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Autore: Black_Lily_13    12/10/2014    3 recensioni
C’erano molte leggende che venivano tramandate a Castlecross, la più famosa di tutte quella riguardante la figura che abitava il castello nel cuore della palude. C’era chi sosteneva che si trattasse di uno Spettro, chi di un Demone. Su una cosa però tutti concordavano: Sherlock era in grado di esaudire i desideri celati nel cuore di chi fosse disposto a rinunciare a qualcosa di prezioso. John Watson, dal canto suo, era un uomo di scienza, e non aveva la minima intenzione di farsi coinvolgere nello strano gusto per il soprannaturale che i suoi nuovi compaesani sembravano condividere. Questo, almeno, fino a quando il destino non decise di portargli via la cosa che più amava al mondo... e lui, impotente, non poté che affidare la sua unica possibilità di salvarla a chi non avrebbe mai creduto potesse esistere. Costretto in cambio a mettersi al servizio di Sherlock per un anno, John imparerà pian piano che il buono può celarsi anche laddove non dovrebbe esserci per antonomasia. E, forse, riuscirà a scoprire e salvare da una minaccia nascosta il cuore di chi credeva di avere il petto pieno di sola polvere.
Genere: Dark, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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IV.        Careless steps

“Stavolta hai fatto i conti senza l’oste Sherlock.”

Sherlock chiuse gli occhi, sospirando amaramente. Non si voltò per accogliere la sua ospite: sapeva perfettamente che il primo e più importante obiettivo nella vita di Irene Adler era attirare tutta l’attenzione possibile su di sé. Non l’avrebbe assecondata.

Quindi, mentre la donna attraversava la stanza con lunghe ed eleganti falcate e il suono dei suoi tacchi lo faceva trasalire ad ogni passo, Sherlock decise che l’avrebbe ignorata fino a quando non avesse capito che la sua presenza non era né gradita né tantomeno richiesta. Ostinato, mantenne il suo sguardo fisso sulle lingue di fuoco che scoppiettavano nel caminetto (e se con un gesto fece sparire l’immagine che vi era riflessa in favore di qualcosa di meno compromettente, beh, lui certo non lo avrebbe detto a nessuno).

“Sherlock?”

La voce vellutata di Irene, insieme al suo fiato caldo che carezzò la sua guancia quando (troppo vicina al viso del Demone per i suoi gusti) parlò, gli fece digrignare i denti. Affondò le unghie nei braccioli della poltrona, il cui legno cedette al suo tocco come se fosse stato burro, e si sforzò di concentrarsi sulle immagini che si muovevano davanti a lui.

Irene lo osservò per un po’, combattuta tra l’idea di buttarsi addosso a Sherlock di peso costringendolo a dar credito alla sua presenza e quella di attendere che la continua invasione del suo spazio personale facesse il lavoro al posto suo. Piegò la bocca in un sorriso affilato come la lama di un coltello, voltando la testa con fluida lentezza verso il teschio che, dal camino, non aveva smesso un attimo di osservarla.

“Da quanto è in quello stato, Yorick?” chiese, accennando con il capo nella direzione di Sherlock.

“Da ieri notte più o meno. Non ha fatto che fissare le fiamme e struggersi per quel Dott-”

Il teschio fu interrotto da un ringhio cupo e minaccioso, un non osare terminare quella frase che non aveva bisogno di parole per essere espresso. Irene sogghignò: a quanto pareva Sherlock non era poi così in catalessi come dava a vedere. Lanciò a Yorick uno sguardo d’intesa, e fingendo di osservarsi le unghie con nonchalance chiese:

“Dott- sta per…?”

“Dottore.” fu la svelta risposta del sadico, bianco soprammobile. Sherlock ringhiò più forte.

“Oh, non parlerai del Dottor Watson, vero? Un tipo tanto ordinario, capace di detenere la sua attenzione per tanto tempo? Com’è possibile? È assurdo.”

La donna non fece niente per nascondere la derisione nella sua voce, e Sherlock alzò gli occhi al cielo. Com’è possibile? aveva chiesto. Beh, Sherlock avrebbe dato di tutto per poter dare una risposta logica - di quelle piene di cavilli che piacevano tanto al Demone - a quella domanda. Non poteva. E il motivo, davvero, era semplice: non ne aveva la più pallida idea neppure lui.

