IV.
Careless
steps
“Stavolta
hai fatto i conti senza l’oste Sherlock.”
Sherlock
chiuse gli occhi, sospirando amaramente. Non si voltò per accogliere la sua
ospite: sapeva perfettamente che il primo e più importante obiettivo nella vita
di Irene Adler era attirare tutta l’attenzione possibile su di sé. Non
l’avrebbe assecondata.
Quindi,
mentre la donna attraversava la stanza con lunghe ed eleganti falcate e il
suono dei suoi tacchi lo faceva trasalire ad ogni passo, Sherlock decise che l’avrebbe
ignorata fino a quando non avesse capito che la sua presenza non era né gradita
né tantomeno richiesta. Ostinato, mantenne il suo sguardo fisso sulle lingue di
fuoco che scoppiettavano nel caminetto (e se con un gesto fece sparire
l’immagine che vi era riflessa in favore di qualcosa di meno compromettente,
beh, lui certo non lo avrebbe detto a nessuno).
“Sherlock?”
La
voce vellutata di Irene, insieme al suo fiato caldo che carezzò la sua guancia
quando (troppo vicina al viso del Demone per i suoi gusti) parlò, gli fece
digrignare i denti. Affondò le unghie nei braccioli della poltrona, il cui
legno cedette al suo tocco come se fosse stato burro, e si sforzò di
concentrarsi sulle immagini che si muovevano davanti a lui.
Irene
lo osservò per un po’, combattuta tra l’idea di buttarsi addosso a Sherlock di
peso costringendolo a dar credito alla sua presenza e quella di attendere che la
continua invasione del suo spazio personale facesse il lavoro al posto suo. Piegò
la bocca in un sorriso affilato come la lama di un coltello, voltando la testa
con fluida lentezza verso il teschio che, dal camino, non aveva smesso un
attimo di osservarla.
“Da
quanto è in quello stato, Yorick?” chiese, accennando con il capo nella
direzione di Sherlock.
“Da
ieri notte più o meno. Non ha fatto che fissare le fiamme e struggersi per quel
Dott-”
Il
teschio fu interrotto da un ringhio cupo e minaccioso, un non osare terminare quella frase che non aveva bisogno di parole
per essere espresso. Irene sogghignò: a quanto pareva Sherlock non era poi così
in catalessi come dava a vedere. Lanciò a Yorick uno sguardo d’intesa, e
fingendo di osservarsi le unghie con nonchalance chiese:
“Dott-
sta per…?”
“Dottore.”
fu la svelta risposta del sadico, bianco soprammobile. Sherlock ringhiò più
forte.
“Oh,
non parlerai del Dottor Watson, vero? Un tipo tanto ordinario, capace di
detenere la sua attenzione per tanto tempo? Com’è possibile? È assurdo.”
La
donna non fece niente per nascondere la derisione nella sua voce, e Sherlock alzò
gli occhi al cielo. Com’è possibile?
aveva chiesto. Beh, Sherlock avrebbe dato di tutto per poter dare una risposta
logica - di quelle piene di cavilli che piacevano tanto al Demone - a quella
domanda. Non poteva. E il motivo, davvero, era semplice: non ne aveva la più pallida
idea neppure lui.
Se
c’era qualcosa di cui era sempre stato più che certo, e mai nei suoi
cinquecento anni di vita aveva incontrato qualcos’altro che potesse far
vacillare questa sua sicurezza, era che gli esseri umani fossero creature
sostanzialmente noiose. Non necessariamente per costituzione (non bisognava
certo essere Dio per vedere quanto contorte erano talvolta le loro menti), ma
per scelta: come branchi di pecore prive di volontà si lasciavano guidare da
chiunque impugnasse il bastone del comando, senza personalità, senza spina
dorsale. Se qualcuno di loro osava alzare la testa e tentare di opporsi a
quell’ingiusta oligarchia, veniva additato e trattato da reietto… e a quel
punto le cose si facevano interessanti.
Perché
nelle sciocche menti degli umani, diverso e spaventoso sono equivalenti, e la
paura ha dei risultati decisamente piacevoli (per chi le osserva, per lo meno).
Per non parlare poi dei danni che la continua repressione dei propri istinti
causava sulle deboli menti di chi si trovava ad essere dalla parte sbagliata
dei pulpiti: i gesti che nascevano dal dolore di un sicuro rifiuto erano
qualcosa di straordinario.
