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Autore: _Frame_    04/10/2014    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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6. Mari in burrasca e Fiumi di folla

 


L’onda spumeggiante s’infranse su uno scoglio, imbevette il fitto strato di alghe scure e spugnose, e si ritirò nell’oceano. Il mare gonfiò un altro cavallone che si elevò fin sulla parete della scogliera. La cresta dell’onda s’infranse sulla linea scura già segnata sulle rocce. Due gabbiani si posarono sullo scoglio più alto e infilarono il becco tra i fori straripanti di acqua salmastra. Uno di loro estrasse un piccolo paguro che ancora si dimenava e volò via. L’altro spalancò il becco, emettendo un verso acuto, e lo inseguì.

Germania camminò fino al bordo del promontorio. Il suo piede sbriciolò un grumo di roccia che precipitò nella sottile baia sommersa dall’alta marea. Un tonfo sordo, e i piccoli schizzi si persero nel vento.

Germania si strinse la giacca fin sotto il mento. I lembi della stoffa sventolavano attorno alle caviglie. “L’attacco ha avuto esiti positivi.” Levò gli occhi sul cielo grigio, freddo. I due gabbiani stavano volando attorno a una nuvola, trascinati dal vento. “Ora che Spagna si è reso neutrale, sappiamo di avere un problema in meno per quanto riguarda un futuro assetto. Non ne è uscito illeso, ma almeno è sopravvissuto.”

Germania ruotò lo sguardo, freddo come l’aria che vorticava attorno a lui. Il colletto della giacca premuto sulla guancia. “Così abbiamo conferma dell’efficienza del nuovo sistema di aviazione.”

Giappone fece un passo avanti. Anche lui si mise sul bordo della scogliera, di fianco a Germania. I suoi occhi scuri guardavano la spuma bianca che si rimescolava nelle acque nere. Gli schianti dell’acqua tra le rocce frastagliate, le grida dei gabbiani e l’ululato del vento. Il Pacifico in tempesta.

“Era solo per questo che Germania-san ha attaccato Spagna?”

Germania aggrottò un sopracciglio. Gli occhi di ghiaccio rifletterono l’oceano. “In parte è dovuto al disordine causato dalla sua guerra civile,” disse. “Diciamo di aver colto la palla al balzo per questo esperimento.”

L’aria lo travolse, un boato accompagnò lo schianto di un’onda sulla costa, e Germania rabbrividì. Le mani che stringevano gli orli della giacca tremavano, nonostante i guanti. Il viso impallidì per un attimo, e gli occhi si spensero.

“Comunque abbiamo avuto una risposta positiva da entrambi i lati. Spagna non sarà più un nostro problema e la flotta aerea è funzionale per massicci attacchi ad ampia area.”

“Capisco. Quindi...” Giappone sollevò gli occhi verso Germania. Neri e profondi come quell’oceano. “Germania-san ha preso la decisione di combattere?”

Un lampo attraversò lo sguardo di Germania. Lui sollevò il capo verso Giappone e gli rivolse un’occhiata rigida, ma confusa. Giappone tornò a guardare l’orizzonte. Espressione impietrita, quasi vuota. I capelli mossi dal vento gli coprirono le guance.

“Se il vero obiettivo di Germania-san era la sperimentazione della flotta aerea, significa che le sue intenzioni sono quelle di riprendere in mano una battaglia.”

Germania abbassò le palpebre. Una piega di afflizione gli attraversò lo sguardo. La rivolse all’oceano.

“Rivoglio i territori, nient’altro. Se questo significa lottare per averli,” si gonfiò il petto, inspirando la densa e fredda acqua salmastra, intrisa dell’odore delle alghe, “allora non mi fermerò. Sono stato... fermo per troppo tempo. Tu fra tutti dovresti essere quello che riesce più a comprendere le mie intenzioni.” Sollevò un sopracciglio e gli lanciò un’occhiata che Giappone non ricambiò. “Soprattutto dopo quello che è capitato con Cina.”

Giappone rimase impassibile. Una statua di pietra nel mezzo della tempesta. Non una piega, non un battito di ciglia. Le mani rigide dietro la schiena e i capelli che si agitavano attorno al viso volto verso il Pacifico.

