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Autore: Tomi Dark angel    06/10/2014    4 recensioni
Tratto dalla storia:
Sequel di: "How To Train Your Sherlock"
Tratto dalla storia: "Questa è Londra, il segreto meglio custodito di questa parte di… be’… nulla. Sì, forse non sarà il massimo della bellezza, ma questo mucchio di rocce e palazzi riserva un bel po’ di sorprese. La maggior parte della gente di solito ha passatempi come leggere o sferruzzare caldi maglioni invernali. Noi invece, preferiamo fare una cosa che ci piace chiamare… CORSE DI DRAGHI!!!"
Johnlock, con accenni di Mystrade. Dedicato a chi impara, cresce e vive leggendo, figlio di innumerevoli mondi e personaggi che, ad ogni parola accarezzata dagli occhi di chi legge, sbocciano tangibili intorno all'anima del lettore per trascinarlo in avventure mozzafiato che egli saprà custodire in eterno nella purezza del proprio cuore.
Genere: Fantasy, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Quando tutto va male e il mondo pare capovolgersi, rivoltarsi a fondo come putrido guanto di fragile tela già pronta a strapparsi, non c’è molto da fare. Ci accartocciamo su noi stessi, lasciamo che il nostro mondo vada in rovina semplicemente perché ormai troppo deboli per sostenerne il peso. Ci sono momenti in cui gridiamo “basta”, momenti in cui cadiamo in ginocchio e pensiamo di restare zoppi in eterno. Per alcuni probabilmente, sarà così per davvero. Per altri invece no.
Noah è nato tra le minacce, nel dolore di una vita che pare non averlo mai accettato. Ha sempre lottato, ha sempre combattuto per restare in piedi e anche adesso, si rifiuta di cedere.
Fallimento.
Non è riuscito a proteggere Sherlock. L’ha guardato morire, ha chinato il capo dinanzi a qualcosa più grande di lui. Gli sembra quasi di avergli voltato le spalle. L’ha tradito quando aveva più bisogno di lui.
Con un ringhio, Noah ruota su se stesso e abbatte la coda. Non è ancora abituato alla sua nuova forza, ormai quadruplicatasi rispetto al giorno prima, ma quando il tavolino di casa sua si polverizza sotto la micidiale massa di scaglie e punte acuminate, quasi sorride soddisfatto. Afferra l’armadio con una sola mano, affondando le dita nel legno, e lo scaglia dall’altra parte della stanza, contro il muro, che all’istante s’infossa sotto il peso dell’impatto.
Vorrebbe gridare Noah, ma non ha voce per farlo.
Vorrebbe piangere, ma non ha più lacrime.
Vorrebbe tornare indietro nel tempo, ma non gli sarà concesso.
“Piantala di fare il moccioso, pulce”. Una voce mormora nella sua testa, ed è così simile a quella di Sherlock che Noah è costretto a sedersi sul letto per non collassare. Si preme le mani sul viso, morde a sangue quelle labbra ancora nuove, ma anche così tremendamente familiari. Sottili scie argentate gli scorrono lungo il mento quando le zanne acuminate penetrano nella carne, fendendola con la facilità di un coltello che affonda nel burro.
“Sei noioso. Non ha senso abbattersi così. Come fate tutti quanti ad essere così… illogicamente emotivi?”.
-Ma è stata proprio l’emotività a distruggerti, vero?-
Noah sorride tristemente, lasciando scivolare le dita sul volto. Appoggia i gomiti sulle ginocchia, intreccia le dita tra loro con ritrovata calma. Ha bisogno di Sherlock. Ha bisogno dei suoi consigli, della sua razionalità, della pace che gli ha sempre trasmesso quella voce profonda come gli abissi della terra e degli oceani.
Inspira a fondo, abbassa lo sguardo sulle sue mani adesso grandi e affusolate, troppo simili a quelle di Sherlock.
-Scusami, Sherlock… scusa.-
Noah torna a coprirsi il viso e s’immobilizza, fermo per ore intere, finché la schiena non comincia a far male e il sangue che cola lungo il mento quasi si secca. Affloscia le ali esausto, distrutto come dopo una battaglia e capisce improvvisamente di non avere più la forza per alzarsi in piedi semplicemente perché ogni fibra del suo corpo è stanca nel profondo, anziana come mai lo è stata prima d’ora.