Sherlock
aveva lasciato il Mondo dei Demoni proprio per quella ragione: per
l’imprevedibilità delle menti umane sconvolte dal terrore, o dalla follia. I
crimini più efferati, i gesti più oscuri, erano l’unico sostentamento che
richiedeva. Ripercorrere i passi di chi li aveva commessi, ricostruire pezzo a
pezzo le loro mosse e comprendere il come e il perché era il suo unico scopo,
il suo Lavoro.
Tutto
il resto del tempo era una lotta continua contro la noia.
E
allora perché? Perché quella notte non si era dedicato ad un esperimento come
al suo solito? Perché, pur essendo rimasto seduto da ORE nella solita posizione,
senza che la musica del suo violino lo distraesse o che il prospetto di un
nuovo rompicapo da risolvere lo dilettasse, la noia non aveva artigliato i suoi
sensi costringendolo a fare qualcosa per non impazzire?
Di
solito quando non stava dimostrando l’azione di una sostanza acida su un
tessuto umano o non si stava dedicando al Lavoro, i suoi sensi (liberi di
cogliere e registrare ogni minima cosa che lo circondasse) venivano sovra-stimolati
e lui finiva per dare di matto. Niente di tutto ciò era accaduto durante quella
particolare notte.
No,
era stato troppo impegnato a osservare quell’uomo che si chiamava John Watson,
a commentare ogni sua mossa e bere ogni suo gesto, per sentire i morsi della
noia. Un uomo ordinario in ogni senso possibile aveva detenuto il giogo della
sua mente per un’intera notte, e lo aveva lasciato con il desiderio di sapere
di più, di andare oltre ai dati che quelle immagini piatte e falsate e quei
suoni ovattati e interrotti dal crepitio del focolare o dagli schiocchi del
legno in fiamme potevano fornirgli.
Voleva
vedere con i propri occhi, voleva annusare, voleva toccare. Se non poteva farlo, a cosa gli servivano i suoi sensi
amplificati di Demone?
Sherlock
inclinò la testa di lato, sbuffando per la frustrazione. Stava impazzendo,
molto probabilmente.
“Vuota
il sacco. Perché sei qui?” quasi gridò, afferrando la mano che Irene stava
passando pigramente fra i suoi capelli.
“Ah
bene! Hai finito di ignorarmi, caro?”
“Perché.
Sei. Qui.” Il non chiamarmi caro era
chiaro ma sottointeso.
Irene
sospirò teatralmente, lasciandosi ricadere in maniera drammatica sul divano
posizionato alle spalle del Demone. Si tolse i guanti con lentezza, come se il
procedimento di sfilare ogni dito dalla sua veste di pizzo richiedesse fatica e
concentrazione, il tutto solo per irritare Sherlock un altro po’. Com’è ovvio,
ci riuscì alla perfezione: il Demone scattò in piedi, i capelli ritti sulla
nuca, minacciandola di riprendersi il dono che le aveva concesso se non avesse
parlato immediatamente.
Irene
lo guardò, per niente impressionata. “Sbaglio o il suo umore è peggiorato?”
domandò, rivolgendosi a Yorick.
Se
un teschio avesse potuto alzare le spalle Yorick lo avrebbe fatto. Purtroppo,
dovette accontentarsi di esalare un sospiro di pura rassegnazione, che aveva
tutta l’aria di voler dire Lascia
perdere, IO devo sopportarlo ventiquattro ore al giorno da duecento anni a
questa parte.
“Irene…”
ringhiò Sherlock. Quando la donna non parlò, Sherlock mosse un dito: il colore
scomparve dai capelli di Irene, che si ritrovò con una nube di riccioli candidi
a scenderle sulle spalle; profonde rughe apparvero sul suo volto, cicatrici di
una vita vissuta e mai raccontata. Di Irene Adler, ‘La Donna’, non rimase che
la pallida ombra di uno splendore che fu.
“Dannazione,
Sherlock!”
“Ti
avevo avvertita.”
“Non
c’era alcun bisogno di-”
“Ti
consiglio di parlare. Il tempo corre, e tu non stai certo ringiovanendo.”
Irene
sbuffò, storcendo la bocca in una ragnatela di rughe che gridavano rabbia. Si
rialzò dal divano, un concerto di scricchiolii di ossa fragili e vecchie, e si
portò davanti a Sherlock.
“La
tua ultima cliente è tornata al villaggio stanotte.” Gli disse con voce roca e
polverosa,
“Ovviamen-”
“E
anche il suo adorabile paparino è tornato a galla.”
“Lo
so!”
E
lo sapeva, aveva visto tutto, perché Irene lo scocciava con delle notizie
inutili e ridondanti?