“I miei rapporti con Cina si sono...” Il vento ribaltò una ciocca carbone davanti a uno degli occhi. I capelli volarono subito via. “Accesi. Mi sono semplicemente fatto onore nel mezzo di un campo di battaglia, ed è stato proprio l’onore che a Cina è mancato che mi ha permesso di prevalere su di lui. La sua condotta è stata...” Un’onda s’infranse sul basso promontorio, sotto i loro piedi. Giappone aspettò che il cavallone di schiuma si ritirasse e che il suono dello schianto venisse inghiottito dalle acque. “Deludente e infamante. Se io mi fossi trovato al posto suo, dopo aver tenuto un atteggiamento di simile debolezza, non avrei trovato più alcuna ragione per preservare la mia esistenza.”

Un altro brivido scosse Germania. Lui continuò a fissare il mare. Una grande bocca senza fondo pronta a trascinare Giappone negli abissi del suo stomaco. Gli occhi di Germania caddero sui piedi dell’altro. Così vicini al bordo, la roccia così cedevole, e quello sguardo inscalfibile. Come il suo animo.

Sì, lui ne sarebbe capace.

“Ora ho ripreso posizione nel Pacifico,” disse Giappone. “Facendo appello al nostro accordo, Germania-san può considerarsi protetto anche su questo fronte.”

“Sì, ma anche America condivide le tue stesse posizioni.”

Le nuvole in lontananza si fecero più scure, color piombo, e toccarono l’orizzonte dell’oceano.

“E le sue basi nel Pacifico entrerebbero in conflitto con le tue. So che America non ha cervello, ma la differenza quantitativa e potenziale tra voi due rimane comunque un numero alto.”

“Posso resistergli,” disse Giappone. “Il mio esercito era di dimensioni inferiori anche rispetto a quello di Cina, ma ciò non mi ha impedito di ottenere una vittoria totale.”

Germania piegò verso il basso un angolo delle labbra e storse il naso. La burrasca pareva risucchiargli lo sguardo, le onde scure si riflettevano nelle iridi cristalline.

“Germania-san.”

Germania si voltò. Giappone aveva sollevato lo sguardo, e lo fissava dritto negli occhi.

“Morirei, prima di abbandonare un campo di battaglia, e il mio onore morirebbe con me la volta in cui sarei costretto a soccombere.” Gli occhi scuri tornarono a risucchiare l’immagine dell’oceano. “Ma non deluderò Germania-san, e farò sempre del mio meglio, mettendocela tutta per uscirne vincitore.”

Germania fece un piccolo sospiro. Il viso tirato si ammorbidì leggermente. “Ne sono sicuro.”

Il primo ramo di fulmine tagliò in due una nuvola e toccò la linea dell’orizzonte. Il rombo gorgogliò nel cielo agitato dalla tempesta. Il vento gelido sollevò un vortice di sabbia attorno ai piedi dei due. Un’onda più alta si schiantò sullo scoglio e gli schizzi spruzzarono sulle guance di Germania. Lui fece un passo indietro e si tenne il viso coperto con il colletto della giacca.

“Ho letto sui giornali dell’accordo preso con Polonia,” disse Giappone. Per un attimo, un suo sopracciglio ebbe un lieve fremito. “Non oso intromettermi ma, se posso permettermi, perché Germania-san ha stretto un accordo di non belligeranza con nazioni che...”

Il vento sembrò portarsi via le parole. Giappone non finì la frase e Germania divenne più rigido di lui. Germania sollevò il mento e indurì lo sguardo. Il corpo immobile come quello di Giappone.

“Polonia mantiene tuttora dei rapporti anche con Inghilterra e Francia,” disse Germania. “Ha la loro protezione, e per questo anche loro si sono messi in guardia nei miei confronti. Guadagnarmi la fiducia di Polonia è solo un metodo per non indurli a sospettare di me. Polonia è... ” Germania scostò il capo di lato. Il suo viso assunse una piega scura che gli stropicciò la pelle della fronte. Gli occhi freddi e sottili come spilli di ghiaccio. “È un imbecille, e gli atteggiamenti che ha preso nei confronti di un territorio che per diritto mi appartiene sono da sedare quanto prima possibile. Ma non devo dargli nemmeno l’idea di una possibile invasione da parte mia.” Si strinse le spalle, il tono di voce si aggravò. “Ecco il perché del patto.”