La porta si apre, qualcuno si ferma sulla soglia. Noah ha ancora il capo chino, gli occhi chiusi, ma impercettibilmente quasi sorride quando intercetta l’odore familiare di girasoli che sin da bambino ha imparato a riconoscere.
-Ti ho sentita.-
Molly Hooper entra timidamente nella stanza, guardandosi intorno con fare intimidito. Occhieggia il tavolo sbriciolato, l’armadio fatto a pezzi, il muro sfondato. Il vecchio Noah non sarebbe stato capace di farlo, ma il ragazzo che ha davanti… lui sì. Le basta osservare gli artigli massicci, i muscoli poderosi, la coda spessa e adesso accasciata stancamente tra le coltri.
-Ti ho cercato dappertutto.- dice, ma Noah sembra non ascoltarla. Solleva lo sguardo, fissandola impassibile mentre i denti tornano a mordicchiare il labbro, riaprendo la ferita. A Molly basta uno sguardo, e il suo istinto da crocerossina si contorce, risvegliandosi.
-Che ti sei fatto?-
Molly allunga una mano, sfiora quasi inconsapevole le labbra carnose di Noah. Lo vede irrigidirsi, fissarla con tanta intensità da costringerla ad abbassare lo sguardo imbarazzata. Chiude gli occhi per non guardare la maglietta attillata che indossa Noah, cerca di distogliere l’attenzione dai muscoli nervosi delle braccia.
Che ti succede? È Noah!
-Posso… potrei medicarti?- domanda timidamente, torcendosi le mani appoggiate in grembo. Inspira lentamente per calmarsi, si sforza di rilassare il corpo, ma più Noah la fissa, più la tensione sale. Vuole aiutarlo, vuole fare qualcosa. Vuole sentirsi utile, almeno stavolta.
Se chiude gli occhi, rivede lo sguardo di Sherlock farsi pallido, lontano, spento.
Se chiude gli occhi, rivede il frutto della sua incompetenza spegnersi al suo cospetto.
Se chiude gli occhi, Sherlock muore di nuovo.
Prima che riesca a fermarlo, un singhiozzo sfugge alle labbra serrate di Molly. Calde lacrime le scivolano lungo il viso, accarezzano gentili quella pelle così umana, così fragile, come cristallo in procinto di frantumarsi. Lacrime ricolme di colpa, lacrime che da sole, pesano più del sole stesso.
Non dovrebbe piangere. Non sta a lei soffrire fino a quel punto, non con accanto il figlio adottivo di Sherlock. Noah è cresciuto grazie a lui, Noah è sopravvissuto alla vita perché Sherlock lo aiutò ad andare avanti. Eppure, Noah non piange. Le lacrime, le versa Molly.
-Scu… scusami. Non dovrei…-
-A lui piaceva la notte.-
Improvvisamente, Molly smette di piangere e solleva lo sguardo. Incontra il viso di Noah, i cui occhi adesso puntano lontano, verso la finestra che mostra loro un banale stralcio di cielo. Non sorride, ma pare più tranquillo, come se stesse osservando qualcosa di bello, ma anche incredibilmente triste.
Cosa ricorda? Il suo passato, i suoi momenti vissuti con Sherlock? La sua vita, se così la si può chiamare?
-Amava le stelle, nonostante odiasse studiarle. Sai, lui diceva che conoscere il sistema solare fosse inutile, e forse era davvero così per quelli come noi. Ricordo di averlo preso in giro, sai? Una sera in particolare, io ridevo di lui, ma lui non si arrabbiò…  quella volta… fu sotto le stelle che scelse di abbracciarmi.-
Noah sorride debolmente, i pugni stretti le labbra tremanti di una sofferenza lontana e senza tempo. I suoi occhi invecchiano, il viso si contrae per trattenere le lacrime.
-Non sapevo come reagire, sai? Non lo credevo capace di una cosa del genere.-
“Sei uno stupido ragazzino…”
-Mi diede dello stupido ragazzino e mi scompigliò i capelli. Poi… ricordo che guardò il cielo e nei suoi occhi si riflesse la potenza del creato intero, brillante di una forza che ritenni sconfinata.-
“Ma sei un bravo ragazzo, devo ammetterlo.”