“Allora
saprai anche che l’Ispettore Lestrade ha interrogato il Dottore.”
“Certo
che lo so, per chi mi hai preso?”
Irene
guardò Sherlock negli occhi, leggendo la sua espressione di sfida. Se avesse
dato retta al suo istinto gli avrebbe stampato uno schiaffo sul viso: per
fortuna aveva smesso di ascoltare la vocina che le suggeriva di picchiare il
Demone anni e anni fa.
“Bene.
E sai che Lestrade gli ha chiesto di dichiarare che la morte di Ford è stata
accidentale, e che gli occhi di sua figlia sono stati rimossi con una procedura
medica a causa di un’infezione?”
Sherlock
grugnì. Non era in possesso di tali informazioni, ma sarebbe potuto arrivarci
per logica: tutte le volte che accadeva a Castlecross qualcosa riconducibile al
suo operato di Demone la polizia glissava il problema riducendo tutto a inspiegabili
malattie o incidenti vari. Lestrade era ottimo in questo, come lo erano stati
suo padre e suo nonno prima di lui. Per questo erano ancora vivi, in fondo.
Un
sospiro ci stava a pennello. “Senti, se questo è tutto quello che hai da dirmi
allora…”
“Il
Dottore si è rifiutato.”
Un
silenzio di tomba, interrotto solo dall’esclamazione di sorpresa di Yorick,
piombò nella stanza. Anche il tempo sembrò trattenere il fiato mentre Sherlock
metabolizzava la notizia: d’un tratto, aveva trovato un nuovo motivo per
interessarsi del Dottore… uno che implicava un pizzico di attenzione in più,
però.
Guardò
Irene negli occhi. “Vorranno aprire un’indagine.”
Non
era una domanda, ma Irene rispose lo stesso: “Mmmh.
In ogni caso sono già a conoscenza del tuo coinvolgimento. Tutto il paese è in
fibrillazione e grida ‘Al Demone!’”
Sherlock
rise. “E cosa possono fare? Ingaggiare un’esorcista?” si alzò dalla poltrona,
che scricchiolò per la mancanza del peso che l’aveva occupata ininterrottamente
per ore, “Anche se mi cercassero e mi trovassero -cosa che non faranno, lo so
io e lo sai tu- non c’è assolutamente NIENTE che possano farmi.”
“A
parte condurre Moriarty da te.”
Probabilmente
non è cosa conosciuta dai più, ma è d’obbligo a questo punto sapere che nelle
vene dei Demoni (di quelli superiori, almeno) scorre sì sangue, ma ad una
temperatura così elevata da ricordare il bollente magma che scorre nelle parti
più interne della Terra. Anche le loro lacrime, per quanto raramente si possano
trovare cronache di Demoni che ne abbiano versate, condividono questa
particolare proprietà. Ci sono varie teorie, sostenute da teologi i cui nomi
vengono sussurrati con rispetto nei circoli più segreti, riguardo al motivo di
tutto ciò: c’è chi sostiene che sia conseguenza dell’ambiente in cui vivono, e
chi invece è più che certo che sia un’altra delle caratteristiche conferite
loro durante la Caduta per renderli ancor più incompatibili con gli altri
esseri del Creato. Ma non è questa la cosa importante: ciò che conta è sapere
che a Sherlock, quando il nome di Moriarty riecheggiò nella stanza, il sangue
si gelò nelle vene.
Prima
che riuscisse a indossare la sua maschera di apatia, sul suo volto scivolarono
emozioni di rabbia, vergogna e paura, per nascondere le quali il Demone turbinò
fuori dalla stanza, per andare a rinchiudersi nello studio sbattendosi la porta
alle spalle. Ignorò con ostinazione Mrs. Hudson, che dalla cucina gli domandava
se fosse tutto a posto; ignorò anche Irene, che si lamentava del fatto che non
le avesse restituito la sua giovinezza (tanto, in una trentina di minuti quella
sarebbe ritornata comunque): tremante come una foglia si lasciò ricadere contro
quella stessa porta, le mani tuffate nei capelli, il fiato bloccato in gola.
Moriarty.
Il più grande errore della sua vita.
Il
suo nemico, il suo incubo.
Il
simbolo vivente della sua vanità e debolezza.
Se
il Negromante lo avesse trovato, sarebbe stata sicuramente la sua fine. Non che
per Sherlock la morte avesse un gran significato -essere sempiterni ha questo
effetto certe volte- ma aveva la vaga sensazione di preferire senz’altro essere
vivo piuttosto che il contrario. Non ci sarebbe stato alcun oltretomba per lui,
solo buio e oblio: vi immaginate la tediosità?
