La carezza della sera
Quando entrò in cucina,
la puzza di
cavolo bollito appestava ancora l’aria. Germano si
tappò il naso come sempre,
avanzando verso il frigorifero con una lentezza che da giovane gli
avrebbe
fatto perdere la pazienza; bussò con il bastone sul
pavimento, verificandone le
condizioni per non inciampare in qualche crepa causata dal tempo:
chinare il
capo gli faceva venire la cervicale, così di tutto
ciò che si trovava sotto le
sue ginocchia malferme poteva vedere solo gli oggetti lontani da lui
– per quel
poco che, ormai, riusciva a distinguerli.
Raggiunse finalmente la sedia e si
lasciò cadere con più pesantezza del dovuto,
provocando ulteriore dolore a
quella schiena che urlava tutto il giorno il proprio scontento. La mano
destra appoggiò
il bastone sulla sedia vicina, poi tremante si spostò sul
tavolo. In alcuni
punti la vernice scrostata mostrava quell’ammasso di ruggine
che per anni aveva
fedelmente nascosto; Germano fece scivolare due dita su una di quelle
zone
tanto imperfette, ma che per lui avevano un significato importante. Potente.
Il tempo che in quella casa aveva
trascorso con Anna.
Avevano varcato la soglia
dell’appartamento quando? Sessantadue anni prima? Allora ci
si sposava giovani
e ci si innamorava una volta sola; allora un bacio significava
matrimonio,
perché non si baciava mica il primo venuto. Anna
l’aveva baciato tante volte:
prima sulla guancia, timida e impacciata, poi sul naso
perché aveva voluto
chiudere gli occhi e non sapeva guidare le sue dolci labbra; la terza
volta
Germano aveva preso il volto di Anna tra le mani e l’aveva
avvicinato al suo,
stampandole un bacio ridicolo per la sua età –
aveva diciannove anni e faceva
il militare, ma aveva imparato a imbracciare un fucile prima ancora di
baciare
una donna. Ad Anna, però, quel bacio era piaciuto tanto,
perché aveva
cominciato a chiedergliene uno al giorno.
«Ché,
Germà, non me lo dai, un bacetto?»
E allora lui le afferrava la nuca e
le
baciava le labbra – quelle labbra così morbide e
grandi, quelle labbra che
aveva baciato con tanto amore il giorno delle loro nozze.
«È bella
l’Anna, nì, non fartela
scappà»
gli diceva sua madre.
Un anno dopo l’aveva
portata all’altare,
quello dopo ancora Anna teneva tra le braccia Paolo, il loro
primogenito; lo
stringeva e sorrideva, e con lo sguardo pareva chiedergli:
«Di’, Germanù, non è
il figliolo più bello del mondo?» E lo baciava
sulla fronte, dando un pizzico
di gelosia a quel marito che, per due anni, era stata la sola persona
sulla cui
fronte avesse poggiato le labbra.
Era bella, Anna.
Il pendolo suonò,
rimbombando nella casa
vuota. Di tutte le cose presenti, era la più vecchia, eppure
l’unica che non si
fosse mai drasticamente rotta: Germano passava le domeniche a oliarlo,
pulirlo,
aggiustarlo, assaporandone poi quei rintocchi che sapevano di vita, per
lui.
Come gli gnocchi che Anna preparava il giovedì,
l’odore della varecchina e il
borotalco che profumava il presepe quando i loro nipotini facevano
scendere la
neve. C’era poesia in quel vissuto, nel caffè dopo
cena davanti alla
televisione, nei panni stesi sul balcone, nelle risate dei bambini, nel
suono
dolce della voce di Anna quando gli augurava la buonanotte.
«Buonanotte,
Germà.»
Negli ultimi tempi era diventato
quasi
un sussurro, sempre più difficile da pronunciare,
però era uno di quei simboli
che Anna non aveva voluto farsi portare via neanche dalla malattia.
Come la pasta per le lasagne che
continuava a passare sotto il mattarello infarinato, anche quando le
braccia le
dolevano per lo sforzo; come le passeggiate fino alla chiesa la
domenica
mattina, anche quando le gambe avevano smesso di muoversi da sole; come
le
telefonate settimanali ai figli lontani, anche quando parlare era
diventato
difficile. Quei simboli erano rimasti, perché Germano era
rimasto con lei per
aiutarla a realizzarli.
«Buonanotte,
Germà…»
L’ultima volta
gliel’aveva sussurrato
accarezzandogli la guancia umida.
Quando le avevano diagnosticato la
malattia, allargando le braccia Anna aveva commentato: «E
vabbè, so’ vecchia.»
Mariagrazia, la terza figlia, aveva
cercato di far forza a Paolo e Ludovica, che aveva cinque anni
più di lei, ma che
in quel momento agli occhi della famiglia era sembrata una bambina che
vedeva
abbattere il proprio cane. Germano aveva stretto la mano della figlia
minore,
ringraziandola con un sorriso, ed era stato a lei che aveva chiesto
aiuto in
quei primi tempi, per le analisi, la TAC e gli appuntamenti dal medico:
Anna
aveva bisogno di tranquillità, non di avere accanto persone
ancora più
preoccupate di lei. Non che lei lo fosse mai apparsa, preoccupata,
perché si
presentava all’ospedale sempre a testa alta, con quello
sguardo fiero che
Germano le aveva visto solo per difendere i suoi figli; guardava in
faccia la
malattia e tutto il dolore che le arrecava, voleva essere presente
quando i dottori
comunicavano i risultati delle analisi a Germano e a Mariagrazia e
ascoltava
come una studentessa desiderosa d’imparare: non sembrava che
fosse lei la
persona a cui avevano dato così pochi mesi di vita. Poi
usciva da quegli uffici
che sapevano di siringhe e medicine e faceva un gran sorriso,
proponendo di
andare a prendere un gelato – perché tanto il suo
destino era segnato, e
privarsi di un gelato non avrebbe allontanato la morte.