-Era lui il mio pilastro, la mia forza, il mio domani. Era mio padre e grazie a lui io…- Noah sorride, mentre una calda lacrima di diamante gli scivola sulla guancia, morbida di dolore, senso di perdita, abbandono, debolezza. -… ero felice! Lì, tra le sue braccia. Nessuno mi abbracciava mai, sai? Lui almeno, non l’aveva mai fatto. Forse fu per questo che mai come quella volta, capii di essere suo figlio.-
Debolmente, Noah chiude gli occhi e china il capo, sconfitto. Combatte per non spezzarsi, lotta per restare in piedi ma poco a poco si piega, morbido come argilla modellabile tra le mani del suo macabro artista.
È una forma di dolore profondo, che oltrepassa lo scorrere del tempo e abbatte ogni più piccolo cambiamento. Quella sofferenza non muterà mai e mai abbandonerà l’animo di Noah.
“Si vive per essere forti, ragazzino. La debolezza può solo abbatterti, e questo non deve accadere. Combatti sempre, sii un drago. E forse un giorno, la tua costanza sarà ricompensata”.
Ricompensa.
Come in risposta a quella voce lontana, echeggiante, che solo nella testa di Noah sorge sovrana, uno scintillio oscuro emerge dalla tasca di un paio di jeans buttati in un angolo. Sono pantaloni troppo piccoli per lui, gli stessi che Noah ha indossato l’ultima volta che Sherlock è entrato in casa di Molly. Ferito, zoppicante, esausto.
Non è possibile.
Come in trance, Noah si alza lentamente. Cammina verso quell’innocuo paio di pantaloni che tuttavia adesso appare minaccioso come il più feroce dei nemici. Noah ha paura perché quello scintillio lui lo riconosce, ma non vuole credere di aver ragione.
-Noah?-
Molly lo richiama preoccupata, si alza per seguirlo nello stesso istante in cui Noah si inginocchia e infila una mano artigliata, ferita e tremante nella tasca lucente dei jeans. Quando le dita stringono qualcosa di freddo e duro che Noah non aveva mai notato prima, tutto il suo corpo vibra di terrore e incredulità.
“Un giorno forse, la tua costanza sarà ricompensata…”
Noah non vuole crederci. Non è possibile che quella pietra sia davvero ciò che pensa. Sherlock non può averla data a lui, allora così piccolo, così innocuo, così scavezzacollo.
Un pensiero attraversa fulmineo la mente di Noah mentre le ultime luci del crepuscolo muoiono sulle sue squame di violetti riflessi. È un’idea talmente raccapricciante che per un istante Noah si sente devastato, morto esattamente come Sherlock poche ore fa. Non riesce a crederci, ma sa che è così.
Quando si recò da Molly per vedersi curare le ferite, Sherlock già sapeva che sarebbe morto di lì a poche ore.
Ha programmato tutto nei minimi dettagli, senza lasciare niente al caso, così come è sempre stato nel suo stile. Ma questo. Questo và oltre ogni aspettativa di Noah semplicemente perché Sherlock è un pazzo se crede di potergli affidare un compito simile.
-Noah… che cos è?- domanda Molly, inginocchiandosi al suo fianco. Fissa ipnotizzata la mano stretta a pugno di Noah, che tuttavia non riesce a soffocare lo splendore del cristallo appena estratto dalla tasca dei jeans. È stato lì per tutto quel tempo e lui non se ne è accorto. Come ha fatto Sherlock a infilarglielo in tasca indisturbato?
Noah ha un flash, ricorda chiaramente di aver stretto Sherlock a sé per costringerlo a camminare fino al letto di Molly. L’ha sostenuto, gli ha parlato mentre barcollava e perdeva sangue… poi, qualcosa gli aveva sfiorato il fianco e Sherlock aveva alzato la mano per strofinarsi gli occhi in un gesto comunemente insospettabile.
È stato allora. Allora Sherlock passava a Noah la più grande responsabilità della sua vita. Allora Sherlock accettava che di respiri gliene restavano ancora pochi. Allora Sherlock cominciava a tessere la sua ingegnosa tela di ragno per far sì che ciò che era accaduto alla morte di Nevora non si replicasse di nuovo.
-Ma è… bellissima.-
Molly si preme le mani sulla bocca mentre Noah schiude le dita per rivelare una splendida gemma dai riflessi intrisi d’aurora boreale. È di forma romboidale, cristallina, lucente come stella piovuta dal cielo e pare racchiudere in sé tutta la luce degli astri. Molly non ha mai visto una pietra così bella.