“E Russia-san?”

Germania aggrottò la fronte. Si voltò verso Giappone e lui gli rivolse un’occhiata inespressiva.

“Se Germania-san attacca Polonia, lui potrebbe... ”

“Con Russia ho già in progetto di sistemare le cose.” Germania alzò lo sguardo al cielo e il vento gli scompigliò i capelli sulla fronte. “Così saremo protetti su ambo i fronti. Però prima devo...”

Le nuvole sopra di lui si addensarono, si rimescolarono tutte nello spicchio di cielo sopra le loro teste. Lo sguardo imperturbabile di Germania si sciolse, gli occhi si alzarono, brillando in mezzo al buio. Germania tuffò le mani nelle tasche della giacca e si strinse le spalle. Lo sguardo alto non si scollava dal cielo.

“Devo occuparmi di un’altra persona.” Una sfumatura malinconica gli velò il viso.

Giappone ebbe un primo attimo di esitazione. Sbatté le palpebre, gli occhi vuoti brillarono come quelli di Germania. Giappone separò leggermente le labbra e un’altra ventata d’aria gli fece agitare i capelli sul viso.

“Si tratta di... Italia-kun?”

Germania non rispose. Le mani affondate nelle tasche si strinsero a pugno. Nonostante la fitta allo stomaco, Germania rimase a mento alto, e petto gonfio. Gli occhi fissi al cielo sembravano stessero cercando qualcosa tra le nubi.

Giappone piegò lievemente le sopracciglia. “Germania-san, sei sicuro che una collaborazione di Italia-kun possa giovare?”

“No.”

Giappone sobbalzò. Sbarrò le palpebre e tornò a irrigidirsi. Germania arricciò verso l’alto un angolo della bocca, le sopracciglia si sollevarono, distendendo l’arco del sorriso. La voce di Germania si ammorbidì, trasportata dal vento.

“Forse non è quello il vero motivo per cui sto chiedendo la collaborazione di Italia.”

Giappone rilassò il volto. Stese le mani dietro la schiena e voltò lo sguardo interrogativo verso Germania. Le nuvole borbottarono dietro di lui.

“So che mi ha voltato le spalle,” disse Germania. “Ma se è successo, è stato solo perché io gli ho dato un buon motivo per farlo.” Gli occhi di Germania si abbassarono, tristi. “Anche il mio atteggiamento nei suoi confronti è stato imperdonabile.”

Giappone sbatté di nuovo le palpebre, le labbra ancora separate. Prese un sospiro, e il primo piccolo sorriso gli segnò il volto. Dolce e naturale come una carezza.

“Germania-san è ancora... molto legato a Italia-kun?”

Germania irrigidì. Il viso pallido riprese colorito, le labbra traballarono, vacillanti insieme allo sguardo. Germania accostò una mano dietro la nuca e sfregò le dita tra i capelli. Distolse lo sguardo da Giappone, stringendosi di più nella stoffa della giacca.

“Si è già tenuto un incontro per discuterne, ma...” Sospiro profondo. “Ho mandato Prussia. Non so neanche se avrò il coraggio di guardare Italia negli occhi, quando lo vedrò.”

Lo sguardo di Giappone rimase fisso sulla schiena di Germania che gli dava le spalle. Il vento soffiò su entrambi e trascinò le parole del tedesco.

“Forse è lui la mia unica debolezza.”

 

♦♦♦

 

22 maggio 1939, Berlino

 

Italia premette i palmi delle mani sul finestrino dell’auto. Ci schiacciò sopra la punta del naso e la fronte, formando un velo di condensa sul sottile vetro. L’auto aveva rallentato. Alberi e vaste distese d’erba scura erano stati seppelliti da cumuli di case in pietra con fitti steccati attorno ai giardini coltivati. Ora, i palazzi facevano ombra sulle strade asfaltate.

Italia sollevò gli occhi da dietro il finestrino per vederne la cima e il sole lo abbagliò.

“Siamo arrivati?” chiese.

L’autista guardò entrambi i lati dell’incrocio e svoltò a sinistra. L’auto imboccò una strada più ampia, fiancheggiata da siepi.

“Sì, Mein Herr, siamo a Berlino.”

La folla sulla strada si fece più fitta.