Scosse
con decisione la testa, alzandosi e iniziando a preparare l’unica bevanda che
avrebbe scacciato i brutti ricordi e i cupi pensieri dalla sua mente. In molti
preparavano l’assenzio diluendolo con acqua ghiacciata e addolcendolo con una
zolletta di zucchero. Sherlock preferiva il laudano, puro e semplice.
“Moriarty non mi troverà. Abramg parm[1].”
pensò mentre versava il liquido scuro dentro il bicchiere. Osservò con un mezzo
sorriso la nube che esso formò nel verde brillante dell’assenzio, confortandosi
del fatto che soltanto chi si fosse mosso verso il Castello senza avere
intenzioni negative nei confronti dei suoi abitanti avrebbe potuto
raggiungerlo. Un’indagine della polizia non sarebbe stato che un misero
prurito, fastidioso e niente di più. In quanto al Dottor Watson, beh… Sherlock
sperava che con il tempo avrebbe appreso dai cittadini di Castlecross che
c’erano cose che era meglio far finta di non vedere. Gli sarebbe dispiaciuto
doverlo allontanare… anche se non lo avrebbe mai ammesso, e con mai intendeva
MAI.
***
“Io
giuro che se non mi rimette subito a posto lo strozzo!”
“Miss
Adler…”
“Ma
ti pare, ridurre una povera donna in questo stato? Non si dice che ambasciator
non porta pena?”
“Miss.”
“Oh
mio Dio! Ho un intero pollaio sulla faccia! Un. Pollaio! Ah ma così non va, eh!
Abbiamo un accordo io e lui!”
“Miss
ADLER.”
Irene
si congelò sul posto, interrompendo la marcia di guerra che rischiava di
mietere una vittima innocente: il tappeto persiano che Martha Hudson aveva
sistemato nel salotto quella mattina, e che adesso si pentiva di aver tirato
fuori dalla soffitta.
Guardò
Martha con occhi spiritati, oltraggiata dal fatto che qualcuno avesse osato
interrompere il suo sfogo di nervi prima delle dovute imprecazioni (sareste
sorpresi di conoscere gli improperi che si possono apprendere tra le mura di
una casa del piacere di alto bordo). Normalmente un’impudenza del genere
avrebbe comportato una reazione poco piacevole da parte della donna, reazione
che molte delle ragazze che lavoravano con lei avevano sperimentato, sofferto e
imparato a temere. Ma non aveva davanti una delle sue prostitute, aveva davanti
Mrs. Hudson, e anche se Irene non avesse voluto tener conto delle innumerevoli
volte in cui la donna si era schierata dalla sua parte contro i capricci di
Sherlock avrebbe dovuto comunque considerare la regola d’oro per avere a che
fare con il Demone: MAI alzare la voce con Mrs. Hudson.
Prese
un bel respiro. “Chiamami Irene, Martha. Eravamo migliori amiche una volta.”
L’anziana
donna si bilanciò sulle gambe, stringendosi nelle spalle. Le sorrise
amabilmente, nonostante il disagio.
“Me
lo ricordo. Sembra passata una vita.”
“È
passata una vita. Posso leggerlo nelle rughe della tua faccia.”
Gli
occhi di Martha scintillarono di divertimento, mentre con una mano si copriva
la bocca per trattenere una risata:
“Beh
mia cara, anche le tue rughe sono piuttosto eloquenti.”
Irene
non era una donna altrettanto discreta. La sua risata fu rumorosa e sguaiata,
scosse il suo fragile corpo di anziana dalla testa ai pedi, e provocò un
brontolio infastidito dalla stanza in cui Sherlock si era barricato. Riprese
fiato a fatica, scostandosi un ricciolo candido dalla fronte:
“Touché.
Ma se non fosse per quel lunatico di un Demone avrei la pelle liscia come
quella di un neonato.”
“NON
SONO UN LUNATICO! SONO UN DEMONE MALVAGIO CHE SA DOVE ABITI!” Contribuì
Sherlock dall’altra stanza, provocando nelle due donne un altro scroscio di
risa.