Il sole tramonta, gettando su di loro un ultimo sprazzo di luce morente.
Noah si volta, fissa l’orizzonte con occhi adesso ricolmi degli stessi riflessi emanati dalla pietra. Bruciano di rabbiosa decisione, e per un attimo, Molly distingue in quello sguardo implacabile qualcosa di familiare. Sono occhi di cristallo quelli, occhi che hanno saputo piegare il mondo e gli esseri viventi, occhi che hanno visto e assorbito la luce e le tenebre del mondo intero.
Molly indietreggia prostrata mentre un fremito scuote la terra nello stesso istante in cui Noah torna a stringere la pietra in una stretta rabbiosa, non sua. Le sue pupille si assottigliano, le ali si ripiegano rinate sulla schiena e le scaglie sembrano emanare una luce nuova, sbocciata dagli anfratti più oscuri dell’anima del loro padrone.
-Noah…? Che succede?-
Il drago abbassa lo sguardo su Molly, trapassandola con occhi intelligenti, troppo simili a quelli di Sherlock. Quelli non sono occhi normali. Quelli sono gli occhi di un sovrano.
-Sherlock Holmes mi ha nominato suo erede.-
 
Irene Adler respira lentamente per trattenere le lacrime.
Lei non piange. Lei non è così debole.
Eppure, quel piccolo stupido drago ha saputo insinuarsi in lei, nelle pieghe del suo animo, come meschina cimice addestrata a fare questo e nient’altro. Irene è rimasta imbrigliata, indebolita, quasi inconsapevole che gli occhi di Sherlock Holmes la osservavano e la capivano meglio di chiunque altro. Ha attirato la sua lealtà, ha prostrato in ginocchio la sua smodata vitalità di drago bestiale per accostarla a un’umanità ben più grande dapprima sconosciuta ai suoi occhi.
Irene è cambiata nell’istante in cui Sherlock ha iniziato a studiarla davvero. Le ha teso una mano invisibile, mai ritratta, che lei ha afferrato inconsapevolmente, prostrandosi al suo cospetto.
Esausta, Irene si passa una mano sul viso e china il capo. Fa male, brucia da morire. Non si è mai sentita così… è come se le avessero strappato un pezzo d’animo per calpestarlo implacabilmente dinanzi ai suoi stessi occhi.
-Che cosa hai fatto, stupido cervellone…-
Le sembra di sentire ancora le urla di John. Sono andate avanti per ore intere, insistenti, implacabili, strazianti come grida di cucciolo strappato alla madre. Quei suoni non andranno più via. Resteranno impressi nella sua anima fino alla fine, fino all’ultimo respiro. E Irene le ascolterà anche nel sonno, semplicemente perché non avrebbe mai creduto che un banalissimo umano potesse produrre suoni tanto raccapriccianti. Se dovesse dare un suono alla sofferenza vera, Irene vi attribuirebbe le grida di John.
Si afferra la testa tra le mani, sospira, cerca di recuperare un barlume di controllo. Poi, qualcosa cambia e lei solleva lo sguardo: una familiare profumo di spezie e vaniglia le invade le narici, forte come non mai. È una scia che conduce lontano, a nord, verso le terre sconosciute. Ma non è possibile. Oppure sì?
 
-Mycroft, per favore, parlami! Dici qualcosa!-
Gregory Lestrade sbraita, gesticola impazzito per dar sfogo all’inerzia del momento. Fissa con insistenza Mycroft Holmes, comodamente seduto sulla poltrona. Non ha voluto abbandonare la casa di suo fratello, spiegando di voler tenere d’occhio John che continua a piangere e urlare da quasi un giorno nella stanza accanto. Non ha permesso a nessuno di spostare il corpo, si è rifiutato di lasciarlo andare.
“Lui avrebbe fatto la stessa cosa”, aveva detto. “Vi prego, diamogli una possibilità. Sherlock non è morto!”
Stupido, piccolo umano. Sempre fiducioso della stupidità di Sherlock, sempre aggrappato alla vita come cucciolo appena nato. Almeno un poco, Mycroft lo invidia: anche nel dolore più soverchiante, John emana sempre un’aura di forza sovrumana che spinge finanche i draghi a rispettarlo. Nella sua umana fragilità, ha saputo costringere gli altri ad ubbidirgli, impedendo che il corpo di Sherlock venisse smosso anche di un centimetro. Continua ad aver fiducia in lui, continua a crederci davvero. Mycroft al contrario, non ci riesce. Suo fratello è sempre stato troppo fragile, troppo umano. Forse è per questo che non ha mai né accettato né rifiutato davvero il trono: sentiva che la sua vita sarebbe giunta alla fine.