Se c’era qualcosa di cui era sempre stato più che certo, e mai nei suoi cinquecento anni di vita aveva incontrato qualcos’altro che potesse far vacillare questa sua sicurezza, era che gli esseri umani fossero creature sostanzialmente noiose. Non necessariamente per costituzione (non bisognava certo essere Dio per vedere quanto contorte erano talvolta le loro menti), ma per scelta: come branchi di pecore prive di volontà si lasciavano guidare da chiunque impugnasse il bastone del comando, senza personalità, senza spina dorsale. Se qualcuno di loro osava alzare la testa e tentare di opporsi a quell’ingiusta oligarchia, veniva additato e trattato da reietto… e a quel punto le cose si facevano interessanti.

Perché nelle sciocche menti degli umani, diverso e spaventoso sono equivalenti, e la paura ha dei risultati decisamente piacevoli (per chi le osserva, per lo meno). Per non parlare poi dei danni che la continua repressione dei propri istinti causava sulle deboli menti di chi si trovava ad essere dalla parte sbagliata dei pulpiti: i gesti che nascevano dal dolore di un sicuro rifiuto erano qualcosa di straordinario.

Sherlock aveva lasciato il Mondo dei Demoni proprio per quella ragione: per l’imprevedibilità delle menti umane sconvolte dal terrore, o dalla follia. I crimini più efferati, i gesti più oscuri, erano l’unico sostentamento che richiedeva. Ripercorrere i passi di chi li aveva commessi, ricostruire pezzo a pezzo le loro mosse e comprendere il come e il perché era il suo unico scopo, il suo Lavoro.

Tutto il resto del tempo era una lotta continua contro la noia.

E allora perché? Perché quella notte non si era dedicato ad un esperimento come al suo solito? Perché, pur essendo rimasto seduto da ORE nella solita posizione, senza che la musica del suo violino lo distraesse o che il prospetto di un nuovo rompicapo da risolvere lo dilettasse, la noia non aveva artigliato i suoi sensi costringendolo a fare qualcosa per non impazzire?

Di solito quando non stava dimostrando l’azione di una sostanza acida su un tessuto umano o non si stava dedicando al Lavoro, i suoi sensi (liberi di cogliere e registrare ogni minima cosa che lo circondasse) venivano sovra-stimolati e lui finiva per dare di matto. Niente di tutto ciò era accaduto durante quella particolare notte.

No, era stato troppo impegnato a osservare quell’uomo che si chiamava John Watson, a commentare ogni sua mossa e bere ogni suo gesto, per sentire i morsi della noia. Un uomo ordinario in ogni senso possibile aveva detenuto il giogo della sua mente per un’intera notte, e lo aveva lasciato con il desiderio di sapere di più, di andare oltre ai dati che quelle immagini piatte e falsate e quei suoni ovattati e interrotti dal crepitio del focolare o dagli schiocchi del legno in fiamme potevano fornirgli.

Voleva vedere con i propri occhi, voleva annusare, voleva toccare. Se non poteva farlo, a cosa gli servivano i suoi sensi amplificati di Demone?

Sherlock inclinò la testa di lato, sbuffando per la frustrazione. Stava impazzendo, molto probabilmente.

“Vuota il sacco. Perché sei qui?” quasi gridò, afferrando la mano che Irene stava passando pigramente fra i suoi capelli.

“Ah bene! Hai finito di ignorarmi, caro?”

“Perché. Sei. Qui.” Il non chiamarmi caro era chiaro ma sottointeso.

Irene sospirò teatralmente, lasciandosi ricadere in maniera drammatica sul divano posizionato alle spalle del Demone. Si tolse i guanti con lentezza, come se il procedimento di sfilare ogni dito dalla sua veste di pizzo richiedesse fatica e concentrazione, il tutto solo per irritare Sherlock un altro po’. Com’è ovvio, ci riuscì alla perfezione: il Demone scattò in piedi, i capelli ritti sulla nuca, minacciandola di riprendersi il dono che le aveva concesso se non avesse parlato immediatamente.

Irene lo guardò, per niente impressionata. “Sbaglio o il suo umore è peggiorato?” domandò, rivolgendosi a Yorick.

Se un teschio avesse potuto alzare le spalle Yorick lo avrebbe fatto. Purtroppo, dovette accontentarsi di esalare un sospiro di pura rassegnazione, che aveva tutta l’aria di voler dire Lascia perdere, IO devo sopportarlo ventiquattro ore al giorno da duecento anni a questa parte.

“Irene…” ringhiò Sherlock. Quando la donna non parlò, Sherlock mosse un dito: il colore scomparve dai capelli di Irene, che si ritrovò con una nube di riccioli candidi a scenderle sulle spalle; profonde rughe apparvero sul suo volto, cicatrici di una vita vissuta e mai raccontata. Di Irene Adler, ‘La Donna’, non rimase che la pallida ombra di uno splendore che fu.