Italia spalancò gli occhi lucidi di meraviglia e prese un forte sospiro di sollievo. “Finalmente!”

Si scollò dal vetro e tese la mano verso l’altro lato del sedile posteriore. Agguantò un lembo della giacca di Romano e lo strattonò.

“Hai sentito che bello, Romano? Siamo arrivati!”

Romano sbuffò via un ciuffo di capelli dalla fronte. Fece roteare gli occhi e si appoggiò con una spalla al suo finestrino. Le braccia conserte al petto, la schiena rigida. Romano fece una smorfia annoiata. “Evviva.” Voce piatta. Una nota infastidita suonò tra le parole.

Italia non ci fece caso. Si sporse in avanti e si aggrappò alle spalle del sedile del conducente. Tese in avanti il collo fino a parlare nell’orecchio dell’uomo. “Possiamo scendere, ora?”

Il conducente scosse il capo. “No, Mein Herr, ho l’ordine di scortarvi presso l’edificio del Reichstag, dove si terrà la cerimonia. Dobbiamo percorrere ancora qualche minuto di strada, la prego di pazientare.”

Italia s’intristì. Tornò ad appoggiarsi sul sedile come un cane che ha smesso di scodinzolare e che tiene basse le orecchie. “Va bene.”

Svoltarono in un’altra via. Italia buttò l’occhio fuori dal finestrino e la fitta folla li salutò sventolando le mani sopra le teste. Un piccolo sorriso comparve d’istinto tra le labbra di Italia. Il ragazzo sollevò lo sguardo sui palazzi. Dai cavi che attraversavano i due lati della strada, sventolavano bandiere italiane e tedesche grandi come lenzuola. Romano fece schioccare la lingua e si strinse contro lo schienale imbottito del suo sedile. Accavallò le gambe e non disse nulla.

La strada si affollò di nuovo e l’autista rallentò, immettendosi nella via fiancheggiata dal bagno di folla. Una scintilla dorata fece sbattere le palpebre a Italia. Italia s’inclinò verso Romano e guardò fuori dal parabrezza. Allungò il braccio tendendo l’indice vicino alla spalla dell’autista.

“Quella che cos’è?”

Si stavano avvicinando a una rotonda. La grossa colonna poggiata su una cerchia di pilastri si ergeva verso il cielo di Berlino. Un angelo dorato stringeva in mano una lancia sollevata verso l’alto, e una ghirlanda fiorita nell’altra.

“È la Siegessäule, Mein Herr, la Colonna della Vittoria.”

“Oh.”

“Siamo già dentro al Tiere Garten, non manca molto.”

Italia ritirò il braccio. Poggiò le mani sulle cosce e tornò a guardare fuori. La vasta distesa verde si perse dietro la folla. “Prima siamo passati vicino a un fiume. Che fiume è?”

“Qui a Berlino passa il fiume Sprea, Herr.”

“Oh.” Schiacciò di nuovo la fronte sul vetro. I palazzi della periferia stavano scomparendo. Monumentali opere di pietra riempivano il paesaggio. Italia fece un altro sorriso. “Berlino è proprio una bella città, davvero.”

Danke, Mein Herr.” L’autista aggirò la colonna e l’ombra del monumento ricoprì l’auto. “È davvero un bel complimento.”

La luce del sole tornò ad abbagliare il finestrino. Italia mise un palmo aperto sopra la fronte, premendo il dorso sopra la superficie liscia e fredda per farsi ombra. L’indice della mano libera si schiacciò sul finestrino. “E quello che cos – ”

“La vuoi piantare, Veneziano?!”

Italia sobbalzò. Si staccò dal finestrino e si voltò verso Romano. Il fratello aveva lo sguardo girato, una mano tuffata fra i capelli gli nascondeva il volto. La gamba accavallata sul ginocchio ballonzolava.

“Scusa,” squittì Italia. Strinse i pugni sulle gambe e chinò le spalle in avanti. “Ero solo curioso.”

“Sono palazzi, Veneziano. A casa ne abbiamo mille, e di più belli.”

Italia annuì debolmente e guardò in basso. Sollevò i piedi sulle punte e iniziò a battere i talloni sul fondo dell’automobile. Si morse un labbro e i pugni stretti sulle cosce sbiancarono. I piedi batterono più velocemente.