“Se
ai tempi in cui lavoravamo insieme mi avessero detto che le nostre vite
sarebbero state legate a quella di un Demone grande, grosso, pazzo e infantile…
come minimo gli avrei riso in faccia!” esclamò Martha quando fu riuscita a
sedare le risa, asciugando con il palmo della mano una lacrima sfuggitale dagli
occhi, senza far nulla per nascondere l’affetto con cui descriveva Sherlock (nonostante
le parole che avesse scelto fossero tutt’altro che lusinghiere),
“Io
avrei sputato in un occhio a chiunque mi avesse anche solo detto che i Demoni non
erano una sciocca fantasia!”
Martha
scosse la testa, divertita. Irene pensò che, quando rideva, si poteva ancora vedere
nella donna l’ombra della ragazza solare e vivace che era stata un tempo. Prima
di Frank Hudson, prima di Alison e Sherlock. Quando il suo più grande problema
era stato quello di arrivare a fine serata senza che qualche mano-lunga le
assestasse un pizzicotto sul sedere.
Erano
stati bei tempi quelli.
“Come
sta tua figlia?” domandò, prima di potersi frenare.
Il
volto di Martha Hudson si contorse in una serie così rapida di emozioni che
cercare di distinguerne una soltanto sarebbe stato impossibile. Non amava
parlare di Alison. Era come spargere sale su una ferita aperta.
“È
al sicuro, a Londra. Sherlock dice che è sposata e ha una bambina… che ha
chiamato Martha.” La sua voce vacillò un istante, e i suoi occhi si fecero
lucidi. “È felice. Questo è ciò che conta.”
Irene
desiderò posare una mano sulla spalla dell’amica, in un gesto di conforto. Si
bloccò prima che fosse troppo tardi.
“Non
desideri mai vederla? Dirle che sei viva, che non è sola?”
“Ogni
istante di ogni giorno.”
Ma
non poteva, Irene sapeva che non poteva. Era una clausola del suo accordo con
Sherlock, che non potesse lasciare il Castello per niente al mondo. E scrivere
ad Alison senza poi poterla riabbracciare… inaccettabile.
Per
un istante Irene pensò che Martha avesse dovuto pagare un prezzo troppo alto
per quello che aveva ottenuto in cambio.
Poi si ricordò di Frank, e si convinse che anche lei avrebbe pagato qualsiasi
prezzo per togliersi di torno quel mostro.
In
quel momento, cominciò a sentire un lieve pizzicore accendere le estremità dei
suoi arti. Guardò, rapita, mentre il sortilegio di Sherlock stendeva la sua
pelle, eliminando ogni traccia degli anni che Irene aveva trascorso su questa
Terra. Il conforto che provò passandosi una mano fra i capelli e sentendoli
folti, toccandosi il viso e sentendo seta sotto i polpastrelli, difficilmente
potrebbe essere descritto a parole. In fondo, ne era profondamente convinta,
anche lei aveva pagato un prezzo più che giusto per ottenere tutto quello che
Sherlock le garantiva.
“Il
bambinone deve aver esaurito il suo capriccio.” Esclamò Irene, sorridendo a
Martha in maniera complice. La donna la guardò, la testa leggermente piegata di
lato, un’ombra triste negli occhi. Il senso di comunione di pochi istanti prima
spazzato via dalla differenza abissale tra chi aveva sacrificato ogni cosa per
amore, e chi lo aveva fatto per egoismo. “Credo che me ne andrò, adesso. Il
messaggio è arrivato al suo destinatario, io ho un sacco di lavoro da fare.”
“Spero
di rivedervi presto Miss Adler.”
Irene
si avvolse strettamente nella stola di pelliccia, avventurandosi nella neve per
raggiungere la carrozza che l’attendeva ai cancelli della tenuta. E se ebbe la
sensazione che un po’ di quel freddo che avvolgeva nella sua morsa Castlecross
le fosse penetrato nel cuore, certo lei non lo avrebbe confessato ad anima
viva.
***
L’aria
della bottega era pregna dell’odore di pino appena tagliato e pesante per la
sottile polvere di segatura che vorticava tutt’intorno, visibile soltanto nel
raggio di luce che penetrava dall’angolo strappato della tenda. L’imponente
bara, già rivestita di stoffa rossa e pronta per accogliere il suo futuro
occupante, se ne stava appoggiata in un angolo. Quando lo sguardo di John vi si
posò, l’uomo ebbe l’impressione di trovarsi davanti a una bocca che gli
sorrideva in maniera maligna.
“Buonasera
Dottor Watson. Come posso esservi utile?”