“Dannazione, Sherlock!”

“Ti avevo avvertita.”

“Non c’era alcun bisogno di-”

“Ti consiglio di parlare. Il tempo corre, e tu non stai certo ringiovanendo.”

Irene sbuffò, storcendo la bocca in una ragnatela di rughe che gridavano rabbia. Si rialzò dal divano, un concerto di scricchiolii di ossa fragili e vecchie, e si portò davanti a Sherlock.

“La tua ultima cliente è tornata al villaggio stanotte.” Gli disse con voce roca e polverosa,

“Ovviamen-”

“E anche il suo adorabile paparino è tornato a galla.”

“Lo so!”

E lo sapeva, aveva visto tutto, perché Irene lo scocciava con delle notizie inutili e ridondanti?

“Allora saprai anche che l’Ispettore Lestrade ha interrogato il Dottore.”

“Certo che lo so, per chi mi hai preso?”

Irene guardò Sherlock negli occhi, leggendo la sua espressione di sfida. Se avesse dato retta al suo istinto gli avrebbe stampato uno schiaffo sul viso: per fortuna aveva smesso di ascoltare la vocina che le suggeriva di picchiare il Demone anni e anni fa.

“Bene. E sai che Lestrade gli ha chiesto di dichiarare che la morte di Ford è stata accidentale, e che gli occhi di sua figlia sono stati rimossi con una procedura medica a causa di un’infezione?”

Sherlock grugnì. Non era in possesso di tali informazioni, ma sarebbe potuto arrivarci per logica: tutte le volte che accadeva a Castlecross qualcosa riconducibile al suo operato di Demone la polizia glissava il problema riducendo tutto a inspiegabili malattie o incidenti vari. Lestrade era ottimo in questo, come lo erano stati suo padre e suo nonno prima di lui. Per questo erano ancora vivi, in fondo.

Un sospiro ci stava a pennello. “Senti, se questo è tutto quello che hai da dirmi allora…”

“Il Dottore si è rifiutato.”

Un silenzio di tomba, interrotto solo dall’esclamazione di sorpresa di Yorick, piombò nella stanza. Anche il tempo sembrò trattenere il fiato mentre Sherlock metabolizzava la notizia: d’un tratto, aveva trovato un nuovo motivo per interessarsi del Dottore… uno che implicava un pizzico di attenzione in più, però.

Guardò Irene negli occhi. “Vorranno aprire un’indagine.”

Non era una domanda, ma Irene rispose lo stesso: “Mmmh. In ogni caso sono già a conoscenza del tuo coinvolgimento. Tutto il paese è in fibrillazione e grida ‘Al Demone!’”

Sherlock rise. “E cosa possono fare? Ingaggiare un’esorcista?” si alzò dalla poltrona, che scricchiolò per la mancanza del peso che l’aveva occupata ininterrottamente per ore, “Anche se mi cercassero e mi trovassero -cosa che non faranno, lo so io e lo sai tu- non c’è assolutamente NIENTE che possano farmi.”

“A parte condurre Moriarty da te.”

Probabilmente non è cosa conosciuta dai più, ma è d’obbligo a questo punto sapere che nelle vene dei Demoni (di quelli superiori, almeno) scorre sì sangue, ma ad una temperatura così elevata da ricordare il bollente magma che scorre nelle parti più interne della Terra. Anche le loro lacrime, per quanto raramente si possano trovare cronache di Demoni che ne abbiano versate, condividono questa particolare proprietà. Ci sono varie teorie, sostenute da teologi i cui nomi vengono sussurrati con rispetto nei circoli più segreti, riguardo al motivo di tutto ciò: c’è chi sostiene che sia conseguenza dell’ambiente in cui vivono, e chi invece è più che certo che sia un’altra delle caratteristiche conferite loro durante la Caduta per renderli ancor più incompatibili con gli altri esseri del Creato. Ma non è questa la cosa importante: ciò che conta è sapere che a Sherlock, quando il nome di Moriarty riecheggiò nella stanza, il sangue si gelò nelle vene.

