
Neanche la fulgida e lunga chioma argentea riusciva a illuminarla.
No – non poteva crederlo.
Gli occhi di lui si sgranarono, terrorizzati, disorientati.
Gli occhi di lei incrociarono i suoi, impassibili, inespressivi.
E un infinito brivido gli artigliò la carne.

 

 

 

 

 

NOTA DELL'AUTRICE:
Uuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuhm.
Beh.
Ecco. AH. Non ho molto da dire, a dirla tutta, se non... MADO' A CHE TRISTEZZA QUESTO CAPITOLO. Ceh, mi sono depressa a scriverlo, ci rendiamo conto? oAo
Beh, in ogni caso, mi rendo sempre più conto di trovarmi tristemente bene a scrivere questo genere di cose... :]
Sono una depressa cronica, yay. <3


E vbb.
Non ho altro da dire, a parte che school sucks e che Domenica ((quindi domani, yuuup)) sarò felicemente al Romics! *^*
Ah, mi piacerebbe incontrare e ringraziare chi mi legge e addirittura si prende la briga di recensirmi... PECCATO CHE NON SAPPIAMO COME SI SIAMO FATTI. ((wutwut))
Beh, il Romics comunque è anche il motivo per la quale ho deciso di pubblicare oggi il capitolo.

Perché non voglio rischiare di finire male con gli orari e avrò da fare, nei prossimi giorni. Love me.

 

Night, ovviamente con affetto

  
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