«La mia vita
l’ho vissuta, Germà, e tu
m’hai tenuta per mano tutto il tempo. Più bello de
così non ce può esse
niente.»
Da un mese e mezzo Anna si era
spenta.
Lei diceva di essere andata al Creatore, «che forse non me ce
vo’, perché da
bambina ne facevo tanti, di dispetti», gli amici e i parenti
che ora stava
riposando in pace. All’inizio i suoi tre figli avevano
insistito per rimanere
nella casa natia con il padre, per aiutarlo a riprendersi e organizzare
il
funerale, ma dopo due settimane Germano aveva insistito
affinché tornassero ai
loro lavori, ai bambini che avevano lasciato con gli altri nonni, alla
scuola
che doveva ricominciare.
La casa allora era diventata vuota.
Non
c’era più il confortante rumore di pantofole che
sfregavano sul pavimento, non
c’era l’odore della pomata che Anna si spalmava sui
piedi, non c’era nessuno a
cui portare la colazione a letto come nei primi giorni di nozze.
C’era solo una
teglia di lasagne nel congelatore. Quando Germano le aveva trovate non
aveva
avuto la forza di metterle in forno; aveva poggiato entrambe le mani
sul ruvido
strato di ghiaccio ed era scoppiato a piangere, singhiozzando e gemendo
come
avrebbe dovuto fare da tempo – si tratteneva per i suoi
figli, per i nipoti
presenti, per quella donna che, durante tutto il periodo della
malattia, non
aveva mai versato una lacrima.
Sopra la carta
d’alluminio che
proteggeva le lasagne c’era un biglietto quasi illeggibile,
ma Germano intuì
facilmente cosa ci fosse scritto.
Per
Germano.
Erano le sue memorie.
Dopo cinquanta giorni di silenzio,
Germano aveva capito che non aveva più motivo di farla
aspettare. Paolo,
Ludovica e Mariagrazia avevano le loro vite, le loro famiglie e la loro
felicità, e quando la più piccola – che
era grande ormai e aveva un figlio già
diciottenne – l’aveva stretto forte in un abbraccio
Germano aveva capito che
quello sarebbe stato il loro addio; allora aveva sorriso debolmente e
Mariagrazia aveva fatto lo stesso, restituendogli lo sguardo della
madre.
«Veniamo a trovarti
presto, papà.»
Non era voluto andare con loro, non
aveva nemmeno voluto farsi internare in qualche ospizio. Era anziano e
si
muoveva lentamente, ma quella era casa sua,
la casa in cui lui e Anna erano stati felici per sessantadue anni, e
lui
sarebbe rimasto lì fino alla fine.
Che era giunta.
Il pendolo suonò le
sette di sera.
Germano aveva cotto le lasagne scongelate nel pomeriggio, si era seduto
al
tavolo con la vernice scrostata e aveva apparecchiato per due; mezzo
bicchiere
di vino rosso, una generosa porzione di lasagne –
più di quanto il suo corpo
avrebbe, in altre occasioni, potuto sopportare – e due
quadretti di cioccolata
al latte, quella che Anna gli nascondeva sempre perché gli
faceva avere i
bruciori di stomaco per tutta la notte. Aveva sparecchiato e lavato i
piatti,
ascoltato il notiziario delle otto e messo il pigiama.
Alle nove, quando il pendolo
suonò per
l’ultima volta, si mise a letto, al caldo sotto le coperte,
poi con le mani
tremanti aprì ogni scatoletta di medicine che aveva sul
comodino: pressione,
dolori gastroesofagei, insonnia. Raccolse due tipi di ogni pasticca, si
servì
un bicchiere d’acqua e mandò giù tutto.
Poi lo fece un’altra volta.
Sorridendo, si girò
verso destra,
osservò il posto che la moglie aveva lasciato vuoto e freddo
e poggiò una mano
sul suo lato del letto.
Il buio arrivò in
fretta, dolce come una
carezza sulla guancia.
«Buonanotte,
Germà…»
Buonasera con questa storia che spero vi abbia lacerato il cuore. Perché non è giusto che me lo sia lacerata da sola lasciando intatto il vostro, eh.
Che posso dire di questa storia? Prima di tutto che partecipa a un con... potrò dirlo? Vabbè, non lo dico. Ma vi farò sapere il risultato! E poi che con questa, finalmente, ritorno piano piano in me: è una storia introspettiva e drammatica, una di quelle storie che mi piace tanto scrivere, e soprattutto è venuta giù tranquillamente, senza darmi problemi, e dopo mesi di racconti lasciati a metà direi che ci voleva.
Ho voluto restituire il registro linguistico migliore per una storia di questo tipo - per un personaggio di questo tipo, com'è Germano. E allora nel secondo paragrafo lo stile cambia leggermente, il linguaggio è poco più colloquiale, perché tutto è come un dolce ricordo nella sua testa ed è lui stesso a raccontarlo, in un certo senso. Ho scelto inoltre l'uso del dialetto nei dialoghi per renderli più realistici.
E... basta, credo. Sono soddisfatta di questa storia, spero sia piaciuta anche a voi (CUORI DISTRUTTI, CUORI DISTRUTTI!).
A presto!
Medusa, a Lannister