John
si riscosse da quei pensieri, forzandosi a sorridere nel modo più cortese
possibile all’anziano signore che era emerso in quel momento da una porticina
celata da un pesante drappo di velluto nero, consunto dal tempo e dall’aria
polverosa. L’uomo - Mr. Finn Hooper,
il proprietario della bottega di onoranze funebri in cui John si trovava -
ricambiò il suo sorriso, sfilandosi gli occhiali e pulendoli pazientemente con
un fazzoletto mentre ascoltava la risposta del Dottore.
“Buona
sera. Sono qui per… ehm… Mr. Donovan. L’ispettore Lestrade ha detto che avrei
potuto trovarlo qui.”
“Oh,
sì. È sul retro, Miss Donovan e mia figlia lo stanno preparando per il
funerale.”
Un
flash di occhi neri gonfi di pianto e spalle sottili scosse dai tremiti strinse
un nodo di inquietudine nella gola di John. L’ultima volta in cui aveva visto
Sally Donovan, due giorni prima, era stato quando era venuta per portare via
dall’ambulatorio sua sorella. Non si era ancora ripreso.
Mr.
Hooper gli lanciò uno sguardo comprensivo,
indicandogli con la mano la porta da cui era uscito lui stesso poco prima. John
annuì debolmente, e appoggiandosi pesantemente sul bastone barcollò fino alla
stanza successiva.
Il
negozio gestito da Mr. Hooper era minuscolo,
incastrato all’angolo tra Durward Street e Hanbury
Lane. Si sviluppava su due piani, di cui uno adibito a residenza per la
famiglia e l’altro, suddiviso in tre stanze, adibito a negozio vero e proprio.
John era diretto nella stanza più interna, quella che era dedicata alla
preparazione dei cadaveri per l’inumazione. A quanto pareva, la tale pratica
quel giorno era stata affidata a Molly, unica figlia di Mr. Hooper,
che dava una mano al padre quando non era impegnata con il suo banchetto di
pizzi. Furono gli occhi di lei, grandi e scuri, la prima cosa che John vide non
appena mise piede nella stanza.
A
differenza del padre, un omaccione alto e ben piazzato, Molly Hooper era una cosina piccola e minuta, dai capelli
castano-rossicci e il viso leggermente appuntito, ma dolce. In ogni caso, la
sua figura sembrava letteralmente sparire se comparata a quella di Sally
Donovan, che vicino a lei vorticava intorno all’immobile figura del padre. Non
appena si accorse di lui, gli occhi della ragazza sembrarono sgranarsi
all’inverosimile, le sue guance prendere fuoco. Poggiò in fretta una mano sulla
spalla di Miss Donovan, indicando la sua direzione quando ebbe l’attenzione
della ragazza.
“Miss
Donovan. Miss Hooper.” Salutò John immediatamente,
notando come il vederlo avesse acceso gli occhi della giovane Donovan di
ostilità.
Miss
Hooper sollevò prontamente una mano, salutandolo
calorosamente senza emettere alcun suono. Miss Donovan, dal canto suo, incrociò
le braccia al petto senza staccare gli occhi da lui.
Il
tono con cui gli si rivolse fu acido puro. “Perché siete qui?”
“Dovevo
parlarvi riguardo vostro padre. Ho provato a rivolgermi a vostra madre… ma ha
detto che dovevo parlare con voi.”
Miss
Donovan sembrò soppesare le sue parole. John si chiese quando di preciso il
dolore che aveva minacciato di spezzarla in due si era tramutato nella rabbia
che sembrava infiammarla.
“Parlate.”
“È
una questione piuttosto delicata…” disse John, guizzando lo sguardo su Miss Hooper,
“Delicata?”
“Decisamente.
Mi sentirei più a mio agio a parlarvene a quattr’occhi.”
Cogliendo
la sua battuta d’uscita, Miss Hooper sorrise
un’ultima volta all’amica, per poi uscire dalla stanza a testa bassa. John si
avvicinò al tavolo su cui era adagiato Mr. Donovan.
Per
quanti cadaveri avesse visto nella sua carriera di medico e soldato, non poté
reprimere il brivido che la vista di quel viso gonfiato dall’acqua fangosa del
fiume.
“Allora?”
lo incalzò Miss Donovan, frapponendosi fra lui e il cadavere del padre,
“La
farò breve. Vorrei praticare un esame autoptico su vostro padre.”
Miss Donovan spalancò gli occhi. “Un… che?”
“Un
esame autoptico. Vorrei… aprirlo…” si schiarì la voce, “… per stabilire cosa
abbia provocato la sua morte.”
John
si aspettava che la ragazza si mettesse ad urlare da un momento all’altro.