Prima che riuscisse a indossare la sua maschera di apatia, sul suo volto scivolarono emozioni di rabbia, vergogna e paura, per nascondere le quali il Demone turbinò fuori dalla stanza, per andare a rinchiudersi nello studio sbattendosi la porta alle spalle. Ignorò con ostinazione Mrs. Hudson, che dalla cucina gli domandava se fosse tutto a posto; ignorò anche Irene, che si lamentava del fatto che non le avesse restituito la sua giovinezza (tanto, in una trentina di minuti quella sarebbe ritornata comunque): tremante come una foglia si lasciò ricadere contro quella stessa porta, le mani tuffate nei capelli, il fiato bloccato in gola.

Moriarty. Il più grande errore della sua vita.

Il suo nemico, il suo incubo.

Il simbolo vivente della sua vanità e debolezza.

Se il Negromante lo avesse trovato, sarebbe stata sicuramente la sua fine. Non che per Sherlock la morte avesse un gran significato -essere sempiterni ha questo effetto certe volte- ma aveva la vaga sensazione di preferire senz’altro essere vivo piuttosto che il contrario. Non ci sarebbe stato alcun oltretomba per lui, solo buio e oblio: vi immaginate la tediosità?

Scosse con decisione la testa, alzandosi e iniziando a preparare l’unica bevanda che avrebbe scacciato i brutti ricordi e i cupi pensieri dalla sua mente. In molti preparavano l’assenzio diluendolo con acqua ghiacciata e addolcendolo con una zolletta di zucchero. Sherlock preferiva il laudano, puro e semplice.

Moriarty non mi troverà. Abramg parm[1].” pensò mentre versava il liquido scuro dentro il bicchiere. Osservò con un mezzo sorriso la nube che esso formò nel verde brillante dell’assenzio, confortandosi del fatto che soltanto chi si fosse mosso verso il Castello senza avere intenzioni negative nei confronti dei suoi abitanti avrebbe potuto raggiungerlo. Un’indagine della polizia non sarebbe stato che un misero prurito, fastidioso e niente di più. In quanto al Dottor Watson, beh… Sherlock sperava che con il tempo avrebbe appreso dai cittadini di Castlecross che c’erano cose che era meglio far finta di non vedere. Gli sarebbe dispiaciuto doverlo allontanare… anche se non lo avrebbe mai ammesso, e con mai intendeva MAI.

***

“Io giuro che se non mi rimette subito a posto lo strozzo!”

“Miss Adler…”

“Ma ti pare, ridurre una povera donna in questo stato? Non si dice che ambasciator non porta pena?”

“Miss.”

“Oh mio Dio! Ho un intero pollaio sulla faccia! Un. Pollaio! Ah ma così non va, eh! Abbiamo un accordo io e lui!”

“Miss ADLER.”

Irene si congelò sul posto, interrompendo la marcia di guerra che rischiava di mietere una vittima innocente: il tappeto persiano che Martha Hudson aveva sistemato nel salotto quella mattina, e che adesso si pentiva di aver tirato fuori dalla soffitta.

Guardò Martha con occhi spiritati, oltraggiata dal fatto che qualcuno avesse osato interrompere il suo sfogo di nervi prima delle dovute imprecazioni (sareste sorpresi di conoscere gli improperi che si possono apprendere tra le mura di una casa del piacere di alto bordo). Normalmente un’impudenza del genere avrebbe comportato una reazione poco piacevole da parte della donna, reazione che molte delle ragazze che lavoravano con lei avevano sperimentato, sofferto e imparato a temere. Ma non aveva davanti una delle sue prostitute, aveva davanti Mrs. Hudson, e anche se Irene non avesse voluto tener conto delle innumerevoli volte in cui la donna si era schierata dalla sua parte contro i capricci di Sherlock avrebbe dovuto comunque considerare la regola d’oro per avere a che fare con il Demone: MAI alzare la voce con Mrs. Hudson.

Prese un bel respiro. “Chiamami Irene, Martha. Eravamo migliori amiche una volta.”

L’anziana donna si bilanciò sulle gambe, stringendosi nelle spalle. Le sorrise amabilmente, nonostante il disagio.

“Me lo ricordo. Sembra passata una vita.”

È passata una vita. Posso leggerlo nelle rughe della tua faccia.”

Gli occhi di Martha scintillarono di divertimento, mentre con una mano si copriva la bocca per trattenere una risata:

“Beh mia cara, anche le tue rughe sono piuttosto eloquenti.”

Irene non era una donna altrettanto discreta. La sua risata fu rumorosa e sguaiata, scosse il suo fragile corpo di anziana dalla testa ai pedi, e provocò un brontolio infastidito dalla stanza in cui Sherlock si era barricato. Riprese fiato a fatica, scostandosi un ricciolo candido dalla fronte:

“Touché. Ma se non fosse per quel lunatico di un Demone avrei la pelle liscia come quella di un neonato.”