Eppure, quelle ultime parole… Sherlock le ha dette rivolgendosi a lui. Mycroft lo sente, perché conosce a menadito il tono che suo fratello ha sempre usato per parlargli, e prima di morire Sherlock ha usato esattamente quella voce. Guardava John, ma parlava con Mycroft. Possibile? Cosa sa Mycroft che gli altri non sanno?
“Cerca il mio riflesso”.
Per la prima volta, quelle parole scatenano in Mycroft un brivido dubbioso, quasi spaventato. Riflesso. Cosa significa “cerca il mio riflesso”? Sicuramente Sherlock non parlava di uno stupido specchio.
-Mycroft!- Greg urla ancora, facendolo sobbalzare. Mycroft lo guarda impassibile, specchiandosi negli occhi lucidi di pianto dell’ispettore. Se fosse avvezzo alla parte sentimentale di ogni essere vivente, capirebbe prima di chiunque che Greg sta soffrendo come un cane. In realtà tuttavia, Mycroft non riesce a capire. Lui non capisce mai, non come Sherlock, e forse Irene ha ragione a chiamarlo Iceman.
-Smettila di renderti ridicolo, Gregory. Non è succ…-
-NON DIRMI CHE NON E’ SUCCESSO NIENTE!!!- L’urlo che prorompe dalle labbra di Greg è violento, aggressivo, intriso di una rabbia animale. Mycroft inarca un sopracciglio, piccato. –È morto tuo fratello, Mycroft! Dannazione, tuo fratello! Sherlock!-
-Non vedo perché si debba inalberare questo stupido teatrino, tuttavia.-
Greg digrigna i denti, poi abbatte un pugno contro il muro. Mycroft sente lo scricchiolio sinistro di ossa danneggiate, ma non rotte. Sa che la mano adesso fa male, brucia come fuoco. Ma continua a non capire perché si comporti così. Gli umani non possiedono un briciolo di autocontrollo.
-Gregory, ti stai comportando da stupido. Basta così.-
Ma Greg singhiozza, stringe i denti, serra i pugni come se stesse per colpirlo. Dall’altra stanza, il pianto di John pare aumentare d’intensità in risposta alle loro urla.
-Non ti importa nulla di lui! Non ti è mai importato di tuo fratello! Come puoi essere così freddo? Era Sherlock!-
Greg si volta verso la finestra, appoggia le mani sul davanzale per prendere aria e darsi una calmata. Respira a fondo, con affanno, come se stesse lottando contro una feroce bestia interiore.
Mycroft lo guarda, inclinando il capo senza capire. Osserva la schiena ampia di Greg, fissa il suo riflesso slavato nelle vetrate delle finestre aperte.
Riflesso.
“Cerca il mio riflesso”.
 Nelle terre sconosciute? Perché?  Cosa può trovarsi laggiù?
Mycroft chiude gli occhi, ragiona, affonda nel suo Mind Palace. Sherlock era convinto che lui disponesse della risposta. Eppure, Mycroft sente di non avere abbastanza dati, di non sapere niente.
-Myc?-
Voce di bambino alle sue spalle. Non ci sono bambini a piede libero nella sua testa. A meno che…
Mycroft si volta, fissa lo sguardo su un bambino pallido, dai capelli ricci e le ali sottosviluppate, rattrappite come cartapesta. Sherlock?
-Non dovresti essere qui.- dice Mycroft, pur sentendo in realtà che mandare via quello stralcio di ricordo non è una buona idea se vuole arrivare a capo della matassa.
Il bambino inclina il capo, ondeggiando intorno ai piccoli fianchi troppo magri la coda ancora corta, ancora coperta di semplice pelle anziché di squame. Pelle? Sherlock non ha mai avuto una coda del genere.
-Torna nella tua stanza, Sherlock.- ordina con voce impassibile, vibrante di fermezza, ma il bambino si rifiutò di ubbidire. Rimase immobile, col capo inclinato, guardando interessato un Mycroft adesso stupefatto, dall’aria corrucciata. Non è normale che un semplice ricordo non risponda ai suoi ordini… o sì?