Praticare autopsie non era per niente ben accetto, per quanto fosse molto utile
nello stabilire la naturalità di una morte. Sir Thomas Bond, il mentore che gli
aveva insegnato tutto ciò che sapeva riguardo l’arte medica, era stato guardato
con sospetto per tutta la sua vita per le strade di Londra, nonostante la
dedizione con cui avesse lavorato per Scotland Yard. E se a Londra, che era
molto ‘moderna’ se confrontata con altre città, praticare anatomia patologica
era pericolosamente vicino a scendere a patti con il Demonio, John tremava al
solo pensiero di cosa ciò rappresentasse per un paesino come Castlecross.
Tanto
più che stava chiedendo il permesso a niente meno che la figlia del povero
Diavolo che aveva tutta l’intenzione di eviscerare. “Ma il sospetto… il sospetto è troppo grande.”
Per
riconoscerle tutti i suoi meriti, Miss Donovan non gridò, né gli diede del
pazzo. Il primo stupore che aveva provato lasciò ben presto spazio allo
scetticismo, e con una risata di scherno la giovane si fece da parte,
pungolando in maniera eloquente il ventre rigonfio del padre.
“Mio
padre è annegato. Se vi serve ‘aprirlo’ per arrivare a questa conclusione, beh,
siete un medico peggiore di quanto già non sospettassi.”
John
assorbì il colpo, optando per un approccio diplomatico.
“Il
fatto che sia stato ritrovato in acqua non significa che l’acqua sia stata la
causa della sua morte.” Fece un passo avanti, portandosi di fronte alla
ragazza, “Le circostanze in cui è stato trovato, insieme a quello che è
successo a vostra sorella proprio quella stessa notte, sono sospette.
L’Ispettore non sembra pensarla allo stesso modo, ma io non riesco a togliermi
il sospetto che i due eventi siano in qualche modo collegati. Devo… sapere.”
Un’ombra
passò sul volto della giovane Donovan, che si allontanò da lui come da una
presenza ostile e gli voltò le spalle. John poté osservare le sue spalle
incurvarsi, il suo corpo tremare. Fece per raggiungerla e confortarla, quando
la ragazza si girò nuovamente verso di lui, fronteggiandolo con aria di sfida.
“Una
ragazza adorabile, Molly Hooper. Non trovate,
Dottore?”
“Molly
Hoop- come prego?”
John
si era aspettato veramente tutto, fatta eccezione per un tanto repentino cambio
di argomento. Miss Donovan gli lasciò a mala pena il tempo di riprendere il
filo del discorso, prima di incalzarlo nuovamente:
“Miss
Hooper. La ragazza che è appena uscita da quella
porta. Adorabile, non trovate?”
“Sì
ma non vedo come-”
“La
conosco da una vita. Siamo cresciute insieme, io lei e mia sorella.
Inseparabili.”
“Ne
sono certo…”
“E
che voce, che voce! I passanti si fermavano ad ascoltarla quando si metteva a cantare
in giardino. Un usignolo, ve lo assicuro.”
A
questo punto John rinunciò a capire dove la donna volesse andare a parare.
Annuì per cortesia, non proferendo parola.
“Vi
siete chiesto perché non vi abbia rivolto la parola? Perché non abbia emesso un
singolo suono?”
In
realtà no, non se l’era chiesto. Il giorno in cui si era trasferito Mrs. Turner
gli aveva accennato qualcosa riguardo al mutismo della giovane. Certo, lo aveva
attribuito a una storia alquanto assurda, ma John lo aveva accettato come dato
di fatto.
“Sono
a conoscenza del mutismo che affligge la vostra amica, Miss Donovan.”
“Mutismo?
Voi credete che sia… muta?”
John
deglutì, rendendosi conto solo allora di avere la gola tremendamente secca, e
annuì debolmente. Miss Donovan roteò gli occhi, iniziando a parlare quasi con
rabbia:
“È
successo uno- no, due anni fa. Per giorni Molly non fece altro che raccontarmi
di quanto si fosse innamorata di quest’uomo misterioso, di cui non poteva rivelare
nome né provenienza per un qualche vincolo di confidenza. Spariva per ore ogni
giorno, e nessuno di noi sapeva mai dove si recasse. Alla fine, una delle sue
assenze si prolungò per giorni. Poi per settimane. La cercarono ovunque.
Tememmo di vedere suo padre impazzire… poi, quasi un mese dopo, come se nulla fosse
ricomparve. Mr. Hooper era così felice di rivederla
che ci mise dieci minuti buoni per rendersi conto che non era tutta intera.”