“NON SONO UN LUNATICO! SONO UN DEMONE MALVAGIO CHE SA DOVE ABITI!” Contribuì Sherlock dall’altra stanza, provocando nelle due donne un altro scroscio di risa.

“Se ai tempi in cui lavoravamo insieme mi avessero detto che le nostre vite sarebbero state legate a quella di un Demone grande, grosso, pazzo e infantile… come minimo gli avrei riso in faccia!” esclamò Martha quando fu riuscita a sedare le risa, asciugando con il palmo della mano una lacrima sfuggitale dagli occhi, senza far nulla per nascondere l’affetto con cui descriveva Sherlock (nonostante le parole che avesse scelto fossero tutt’altro che lusinghiere),

“Io avrei sputato in un occhio a chiunque mi avesse anche solo detto che i Demoni non erano una sciocca fantasia!”

Martha scosse la testa, divertita. Irene pensò che, quando rideva, si poteva ancora vedere nella donna l’ombra della ragazza solare e vivace che era stata un tempo. Prima di Frank Hudson, prima di Alison e Sherlock. Quando il suo più grande problema era stato quello di arrivare a fine serata senza che qualche mano-lunga le assestasse un pizzicotto sul sedere.

Erano stati bei tempi quelli.

“Come sta tua figlia?” domandò, prima di potersi frenare.

Il volto di Martha Hudson si contorse in una serie così rapida di emozioni che cercare di distinguerne una soltanto sarebbe stato impossibile. Non amava parlare di Alison. Era come spargere sale su una ferita aperta.

“È al sicuro, a Londra. Sherlock dice che è sposata e ha una bambina… che ha chiamato Martha.” La sua voce vacillò un istante, e i suoi occhi si fecero lucidi. “È felice. Questo è ciò che conta.”

Irene desiderò posare una mano sulla spalla dell’amica, in un gesto di conforto. Si bloccò prima che fosse troppo tardi.

“Non desideri mai vederla? Dirle che sei viva, che non è sola?”

“Ogni istante di ogni giorno.”

Ma non poteva, Irene sapeva che non poteva. Era una clausola del suo accordo con Sherlock, che non potesse lasciare il Castello per niente al mondo. E scrivere ad Alison senza poi poterla riabbracciare… inaccettabile.

Per un istante Irene pensò che Martha avesse dovuto pagare un prezzo troppo alto per  quello che aveva ottenuto in cambio. Poi si ricordò di Frank, e si convinse che anche lei avrebbe pagato qualsiasi prezzo per togliersi di torno quel mostro.

In quel momento, cominciò a sentire un lieve pizzicore accendere le estremità dei suoi arti. Guardò, rapita, mentre il sortilegio di Sherlock stendeva la sua pelle, eliminando ogni traccia degli anni che Irene aveva trascorso su questa Terra. Il conforto che provò passandosi una mano fra i capelli e sentendoli folti, toccandosi il viso e sentendo seta sotto i polpastrelli, difficilmente potrebbe essere descritto a parole. In fondo, ne era profondamente convinta, anche lei aveva pagato un prezzo più che giusto per ottenere tutto quello che Sherlock le garantiva.

“Il bambinone deve aver esaurito il suo capriccio.” Esclamò Irene, sorridendo a Martha in maniera complice. La donna la guardò, la testa leggermente piegata di lato, un’ombra triste negli occhi. Il senso di comunione di pochi istanti prima spazzato via dalla differenza abissale tra chi aveva sacrificato ogni cosa per amore, e chi lo aveva fatto per egoismo. “Credo che me ne andrò, adesso. Il messaggio è arrivato al suo destinatario, io ho un sacco di lavoro da fare.”

“Spero di rivedervi presto Miss Adler.”

Irene si avvolse strettamente nella stola di pelliccia, avventurandosi nella neve per raggiungere la carrozza che l’attendeva ai cancelli della tenuta. E se ebbe la sensazione che un po’ di quel freddo che avvolgeva nella sua morsa Castlecross le fosse penetrato nel cuore, certo lei non lo avrebbe confessato ad anima viva.

***

L’aria della bottega era pregna dell’odore di pino appena tagliato e pesante per la sottile polvere di segatura che vorticava tutt’intorno, visibile soltanto nel raggio di luce che penetrava dall’angolo strappato della tenda. L’imponente bara, già rivestita di stoffa rossa e pronta per accogliere il suo futuro occupante, se ne stava appoggiata in un angolo. Quando lo sguardo di John vi si posò, l’uomo ebbe l’impressione di trovarsi davanti a una bocca che gli sorrideva in maniera maligna.