“E smettila di fare quel casino con i piedi,” grugnì Romano.

“Scusa.”

Italia fermò i talloni. Sciolse un pugno e si portò l’unghia del mignolo tra i denti. Gli occhi ruotarono verso il fratello, verso le strade scroscianti di folla dietro il finestrino. “Sono solo nervoso.”

“Non hai chiuso occhio per tutto il viaggio, come diavolo fai a essere così sveglio?”

“Ero troppo agitato per dormire.” Italia passò a rosicchiarsi l’unghia dell’anulare. “Poi adesso mi fanno male le gambe perché non le ho sgranchite neanche un po’, ma non riesco a farle stare ferme perché mi fa male la pancia e mi formicola tutto quanto, e di solito io dormo sempre quando andiamo in macchina, ma ora non l’ho fatto perché sono agitato, e quindi sono ancora più nervoso e quando siamo partiti ho mangiato poco e non so se lo stomaco mi fa male per la fame o perché sono inquieto, e – ”

“Tappati la bocca!” Romano appoggiò un gomito sul bordo del finestrino e si tenne la fronte. Gli occhi scuri rifletterono la luce del giorno. “Giuro che se intendi fare tutto questo casino anche al ritorno, mi faccio la strada a piedi.”

Italia ridacchiò. Il dito sempre stretto tra le labbra.

L’auto accelerò di poco, la strada era una lunga striscia di asfalto completamente sgombra che tagliava lo spazio verde. ‘Straße des 17 Jun’, c’era scritto su uno dei palazzi.

“Romano.”

Romano non si voltò. Poggiò anche lui la fronte sul finestrino e formò un sottile alone di condensa tra il naso e il labbro superiore. “Cosa vuoi?”

“Grazie per avermi accompagnato.”

Romano esitò. La gamba accavallata smise di traballare e tutto il corpo irrigidì.

“So che ti sei tanto arrabbiato dopo quello che è successo al fratellone Spagna, ma sono sicuro che poi Germania saprà spiegare tutto, vedrai.”

“Non... non farti strane idee, Veneziano.” Romano tornò ad annodare le braccia al petto e inasprì la voce. “Se ti sto venendo dietro è solo per evitare che tu faccia il più grande sbaglio di tutta la tua vita. Io non intendo avere a che fare con quel crucco di...”

L’autista tossicchiò. Il pugno stretto davanti alla bocca. L’uomo rimise la mano sul volante e continuò a guidare dritto. Romano sbuffò e invertì la posizione delle gambe. L’uniforme tirata a lucido frusciò sotto lo sfregamento, due delle decorazioni sul petto della giacca tintinnarono tra di loro. L’insulto di Romano finì in un borbottio confuso.

Italia ridacchiò coprendosi la bocca. Sprofondò di peso nello schienale e inclinò la nuca all’indietro, sul poggiatesta imbottito. Chiuse gli occhi. L’interno dell’auto profumava di pelle nuova, di cuoio di scarpe e di amido spruzzato sulle uniformi. Dopo dodici ore di viaggio, l’aria si stava appesantendo.

“Ti ringrazio lo stesso,” disse Italia, piano. “Ma questa volta andrà tutto bene, me lo sento.”

Romano prese un respiro dalle narici. Il muro di folla fuori dall’auto si stava infittendo, e coprì il rombo del motore. L’abitacolo rimase in silenzio per qualche secondo.

“Veneziano.”

Italia riaprì gli occhi. Romano aveva il capo chino, le spalle in avanti, strette sotto la stoffa tirata della divisa.

La voce di Romano divenne profonda. “Io non sono come te, e sono convinto che non ci serva un’alleanza del genere per andare avanti. I nostri obiettivi sono simili, ma i modi di fare sono completamente diversi. Non funzionerà mai.”

Italia sollevò le sopracciglia. Di nuovo il velo di tristezza che gli copriva gli occhi.

Perché le due persone che più amo al mondo non possono andare d’accordo?

“Ne avevamo già parlato,” disse Italia. Il tono era quello di un bimbo che cerca di scusarsi con la propria mamma.

“Lo so, infatti ora ti sto chiedendo di aprire le orecchie e di ascoltarmi veramente.”