Al
Dottore si formò un nodo in gola. “Cosa intendete dire?”
“La
sua lingua. Le avevano tagliato la lingua.”
A
John non venne un capogiro, no. Sentì però la bile risalirgli lungo la gola,
diffondendo un sapore amaro di morte nella sua bocca. “Oh mio Dio… quale mostro
potrebbe mai aver fatto una cosa del genere?”
“Lo
stesso che ha preso gli occhi di mia sorella.”
John
si trovò improvvisamente ancorato al terreno da una forza che sembrava
decisamente intenzionata a schiantarlo a terra. Lo shock fu tanto forte che per
un momento perse la capacità di respirare: fu solo per pura forza di volontà
che riuscì a parlare.
“Se
sapete chi è, Miss Donovan, dobbiamo andare subito a parlare con l’Ispettore
Lestrade. Hanno intenzione di non aprire alcuna indagine, lo sapete?”
“Certo
che so chi è stato. Tutti in paese lo sanno…” Miss Donovan gli lanciò uno
sguardo disgustato, “… a parte voi, ovviamente.”
“E
allora perché nessuno fa niente? Perché le strade non sono invase dai
poliziotti?”
Le
sue domande vennero risposte senza che dovesse neppure esprimerle:
“Non
guardatemi a quel modo. Non c’è niente che qualcuno di noi possa fare in
merito. Stiamo parlando di una creatura non umana, del Demone che infesta il
Castello nella palude!”
Miss
Donovan assestò un pugno poderoso contro il tavolo che sosteneva le spoglie di
Mr. Donovan, che traballò pericolosamente, minacciando di lasciar ricadere il
suo misero fardello sul pavimento.
La
surrealità della situazione stava raggiungendo livelli vorticosi, e John
ringraziò mentalmente di potersi sorreggere sul suo bastone, perché non era
sicuro che le sue gambe avrebbero retto, altrimenti. Guardò la ragazza di
fronte a sé negli occhi, con il misto di timore e pena che si riserva a un
folle: avrebbe tanto voluto imputare quei deliri su Demoni e Castelli infestati
alla mente distrutta dal dolore di una giovane donna che aveva perso il padre,
ma c’era un qualcosa nella convinzione che la infiammava che lo faceva
vacillare.
“Ci crede con tutto il cuore…”
All’improvviso
l’aria della stanza divenne soffocante. L’istinto di John prese il sopravvento
su di lui: irrigidì la spina dorsale, guadagnando nella postura quei due o tre
centimetri che non possedeva naturalmente; la sua mano corse in fretta al suo
fianco, dove il vuoto lasciato dalla sua pistola si palesò con una violenta
scarica di adrenalina. Senza rendersene contò, schioccò la lingua in maniera
minacciosa.
Seguì
una risata esagerata e falsa, piena di veleno.
“Volete
aprire mio padre? Fate pure! Non troverete nulla, LUI non lavora così.” Esclamò
Miss Donovan, avvicinandosi a lui per uscire dalla stanza. Prima di andarsene,
però, lanciò un ultimo, sdegnoso sguardo al corpo del padre, per poi mormorare:
“È incredibile, non credete? Nessuno sa di preciso come trovare quel posto
maledetto, e ci sono riuscite due delle persone più importanti della mia vita.”
La nostalgia che tingeva la sua voce fu abbandonata un istante dopo, quando
sputando veleno ruggì: “Mia sorella è sempre stata una smidollata dal carattere
debole. Avremmo potuto trovare un altro modo per liberarci di lui.”
John
vide nero.
Note dell’autrice:
Eccoci al quarto capitolo…. mi scuso un
milione di volte per la sua lunghezza spropositata, ma dovevo far succedere un
po’ di cose molto in fretta… insomma, molto presto Sherlock e John si
incontreranno, e ci sono alcune cosette che dovevano essere dette prima :)
Se vi chiedete chi sia Thomas Bond e se
sia realmente esistito, fu il medico che praticò gli esami autoptici sulle
vittime di Jack Lo Squartatore… e sì, non fu molto ben visto nella comunità da
quel momento in avanti.
Bene, basta con le mie chiacchiere senza
senso! xD
Vi ringrazio ancora con tutto il cuore
per le vostre parole gentilissime, per i vostri consigli e anche per il fatto
di continuare a leggere questa storia :) Le parole non possono esprimere quanto
io vi sia grata <3
Alla prossima!!
PS:
consigli su come rendere idea della parlata di un ubriaco? Non vorrei ricadere
in un cliché…. xD