“Buonasera Dottor Watson. Come posso esservi utile?”

John si riscosse da quei pensieri, forzandosi a sorridere nel modo più cortese possibile all’anziano signore che era emerso in quel momento da una porticina celata da un pesante drappo di velluto nero, consunto dal tempo e dall’aria polverosa. L’uomo - Mr. Finn Hooper, il proprietario della bottega di onoranze funebri in cui John si trovava - ricambiò il suo sorriso, sfilandosi gli occhiali e pulendoli pazientemente con un fazzoletto mentre ascoltava la risposta del Dottore.

“Buona sera. Sono qui per… ehm… Mr. Donovan. L’ispettore Lestrade ha detto che avrei potuto trovarlo qui.”

“Oh, sì. È sul retro, Miss Donovan e mia figlia lo stanno preparando per il funerale.”

Un flash di occhi neri gonfi di pianto e spalle sottili scosse dai tremiti strinse un nodo di inquietudine nella gola di John. L’ultima volta in cui aveva visto Sally Donovan, due giorni prima, era stato quando era venuta per portare via dall’ambulatorio sua sorella. Non si era ancora ripreso.

Mr. Hooper gli lanciò uno sguardo comprensivo, indicandogli con la mano la porta da cui era uscito lui stesso poco prima. John annuì debolmente, e appoggiandosi pesantemente sul bastone barcollò fino alla stanza successiva.

Il negozio gestito da Mr. Hooper era minuscolo, incastrato all’angolo tra Durward Street e Hanbury Lane. Si sviluppava su due piani, di cui uno adibito a residenza per la famiglia e l’altro, suddiviso in tre stanze, adibito a negozio vero e proprio. John era diretto nella stanza più interna, quella che era dedicata alla preparazione dei cadaveri per l’inumazione. A quanto pareva, la tale pratica quel giorno era stata affidata a Molly, unica figlia di Mr. Hooper, che dava una mano al padre quando non era impegnata con il suo banchetto di pizzi. Furono gli occhi di lei, grandi e scuri, la prima cosa che John vide non appena mise piede nella stanza.

A differenza del padre, un omaccione alto e ben piazzato, Molly Hooper era una cosina piccola e minuta, dai capelli castano-rossicci e il viso leggermente appuntito, ma dolce. In ogni caso, la sua figura sembrava letteralmente sparire se comparata a quella di Sally Donovan, che vicino a lei vorticava intorno all’immobile figura del padre. Non appena si accorse di lui, gli occhi della ragazza sembrarono sgranarsi all’inverosimile, le sue guance prendere fuoco. Poggiò in fretta una mano sulla spalla di Miss Donovan, indicando la sua direzione quando ebbe l’attenzione della ragazza.

“Miss Donovan. Miss Hooper.” Salutò John immediatamente, notando come il vederlo avesse acceso gli occhi della giovane Donovan di ostilità.

Miss Hooper sollevò prontamente una mano, salutandolo calorosamente senza emettere alcun suono. Miss Donovan, dal canto suo, incrociò le braccia al petto senza staccare gli occhi da lui.

Il tono con cui gli si rivolse fu acido puro. “Perché siete qui?”

“Dovevo parlarvi riguardo vostro padre. Ho provato a rivolgermi a vostra madre… ma ha detto che dovevo parlare con voi.”

Miss Donovan sembrò soppesare le sue parole. John si chiese quando di preciso il dolore che aveva minacciato di spezzarla in due si era tramutato nella rabbia che sembrava infiammarla.

“Parlate.”

“È una questione piuttosto delicata…” disse John, guizzando lo sguardo su Miss Hooper,

“Delicata?”

“Decisamente. Mi sentirei più a mio agio a parlarvene a quattr’occhi.”

Cogliendo la sua battuta d’uscita, Miss Hooper sorrise un’ultima volta all’amica, per poi uscire dalla stanza a testa bassa. John si avvicinò al tavolo su cui era adagiato Mr. Donovan.

Per quanti cadaveri avesse visto nella sua carriera di medico e soldato, non poté reprimere il brivido che la vista di quel viso gonfiato dall’acqua fangosa del fiume.

“Allora?” lo incalzò Miss Donovan, frapponendosi fra lui e il cadavere del padre,

“La farò breve. Vorrei praticare un esame autoptico su vostro padre.”

 Miss Donovan spalancò gli occhi. “Un… che?”