-Io non sono Sherlock.-
 
Io non sono Sherlock.
IO NON SONO SHERLOCK.
Mycroft spera di aver pensato male. Ci spera davvero, perché una soluzione esiste davvero, seppur totalmente inesistente e altrettanto inapplicabile.
“Cerca il mio riflesso.”
Un riflesso. E Sherlock aveva guardato lui, come se per una volta avesse creduto davvero nelle capacità intellettive di suo fratello. Aveva creduto in lui, gli aveva affidato tutto il resto. Il domani di un popolo, il domani di John. Le sue ultime speranze.
-Non ci posso credere… ha intuito tutto.-
Lentamente, sotto lo sguardo stupefatto di Greg, Mycroft si alza in piedi e allarga le ali, invadendo l’intera stanza, soffocando ogni spazio di prezioso bronzo di seta. La luce colpisce le sue corna ricurve d’ariete, brilla sulle scaglie e sui muscoli alari come cascata d’oro colato. Greg lo vede chiudere gli occhi, stringere i pugni di una rabbia animale mista a speranza. Capisce che Mycroft sta lottando selvaggiamente contro se stesso, contro le sue stesse emozioni. Non l’ha mai visto così provato.
-Stupidi ragazzini capricciosi e senza cervello.- ringhia allora Mycroft, riaprendo gli occhi. Le pupille sono sottili, gli occhi gelidi come ghiacciai.
The Iceman. L’uomo di ghiaccio. Irene non ha mai avuto più ragione di così.
-Mycroft?- chiama debolmente Greg, e allora Mycroft lo guarda gelido, trapassandogli l’anima con gli occhi. Mai come in quel momento appare più bestia che umano, e questo non è da Mycroft.
-Credo di aver capito, Gregory.- annuncia infine. –Spero solo di sbagliarmi.-
“Io non sono Sherlock”.
 
Angolo dell’autrice:
Ehm, sì… qualcuno ha già la soluzione?
Sher: spero per loro di no. E’ una follia. Chi l’ha scritto il copione?
Tua sorella. SECONDO TE?! Genio, ci sono io alla tastiera!
Sher: allora si spiegano tante cose.
Fingerò di non aver sentito. Torna a fingerti morto dall’altra parte, o ti ammazzo davvero. Torniamo a noi… spazio ai ringraziamenti!
Wibbly: sì, Sherlock è morto. Morto morto. Però sì, prima o poi disegnerò Noah e ti taggherò nel disegno, ok? Lo sapevo che scrivendo dei due cuori di Noah qualcuno avrebbe pensato al buon Dottore! * Applaude felice * Comunque, a breve chiarirò tutto. O forse no. Ma dopo questo capitolo forse qualcosa si inizia a capire. Grazie del commento e a presto!
Sonia_0911: be’? Tutti dicevano che non potevo ammazzare il protagonista, ma Sherlock era troppo fastidioso. In un modo o nell’altro dovevo toglierlo di mezzo! Dunque, in sé e per sé il Mind Palace non ha ceduto a causa del nome ascoltato (Magnussen), ma per via dell’improvvisa invasione subita. Come già spiegato dalla Morte, un Palazzo Mentale è un’arma micidiale, ma altrettanto fragile. Sherlock ha bisogno di un grande autocontrollo per gestirlo, ma a quanto pare qualcosa gli ha fatto perdere la testa. Chiarirò tutto, promesso, ma credo che qui qualcosa si comincia a capire. Cos… cavolo, davvero ho scritto una cavolata riguardo gli anni di Sherlock? ma perché non ragiono quando scrivo! Scusa! Grazie per la recensione e per l’accorgimento! A prestissimo!
Fatelfay: dovevo pur ammazzare qualcuno! Ero in astinenza da omicidio, non è colpa mia! Sherlock è stata la prima vittima capitatami a tiro. Colpa sua, mi stava tra i piedi. (Moffat style) Cooomunque, adesso è il momento di lasciare spazio a tutti gli altri. Conosciamo un po’ Sherlock, ma Noah e i suoi vi sono un po’ ignoti, nonostante la storia precedente. Spero di poter rimediare adesso e di farmi perdonare per l’improvviso omicidio. A presto, e grazie!

Tomi Dark Angel
  
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