Romano si spinse nel sedile centrale, più vicino a Italia. Da lì poteva vedere fuori dal parabrezza dell’autista. Romano tenne la testa bassa e sollevò gli occhi sul fratello. Parlò più piano, come per non farsi sentire dall’uomo.

“Torniamo a casa, Veneziano.”

Lo sguardo di Italia vacillò. Gli occhi lucidi già imploravano Romano del contrario.

Romano scosse la testa. “Lascia perdere quello che credi tu, e lascia perdere anche quello che mi ha detto l’altro bastardo incerottato.” Romano tese il braccio, il pollice e l’indice strinsero un lembo della manica della divisa di Italia. Il pollice sfregò sul bottone dorato vicino allo spacco. “Fermiamo la macchina e torniamo a casa, ti prego.” L’ultima parola la disse quasi con tono di supplica.

Italia tremò. Le dita di Romano sembravano passargli la scarica di insicurezza e di paura. Italia posò delicatamente la sua mano sopra quella del fratello e la strinse piano. Le vene di Romano, che pulsavano sotto la pelle tiepida, gli trasmisero il battito.

“Io...” Italia si morse un labbro. Il cuore sembrò scoppiargli, gonfio, e lo stomaco divenne ancora più attorcigliato di prima.

O Germania o Romano?

“Io...”

“Ecco il palazzo del Reichstag, Mein Herr.” La mano del conducente si staccò dal volante e l’indice puntò oltre il parabrezza.

Il cuore di Italia saltò in gola. Italia scattò addosso allo sportello dell’auto, e premette viso e mani contro il vetro. Oltre il muro di folla, i primi cenni della struttura del palazzo. La cupola in vetro, le bandiere tedesche affisse sulle aste, e una delle statue erette sul tetto.

“Siamo a...” Le parole gli rimasero incastrate in gola. Il cuore batteva così forte che non lo distingueva dal rombo dell’auto.

Il conducente svoltò, rallentando l’auto, e la strada si restrinse. Vicinissimo. Le due braccia più grosse ai lati del palazzo, le doppie vetrate che riflettevano i raggi del sole e le immagini della folla, le sei colonne davanti alla facciata. Sulla gradinata, due figure in piedi.

La folla smise di fare rumore. Le vibrazioni dell’auto e il suono del rombo cessarono. Solo il battito lento e pesante del cuore che aumentava a ogni metro.

Germania guardava fisso davanti a sé. L’ombra allungata sul palazzo, e quella più piccola di Prussia di fianco. Prussia sorrideva con quei suoi occhi accesi e lo sguardo da furbo. Gli occhi di ghiaccio di Germania erano impassibili come il suo volto, come il suo corpo. Le croci di ferro brillavano sulla divisa di entrambi, puntate sul collo.

Italia inspirò con la bocca, fin quasi a strozzarsi. Schiacciò la spalla contro il finestrino e infilò le dita dentro il manico dello sportello. La pelle era sudata, scivolava. Alcune ciocche di capelli si incollarono sulla fronte davanti agli occhi.

“Che stai facendo?” gli chiese Romano.

L’auto avanzava ancora. Italia diede una piccola spinta allo sportello e strinse con più forza le dita attorno alla maniglia liscia e lucida. La mano tremava e scivolò di nuovo. Italia si aggrappò anche con l’altra.

“Veneziano...”

Romano gli prese la spalla. Italia non sentiva niente. Vedeva solo Germania in piedi davanti al Reichstag e quello sportello che non si apriva. Romano strinse la presa fino a che le targhette cucite sulla spallina non gli arrossarono la pelle.

“Non scendere dall’auto. Veneziano, ascolta, non fare cazzate e resta in auto.”

Italia tirò la maniglia con uno strattone, la spalla spinse contro il vetro e lui finì trascinato in avanti. Italia emise una piccola esclamazione. Tutti i suoni e l’aria fresca di Berlino entrarono nell’abitacolo. Italia staccò le dita dalla maniglia e saltò giù dall’auto. Inciampò sull’asfalto ma non cadde.

“Veneziano!”

Italia si mise a correre verso il Reichstag.

Romano si aggrappò al bordo dello sportello e si sporse fuori con il capo. “Torna dentro, pezzo d’idiota!”

Italia sparì tra la folla.

 

 

   
 
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