“Un esame autoptico. Vorrei… aprirlo…” si schiarì la voce, “… per stabilire cosa abbia provocato la sua morte.”

John si aspettava che la ragazza si mettesse ad urlare da un momento all’altro. Praticare autopsie non era per niente ben accetto, per quanto fosse molto utile nello stabilire la naturalità di una morte. Sir Thomas Bond, il mentore che gli aveva insegnato tutto ciò che sapeva riguardo l’arte medica, era stato guardato con sospetto per tutta la sua vita per le strade di Londra, nonostante la dedizione con cui avesse lavorato per Scotland Yard. E se a Londra, che era molto ‘moderna’ se confrontata con altre città, praticare anatomia patologica era pericolosamente vicino a scendere a patti con il Demonio, John tremava al solo pensiero di cosa ciò rappresentasse per un paesino come Castlecross.

Tanto più che stava chiedendo il permesso a niente meno che la figlia del povero Diavolo che aveva tutta l’intenzione di eviscerare. “Ma il sospetto… il sospetto è troppo grande.”

Per riconoscerle tutti i suoi meriti, Miss Donovan non gridò, né gli diede del pazzo. Il primo stupore che aveva provato lasciò ben presto spazio allo scetticismo, e con una risata di scherno la giovane si fece da parte, pungolando in maniera eloquente il ventre rigonfio del padre.

“Mio padre è annegato. Se vi serve ‘aprirlo’ per arrivare a questa conclusione, beh, siete un medico peggiore di quanto già non sospettassi.”

John assorbì il colpo, optando per un approccio diplomatico.

“Il fatto che sia stato ritrovato in acqua non significa che l’acqua sia stata la causa della sua morte.” Fece un passo avanti, portandosi di fronte alla ragazza, “Le circostanze in cui è stato trovato, insieme a quello che è successo a vostra sorella proprio quella stessa notte, sono sospette. L’Ispettore non sembra pensarla allo stesso modo, ma io non riesco a togliermi il sospetto che i due eventi siano in qualche modo collegati. Devo… sapere.”

Un’ombra passò sul volto della giovane Donovan, che si allontanò da lui come da una presenza ostile e gli voltò le spalle. John poté osservare le sue spalle incurvarsi, il suo corpo tremare. Fece per raggiungerla e confortarla, quando la ragazza si girò nuovamente verso di lui, fronteggiandolo con aria di sfida.

“Una ragazza adorabile, Molly Hooper. Non trovate, Dottore?”

“Molly Hoop- come prego?”

John si era aspettato veramente tutto, fatta eccezione per un tanto repentino cambio di argomento. Miss Donovan gli lasciò a mala pena il tempo di riprendere il filo del discorso, prima di incalzarlo nuovamente:

“Miss Hooper. La ragazza che è appena uscita da quella porta. Adorabile, non trovate?”

“Sì ma non vedo come-”

“La conosco da una vita. Siamo cresciute insieme, io lei e mia sorella. Inseparabili.”

“Ne sono certo…”

“E che voce, che voce! I passanti si fermavano ad ascoltarla quando si metteva a cantare in giardino. Un usignolo, ve lo assicuro.”

A questo punto John rinunciò a capire dove la donna volesse andare a parare. Annuì per cortesia, non proferendo parola.

“Vi siete chiesto perché non vi abbia rivolto la parola? Perché non abbia emesso un singolo suono?”

In realtà no, non se l’era chiesto. Il giorno in cui si era trasferito Mrs. Turner gli aveva accennato qualcosa riguardo al mutismo della giovane. Certo, lo aveva attribuito a una storia alquanto assurda, ma John lo aveva accettato come dato di fatto.

“Sono a conoscenza del mutismo che affligge la vostra amica, Miss Donovan.”

“Mutismo? Voi credete che sia… muta?”

John deglutì, rendendosi conto solo allora di avere la gola tremendamente secca, e annuì debolmente. Miss Donovan roteò gli occhi, iniziando a parlare quasi con rabbia:

“È successo uno- no, due anni fa. Per giorni Molly non fece altro che raccontarmi di quanto si fosse innamorata di quest’uomo misterioso, di cui non poteva rivelare nome né provenienza per un qualche vincolo di confidenza. Spariva per ore ogni giorno, e nessuno di noi sapeva mai dove si recasse. Alla fine, una delle sue assenze si prolungò per giorni. Poi per settimane. La cercarono ovunque. Tememmo di vedere suo padre impazzire… poi, quasi un mese dopo, come se nulla fosse ricomparve. Mr. Hooper era così felice di rivederla che ci mise dieci minuti buoni per rendersi conto che non era tutta intera.”

Al Dottore si formò un nodo in gola. “Cosa intendete dire?”

“La sua lingua. Le avevano tagliato la lingua.”

A John non venne un capogiro, no. Sentì però la bile risalirgli lungo la gola, diffondendo un sapore amaro di morte nella sua bocca. “Oh mio Dio… quale mostro potrebbe mai aver fatto una cosa del genere?”

“Lo stesso che ha preso gli occhi di mia sorella.”

John si trovò improvvisamente ancorato al terreno da una forza che sembrava decisamente intenzionata a schiantarlo a terra. Lo shock fu tanto forte che per un momento perse la capacità di respirare: fu solo per pura forza di volontà che riuscì a parlare.

“Se sapete chi è, Miss Donovan, dobbiamo andare subito a parlare con l’Ispettore Lestrade. Hanno intenzione di non aprire alcuna indagine, lo sapete?”

“Certo che so chi è stato. Tutti in paese lo sanno…” Miss Donovan gli lanciò uno sguardo disgustato, “… a parte voi, ovviamente.”

 E allora perché nessuno fa niente? Perché le strade non sono invase dai poliziotti?”

Le sue domande vennero risposte senza che dovesse neppure esprimerle:

“Non guardatemi a quel modo. Non c’è niente che qualcuno di noi possa fare in merito. Stiamo parlando di una creatura non umana, del Demone che infesta il Castello nella palude!”

Miss Donovan assestò un pugno poderoso contro il tavolo che sosteneva le spoglie di Mr. Donovan, che traballò pericolosamente, minacciando di lasciar ricadere il suo misero fardello sul pavimento.

La surrealità della situazione stava raggiungendo livelli vorticosi, e John ringraziò mentalmente di potersi sorreggere sul suo bastone, perché non era sicuro che le sue gambe avrebbero retto, altrimenti. Guardò la ragazza di fronte a sé negli occhi, con il misto di timore e pena che si riserva a un folle: avrebbe tanto voluto imputare quei deliri su Demoni e Castelli infestati alla mente distrutta dal dolore di una giovane donna che aveva perso il padre, ma c’era un qualcosa nella convinzione che la infiammava che lo faceva vacillare.

“Ci crede con tutto il cuore…”

All’improvviso l’aria della stanza divenne soffocante. L’istinto di John prese il sopravvento su di lui: irrigidì la spina dorsale, guadagnando nella postura quei due o tre centimetri che non possedeva naturalmente; la sua mano corse in fretta al suo fianco, dove il vuoto lasciato dalla sua pistola si palesò con una violenta scarica di adrenalina. Senza rendersene contò, schioccò la lingua in maniera minacciosa.

Seguì una risata esagerata e falsa, piena di veleno.

“Volete aprire mio padre? Fate pure! Non troverete nulla, LUI non lavora così.” Esclamò Miss Donovan, avvicinandosi a lui per uscire dalla stanza. Prima di andarsene, però, lanciò un ultimo, sdegnoso sguardo al corpo del padre, per poi mormorare: “È incredibile, non credete? Nessuno sa di preciso come trovare quel posto maledetto, e ci sono riuscite due delle persone più importanti della mia vita.” La nostalgia che tingeva la sua voce fu abbandonata un istante dopo, quando sputando veleno ruggì: “Mia sorella è sempre stata una smidollata dal carattere debole. Avremmo potuto trovare un altro modo per liberarci di lui.”

John vide nero.

 

 

 

Note dell’autrice:

Eccoci al quarto capitolo…. mi scuso un milione di volte per la sua lunghezza spropositata, ma dovevo far succedere un po’ di cose molto in fretta… insomma, molto presto Sherlock e John si incontreranno, e ci sono alcune cosette che dovevano essere dette prima :)

Se vi chiedete chi sia Thomas Bond e se sia realmente esistito, fu il medico che praticò gli esami autoptici sulle vittime di Jack Lo Squartatore… e sì, non fu molto ben visto nella comunità da quel momento in avanti.

Bene, basta con le mie chiacchiere senza senso! xD

Vi ringrazio ancora con tutto il cuore per le vostre parole gentilissime, per i vostri consigli e anche per il fatto di continuare a leggere questa storia :) Le parole non possono esprimere quanto io vi sia grata <3

Alla prossima!!

PS: consigli su come rendere idea della parlata di un ubriaco? Non vorrei ricadere in un cliché…. xD



[1] Abramg par: mi sono preparato per sfuggirgli.

   
 
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